«I barbari della domenica»
Tifo ultrà e violenza negli stadi in Italia (1979-1989)
Fabio Milazzo
Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea di Cuneo
Indice
Abstract: Il fenomeno del teppismo calcistico accompagna le partite fin dalle origini dello sport. Se inizialmente le violenze sono perlopiù legate all’andamento della partita, le dinamiche cambiano soprattutto a partire dal secondo dopoguerra. Da quel momento, oltre a registrarsi un aumento sul piano quantitativo degli episodi, cambiano le tipologie di incidenti che coinvolgono sempre più di frequente gruppi di tifosi avversari. Con lo sviluppo del tifo ultrà, alla fine degli anni Sessanta, le violenze conoscono un ulteriore mutamento e diventano lo strumento di affermazione per stabilire la supremazia tra i gruppi, ma anche un dispositivo di costruzione delle identità. Il presente contributo, muovendo da tali considerazioni, si concentra su una fase specifica del fenomeno, gli anni Ottanta, momento dopo il quale la violenza degli ultras è soggetta a una svolta radicale, in particolare per ciò che concerne le politiche di gestione dell’ordine pubblico e i suoi riflessi sul teppismo calcistico. Nello specifico l’arco di tempo considerato è quello compreso tra la morte di Vincenzo Paparelli, durante il derby Roma-Lazio del 28 ottobre 1979, e il varo della prima vera norma anti-violenze, la legge n. 401 del 1989.
Keywords: Football; Tifo ultrà; Football hooliganism;
Il fenomeno del teppismo calcistico ha una storia antica, caratterizzando gli incontri di questo sport fin dalle sue origini1. Anche quando «la cornice degli spettatori appariva come un’appendice del team, composta da assidui, spensierati accompagnatori, da fidanzate, sorelle, amici dei giocatori»2, le intemperanze erano frequenti. «Il calcio non era ancora un vettore delle rivalità locali» e «già creava tensioni incontrollate tra le schiere degli appassionati3. La violenza poteva essere scatenata da una decisione arbitrale non condivisa, o dall’atteggiamento delle squadre in campo; più in generale era la conseguenza del surriscaldarsi degli animi, delle provocazioni o, comunque, del clima eccitato che si “respirava” sugli spalti4. Nel secondo dopoguerra gli episodi divennero sempre meno occasionali, e legati all’andamento della gara, mentre un ruolo maggiore venne assunto dalla rivalità tra le tifoserie. Non sparirono gli assedi agli arbitri, le contestazioni e le aggressioni nei confronti di squadre e giocatori, ma accanto a essi emergeva una violenza legata, almeno in parte, al clima sociale del tempo e al protagonismo dei giovani5. Gli incidenti, in una qualche misura, erano sempre più sistematici, diffusi, e si discostavano da quelli estemporanei e legati principalmente all’andamento degli incontri dei primi tempi6.
La violenza negli stadi è dunque cambiata nel tempo, si è evoluta e, almeno in parte, trasformata7. Tali mutamenti hanno conosciuto un momento di rottura con l’avvento degli ultras e con il radicale modo di intendere il tifo da questi praticato. In relazione a ciò la violenza ha rappresentato un fattore centrale della vicenda, rappresentando non soltanto uno strumento di affermazione per stabilire la supremazia tra i gruppi, ma anche un dispositivo di costruzione delle identità8. Nel codice della sottocultura ultras, infatti, lo scontro con gli altri gruppi incarna un rito collettivo attraverso cui vengono rappresentate visioni del mondo, lanciati messaggi, affermate delle istanze che, al di fuori della cornice simbolica in cui avvengono, possono apparire insensati o riconducibili unicamente alla loro radice deviante. L’incontro di calcio, il suo andamento, è dunque soltanto il pretesto per la messa in atto di un’aggressività ritualizzata, metafora di una guerra che «rimane per lo più una recita collettiva»9, ma dal valore simbolico fondamentale. Dopo un periodo di incubazione, coincidente con gli anni Settanta del Novecento, è durante il decennio successivo che esplode la violenza, parallelamente a una maggiore attenzione della stampa non specializzata10. Se, infatti, fino ad allora gli incidenti erano stati in parte correlati al clima di agitazione presente nel Paese11, da quel momento le cose cambiano e la situazione dell’ordine pubblico negli stadi guadagna una visibilità sociale e una attenzione specifica, tanto da segnare una discontinuità.
