Alessio PONZIO, La palestra del Littorio. L’Accademia della Farnesina:
un esperimento di pedagogia totalitaria nell’Italia fascista

Milano, FrancoAngeli, 2009, pp. 280

Domenico Francesco Antonio Elia

Università degli Studi di Bari «Aldo Moro»

Nell’ambito delle pubblicazioni che negli ultimi quarant’anni, a partire dalla pionieristiche opere di Betti, De Felice, Gentile e Zapponi, si sono occupate della storia dell’associazionismo giovanile e della formazione della classe docente in epoca fascista, si segnala per la sua capacità approfondita di analisi il volume di Alessio Ponzio intitolato La palestra del Littorio. L’Accademia della Farnesina: un esperimento di pedagogia totalitaria nell’Italia fascista (Milano, FrancoAngeli, 2009). Il focus della monografia si basa sulla ricostruzione della storia dell’Accademia della Farnesina, luogo deputato alla formazione degli «insegnanti di educazione fisica delle scuole medie dell’Italia fascista e [de]gli istruttori ginnici dell’organizzazione giovanile del regime» (pp. 10-11). Il volume si articola in 10 capitoli, che affrontano il complesso rapporto tra la dimensione corporea e il fascismo, dall’Istituzione dell’Ente nazionale per l’educazione fisica nel 1923 alle vicende travagliate occorse in seguito alla caduta del regime nel 1943 (pp. 223-226). Conclude l’opera un capitolo dedicato agli accademisti e al loro differente grado di adesione alle politiche totalitarie fasciste. Il volume di Ponzio lumeggia quelli che furono i veri scopi dell’Accademia, che non si limitò alla formazione del personale adibito all’insegnamento della ginnastica, ma si trasformò in un «centro per la formazione della dirigenza giovanile maschile» (p. 11). L’autore sottolinea l’importanza di un progetto educativo totalitario del regime, un punto focale del suo volume, ribadito anche dalla storiografia educativa coeva, che ha definito il fascismo come un «totalitarismo educatore» (De Giorgi, 2008, pp. 184-216). L’incompiutezza fattuale di questo progetto non può attribuirsi a una sua debolezza strutturale; essa, invece, deve ricondursi alla mancanza di tempo necessario «per realizzare pienamente la rivoluzione antropologica del popolo italiano» (p. 13). L’istituto della Farnesina prese la forma di un convitto, secondo gli orientamenti del presidente dell’Opera nazionale balilla (ONB), Renato Ricci (1896-1956): già nelle premesse, dunque, emergeva il progetto totalitario del fascismo, basato su un internato degli allievi che «avrebbe dovuto suscitare e consolidare in loro, attraverso la condivisione delle esperienze quotidiane e l’attenta assistenza dell’organizzazione giovanile, la mentalità, lo spirito ed il costume propri del fascismo» (p. ٣٤). Nel novembre del 1928, dopo pochi mesi di attività, la Scuola della Farnesina mutò il proprio nome in «Accademia di educazione fisica e giovanile»: non si trattò di un semplice cambio onomastico, perché mutati erano anche gli obiettivi dell’istituto. Gli allievi dell’Accademia, infatti, erano «entrati nell’Istituto con l’idea che ne sarebbero usciti con un diploma, un’abilitazione e un posto sicuro essenzialmente nella scuola; ne uscirono invece con un grado da ufficiali dirigenti [dell’ONB]» (p. ٤٧). Il testo unico per gli «Istituti superiori con ordinamento speciale», approvato nel 1933, «consacrò definitivamente l’idea che l’Istituto della Farnesina non fosse destinato alla sola formazione degli insegnanti di educazione fisica o al perfezionamento culturale di quanti operavano nel settore ginnico-sportivo, ma fosse soprattutto la vera scuola della dirigenza politico-pedagogica dell’organizzazione giovanile» (pp. 61-62). Negli anni Trenta, dunque, la pedagogia fascista che si irradiava dall’Accademia educava allievi che «non erano dei semplici studenti che dovevano imparare delle nozioni, ma degli adepti che dovevano, con la vita di ogni giorno, assuefarsi al fascismo» (p. 75) e che avrebbero, dunque, costituito «una nuova classe di dirigenti ed educatori» (p. 99). Nel 1939, in seguito alla soppressione dell’ONB e al passaggio delle sue competenze alla Gioventù italiana del littorio (GIL), la Regia accademia di educazione fisica e giovanile fu sostituita all’Accademia della GIL a Roma e dell’Accademia femminile della GIL a Orvieto (p. 131). Il processo di educazione politica della gioventù iniziato da Ricci negli anni Venti giungeva a maturazione quasi al termine della dittatura: «all’inizio degli anni quaranta – scrive Ponzio – era ormai chiaro che la Farnesina era per il PNF il cuore del progetto pedagogico fascista» (p. 143), affiancata da una «rete di accademie, scuole e collegi» il cui studio «aiuta quindi a comprendere meglio la natura totalitaria del fascismo italiano» (p. 184). Il peso formativo e educativo di questi istituti perdurò anche nell’Italia repubblicana: nel 1958, a distanza di quindici anni dalla chiusura delle Accademie di Roma e Orvieto, molti allievi licenziati da quelle scuole, grazie all’approvazione di un disegno di legge che garantì la cattedra a circa 4000 docenti precari, «divennero i docenti di ruolo di educazione fisica nelle scuole dell’Italia repubblicana» (p. 241).

Pienamente condivisibili, anche alla luce delle recenti ricerche di Meda sul binomio resistenza/assuefazione dell’apparato educativo e formativo all’esperienza totalitaria (School writing as sources for the study of teaching practices: the Italian case (1925-1945), 2020, pp. 17-28), le conclusioni dell’autore sul ruolo degli accademisti, i quali si suddivisero fra quanti si limitarono all’insegnamento degli esercizi ginnastici e altri che, al contrario, tentarono pervicacemente di «realizzare l’esperimento totalitario mussoliniano e di garantire la continuità della rivoluzione delle camice nere socializzando alla cultura fascista i ragazzi sottoposti alla loro guida» (p. 256).