Il presente contributo, muovendo da tali considerazioni, si concentra su una fase specifica del fenomeno, gli anni Ottanta, momento dopo il quale la violenza degli ultras è soggetta a una svolta radicale, in particolare per ciò che concerne le politiche di gestione dell’ordine pubblico e i suoi riflessi sul teppismo calcistico12. Particolarmente significativi, in relazione alla definizione cronologica del fenomeno, due avvenimenti, di natura diversa ma strettamente intrecciati: la morte di Vincenzo Paparelli, durante il derby Roma-Lazio del 28 ottobre 1979, e il varo della prima vera norma anti-violenze, la legge n. 401 del 1989. Attraverso il provvedimento, che cercava di porre rimedio a una serie di anomalie che colpivano il mondo dello sport agonistico, dalle scommesse clandestine, al doping, veniva affrontata anche la questione della violenza negli stadi. Su quest’ultimo aspetto la legge puntava a recepire quanto indicato dalla Convenzione stipulata a Strasburgo il 19 agosto 1985 dopo i tragici fatti dell’Heysel. Nello specifico, il dispositivo legislativo conteneva una norma destinata a segnare la storia delle misure di contrasto contro la violenza negli stadi: il Daspo.13 Il divieto stabiliva una limitazione della libertà personale, infatti i destinatari del provvedimento non potevano accedere ai luoghi delle manifestazioni sportive durante le partite. Ciò scatenò a lungo polemiche, non soltanto tra i tifosi ma anche tra giuristi e associazioni per i diritti, ma andava contestualizzato alla luce di una stagione di violenze che, durante gli anni Ottanta, produsse morti e feriti, un clima di incertezze e un diffuso allarme sociale. Se nel medio periodo la norma non produsse un sostanziale miglioramento della soluzione, contribuì ad alcune profonde trasformazioni nel tifo violento e nelle sue pratiche14, tra esse un aumento della conflittualità con le forze dell’ordine15, in parte legata alla militarizzazione degli stadi.
L’arco di tempo considerato nel contributo è particolarmente significativo perché chiude la fase di incubazione del tifo radicale, negli anni Settanta ancora fortemente condizionato da pratiche, grammatiche e simboli, desunti dall’estremismo politico, e inaugura il passaggio verso l’età adulta del movimento16. Gli ultras adottano forme organizzative proprie, codici, simboli e pratiche di scontri sempre più autonome. Logiche da guerra tra bande, agguati, scontri, anche lontani dagli stadi, diventano sempre più frequenti e segnano la matrice identitaria del movimento stesso negli anni Ottanta. Tanto che il legame tra la violenza – esercitata, mimata o semplicemente evocata – e il movimento del tifo estremo sancisce uno degli elementi fondanti dell’essere ultras.
Il primo decennio della storia degli ultras fu caratterizzato da una conflittualità marcata che conobbe un momento apicale, almeno per i riflessi sull’immaginario collettivo e i media, nella morte del tifoso laziale Vincenzo Paparelli, definito dalla stampa una vittima «da sacrificare al cieco divertimento»17. L’assurda morte, insieme agli incidenti che funestarono la giornata, venivano dopo alcuni episodi inquietanti, come il lancio di una bomba sul terreno di gioco, durante Verona-Juventus del 20 marzo 197718. I «barbari della domenica»19 funestavano le partite allo stadio, rendendo lo spettacolo sportivo degli italiani un rischio anche mortale. Tali rappresentazioni avvenivano in un contesto di diffuso allarme sociale, in parte alimentato dalla stessa stampa, in parte prodotto da un’escalation della violenza, e parallelamente da una sua ritualizzazione, che molto doveva all’influenza degli hooligans britannici20, ma che cominciava ad assumere contorni propri. Le violenze risentivano certamente della diffusa conflittualità politica presente nel Paese, ma era in atto un mutamento legato alla lenta costruzione dei criteri di affermazione interni alla galassia del tifo estremo21. La “violenza ultras” si caratterizzava per alcuni elementi: il furto dello striscione del “nemico” – vero e proprio “bottino di guerra” la cui perdita poteva determinare lo scioglimento di un gruppo; la penetrazione nel settore dei rivali; la ricerca dello scontro sistematico con il gruppo avversario, anche attraverso l’uso di coltelli, spranghe, bastoni22.
Ma chi erano i protagonisti di questa violenza ritualizzata che faceva da contorno alle partite di calcio? L’origine del movimento ultras va contestualizzato nel contesto più generale dei processi che interessarono la società italiana degli anni Sessanta del Novecento23. La congiuntura era quella del «miracolo economico»24, contrassegnato da uno «straordinario processo – secondo le parole di Paul Ginsborg – che toccò ogni aspetto della vita quotidiana: la cultura, la famiglia, i divertimenti, i consumi, perfino il linguaggio e le abitudini sessuali»25. Tale trasformazione, che non fu uniforme in Italia26, comportò tra i suoi effetti una maggiore attenzione per il tempo libero e le attività ricreative. La diffusione e l’organizzazione delle manifestazioni sportive non soltanto avvicinarono molti giovani alla pratica, ma incrementarono la partecipazione intorno allo spettacolo sportivo e, in particolare, per il calcio27. L’interesse per il campionato, in realtà, non era mai venuto meno e già negli anni Venti si «tenne […] a battesimo il “tifo”»28, un fenomeno che presto raggiunse un coinvolgimento e un’estensione rilevante, tanto da assumere la fisionomia di vera e propria realtà culturale, contraddistinta da una grammatica, da prassi specifiche e da un universo simbolico proprio. Tutto ciò rese necessaria la realizzazione di impianti sportivi adeguati e tutta una rete di servizi accessori che dovevano soddisfare le necessità di un pubblico sempre crescente. In questo contesto si svilupparono i club di tifosi che, soprattutto dopo il secondo conflitto mondiale, si andarono diffondendo in tutta Italia, a partire dalle città maggiori29. Questi tifosi “organizzati” si incontravano non soltanto nei giorni delle partite ma anche durante la settimana, presso i locali che le società calcistiche talvolta mettevano a disposizione o presso le sedi che gli stessi tifosi sempre più spesso affittavano. Nella costruzione delle dinamiche di socializzazione dei supporter svolse un ruolo molto importante anche un altro luogo: il bar dello sport. Nato tra gli anni Venti e i Trenta, fu soprattutto dopo il secondo conflitto mondiale che assunse un valore centrale, diventando il luogo di ritrovo quotidiano per i tifosi, lo spazio di discussione e presto di organizzazione del tifo domenicale30. Un tifo ancora rudimentale, fatto con bandiere, stendardi, «raganelle» e «cornette», rumoroso e vociante, partecipe e appassionato31.
Tra gli appassionati che in forma sempre più organizzata animavano le domeniche allo stadio, alla fin degli anni Sessanta, si cominciarono a far notare in maniera evidente le componenti giovanili32. Costole interne ai club degli adulti, queste frange andarono caratterizzandosi per un modello di tifo più accesso di quello praticato dagli altri spettatori. Come nel caso di Verona, dove la loro rumorosa presenza si caratterizzava per un sostegno fatto attraverso «spranghe di ferro, bastoni e ferri di cavallo» che venivano percossi «sulla banda in ferro di protezione della curva» in accompagnamento degli “olè”33. «Queste nuove formazioni – come sintetizzato da Andrea Ferreri – composte perlopiù da ragazzi aggregati dall’età, dalla passione per il calcio, dai valori stradaioli, dalle turbolenze socio-politiche di una situazione nazionale convulsa, e da un’incertezza diffusa, si staccano completamente dal modello omologato di tifoso in senso classico, per occupare una propria zona di stadio: la Curva»34. Rispetto al tifo dei club, i ragazzi «restano in piedi per tutta la partita, incitano per più di novanta minuti la propria squadra, […] vanno in trasferta regolarmente, iniziano a darsi un look, uno stile e una struttura organizzativa dando vita a veri e propri rituali di gruppo fino ad allora mai visti prima»35. E tra i riti c’è quello del confronto fisico con le altre tifoserie e, nello specifico, la pratica della violenza come mezzo di supremazia tra i gruppi36.
Le occasioni di scontri erano molteplici, i controlli delle forze dell’ordine non troppo rigidi e gli stadi non presentavano ancora adeguati dispositivi di separazione tra le tifoserie. Infatti, durante gli anni Settanta, non era raro che gruppi diversi di supporter condividessero gli stessi spazi dello stadio. Non esistevano i settori ospiti e spesso i tifosi delle due squadre erano mescolati tra di loro sulle tribune e gli spalti. In un periodo in cui si andava definendo il “territorio” occupato e difeso dagli ultras, la curva negli stadi che ne erano provvisti, le gradinate o i popolari negli altri, l’occupazione da parte degli ospiti di questo spazio rappresentava una delle cause più diffuse di incidenti all’interno degli impianti sportivi. È quanto avvenne durante un Fiorentina-Napoli del 3 novembre 1974, quando, nella curva Fiesole occupata dagli ultras di casa, presero posto i supporter napoletani. La tensione, già alta durante tutta la gara, esplose al momento dell’esultanza che seguì il pareggio della squadra campana. Violenti incidenti coinvolsero i due gruppi, tra gli sguardi attoniti degli altri spettatori37. Gravi scontri anche durante un Lazio-Napoli del 9 marzo 1975. Come riportato da Mario Bianchini, cronista de «La Stampa», tra «i tifosi che assiepavano la curva Nord (in prevalenza napoletani, che erano 30 mila) e quelli della tribuna Tevere, è stata ingaggiata una feroce battaglia che per puro miracolo non si è conclusa con feriti gravi. Sono state divelte panchine, infrante vetrate, gli uffici sottostanti la tribuna sono stati presi d’assalto per reperire sedie, tavoli e quanto altro poteva servire per colpire gli avversari»38. Particolare allarme destavano le stracittadine, i derby e gli incontri tra tifoserie separate da accese rivalità, quando la minima scintilla poteva far degenerare la situazione e provocare gravi incidenti.
Questa prima fase risentiva di un clima sociale agitato e di una tensione politica che, anche nelle modalità espressive, influenzava la violenza negli stadi. L’abbigliamento, i simboli mostrati, i cori, erano tutti elementi che dalle piazze erano confluiti negli stadi. Come detto, la situazione conobbe un momento di svolta alla fine degli anni Settanta, quando il periodo di incubazione della cultura ultras era al termine e il movimento aveva acquisito elementi tipici che ne cominciavano a caratterizzare la fisionomia. Tra questi proprio l’esercizio ritualizzato della violenza come mezzo espressivo, identitario e di confronto tra i gruppi. In questa fase un episodio svolse un ruolo emblematico, la già citata morte del tifoso laziale Vincenzo Paparelli, avvenuta a causa di un razzo “sparato” dalla curva opposta occupata dagli ultras romanisti39. Non era il primo caso di morte in uno stadio di calcio, eppure le modalità, e gli incidenti che segnarono la giornata, colpirono a fondo la collettività. Lo stesso tifo estremo, additato da più parti come violento, costituito da «schiere di teppisti» e delinquenti40, andò incontro a un ripiegamento intestino, a un momento di riflessione e di successiva, ulteriore, perimetrazione identitaria41. L’episodio scosse la collettività, oltre che per la sua brutalità, anche perché coinvolgeva un uomo che era allo stadio con la moglie, testimone in diretta della tragedia. Anzi, furono proprio le testimonianze rese dalla donna in più occasioni a scuotere l’Italia42. L’insensatezza di morire da un momento all’altro, mentre ci si trovava allo stadio per trascorrere un pomeriggio di divertimento, rendeva tutto ancora più assurdo e inaccettabile43.
Il clima di “panico morale” sollecitò richieste di interventi da parte della politica e si sprecarono i confronti con la situazione negli altri paesi, alla ricerca di possibili soluzioni44. Il tragico avvenimento, e l’ondata di sdegno collettiva, rappresentò un momento di rottura anche perché spinse le autorità a prendere i primi provvedimenti per cercare di contenere le intemperanze negli stadi. Le misure, più che a gestire il fenomeno, sembravano voler punire l’universo del tifo organizzato45, inaugurando una prassi che, negli anni successivi, avrebbe inasprito i rapporti tra ultras e forze dell’ordine. Oltre all’intensificazione dei controlli46, vennero controllate le fabbriche pirotecniche, proibiti i megafoni e gli striscioni offensivi, ma soprattutto criminalizzati i gruppi di tifosi organizzati47. Nonostante l’ondata repressiva, e il ripiegamento intestino dell’universo ultras48, la galassia del tifo estremo continuava a mostrarsi viva. La fondazione in quegli anni di importanti sigle, tra cui il Commando Ultrà Curva Sud a Roma (1977) e il Collettivo Autonomo Viola a Firenze (1978), offrivano linfa nuova al movimento e ne evidenziavano implicitamente la dinamicità. La stessa stretta attuata dalle autorità non ne compromise la vitalità: i gruppi, anche se incognito, continuavano a seguire le squadre, e non mancavano neppure gli incidenti e le occasioni per confrontarsi.
Per molti versi, dunque, l’uccisione di Vincenzo Paparelli produsse una cesura nella genesi del tifo estremo che, da fenomeno spontaneo e pre-politico, legato a dinamiche inter-generazionali (la nascita di gruppi come conseguenza di un modo diverso di intendere e vivere il sostegno alla squadra, rispetto ai club) cominciava ad assumere quello di movimento subculturale49. La connotazione politica delle sigle, diffusa durante gli anni Settanta, si andò attenuando, in linea con la stagione del “riflusso”50, e anche se i rapporti tra alcune frange e i movimenti estremisti continuarono a sussistere, fu la dimensione propria del movimento a emergere con sempre maggiore evidenza. In questo passaggio il confronto fisico con le altre tifoserie e, nello specifico, la pratica della violenza come strumento di affermazione tra i gruppi, svolse un ruolo centrale, sancendo la dimensione antagonista e conflittuale come centrale nella costruzione dell’identità ultras. Tale fisionomia consentì al tifo estremo italiano di divenire un modello di riferimento per le tifoserie di altri paesi, offrendo un modello alternativo a quello hooligans51.
Negli anni successivi gli incidenti negli stadi lievitarono di numero e, solo per rimanere ai campionati di A e B, secondo le rilevazioni dell’Istituto Cattaneo, passarono dai 17 episodi della stagione 1980-81 ai 45 del 1984-8552. L’incremento mostrava una prima radicalizzazione del fenomeno, confermata e in parte alimentata dai riflessi sulla stampa che, sempre più spesso, utilizzavano toni da allarme sociale e metafore belliche53. Il fenomeno guadagnò uno spazio sempre più rilevante nel discorso pubblico, tanto da intercettare narrazioni e rappresentazioni che non erano strettamente legati al calcio, ma riguardavano paure sociali, tensioni decennali, complottismi e allarmi vari. Veniva adombrato il possibile uso eversivo della violenza ultrà54, gli psichiatri erano invitati dalla stampa per spiegare le dinamiche cognitive dei giovani violenti55 e si cominciavano a valutare inedite misure di ordine pubblico e piani anti-violenza56. Il tutto in un clima di panico morale diffuso e pervasivo.
La paura diffusa si rafforzò in seguito alle tragedie che segnarono gli anni Ottanta e che contribuirono a diffondere l’idea che gli stadi fossero luoghi insicuri. Il 7 giugno 1981, a San Benedetto del Tronto si giocava la gara tra i padroni di casa e il Matera; doveva essere una giornata di festa legata alla promozione in serie B della Sambenedettese57. Allo stadio Ballarin c’erano dodicimila spettatori e per celebrare l’avvenimento, i tifosi di casa organizzarono una coreografia con il lancio simultaneo di quintali di coriandoli. All’ingresso delle squadre in campo le gradinate vennero sommerse dai coriandoli e da quintali di carta, in un tripudio di stelle filanti e pon-pon. Contemporaneamente, vennero accesi bengala, fumogeni rossi e blu e fuochi pirotecnici. Fu probabilmente la scintilla di un petardo a trasformare la festa in tragedia. Un incendio, alimentato dalle raffiche di vento, si diffuse tra le gradinate, mentre la folla cercava riparo verso le vie d’uscita, in diversi restarono schiacciati, mentre altri si gettavano in campo58. Alla fine della gara, dall’ospedale, venne diramato il bollettino che contava settantotto feriti, di cui quattro in gravi condizioni. Il 14 giugno morì Maria Teresa Napoleoni, che aveva ustioni sul 70 % del corpo, mentre il 18 giugno spirò Carla Bisirri, di ventun anni59. Neanche due anni dopo la tragedia di Paparelli, e nonostante i divieti posti dalle autorità, gli artifici pirotecnici erano ancora causa di morte allo stadio.
L’episodio di San Benedetto non era direttamente legato al tifo violento, anzi era stato il clima di festa a rappresentare lo sfondo della tragedia. Era però emblematico della scarsa sicurezza di molti impianti sportivi, privi di idonei varchi di sicurezza, senza postazioni di primo soccorso, con spalti e gradinate non numerati e in cui era spesso difficile anche controllare l’esatto numero degli spettatori. Non era più sicura la situazione fuori dagli stadi, come dimostrò il tragico episodio accaduto al tifoso romanista Andrea Vitone, scomparso il 21 marzo 1982 nel rogo di uno scompartimento ferroviario di ritorno dalla trasferta di Bologna60. L’incendio venne appiccato dagli stessi supporters giallorossi nei pressi della stazione di Borghetto, quando le fiamme furono domate «i vigili trova[ro]no dietro una delle porte il corpo senza vita di una persona carbonizzata»61. L’episodio, non immediatamente collegabile agli scontri da stadio, sconvolse «il mondo del calcio e l’opinione pubblica»62 e sollecitò le solite prese di posizione, interventi dibattiti. Ciò che più destò scalpore nell’opinione pubblica fu proprio la modalità della morte del giovane, assurda e provocata da amici e sostenitori della stessa squadra di cui era tifoso Andrea. Il clamore spinse le istituzioni a sospendere temporaneamente i treni speciali e a interrogarsi sui problemi di vigilanza legati agli spostamenti dei tifosi, mentre si rafforzava nella società l’equivalenza tra ultrà e violenza63. E tale rappresentazione si rafforzò anche a seguito dell’azione attraverso cui istituzioni politiche, sociali e sportive, operavano in quegli anni per favorire lo sviluppo di un tifo “corretto”, “pacifico”, istituzionalizzato64. La strategia, condotta attraverso molteplici iniziative, puntava a isolare i teppisti, rappresentati con sempre maggiore insistenza come «gente che non ha niente a che vedere con lo sport»65.
Mentre si stigmatizzava l’ingiustificabile violenza degli ultras, ci si occupava solo marginalmente di comprendere il fenomeno, nelle sue radici sociali e culturali. Tale realtà era il frutto di un clima da panico morale in parte favorito dalla rappresentazione che i media davano degli stadi come luoghi poco sicuri, dall’altra di una costante crescita del tasso di violenza provocato dagli ultras. Incidenti diversi che avvenivano sugli spalti o, come abbiamo visto sui treni, ma anche nei parcheggi e nelle vie intorno agli impianti sportivi. Proprio in un parcheggio, quello di via Capecelatro a Milano, perse la vita, il 30 settembre 1984, Marco Fonghessi, che era allo stadio per assistere alla gara tra il Milan e la Cremonese. Il piazzale teatro del fatto, nel dicembre 1983, era già stato al centro della violenta aggressione subita da un tifoso dell’Austria Vienna, ridotto in fin di vita66. In quel caso i responsabili erano stati alcuni ultrà interisti e lo sconcerto per quanto accaduto aveva spinto l’Inter a valutare l’idea di «mettere una taglia sulla testa dei teppisti»67. Erano seguite discussioni su quali misure adottare per arginare la violenza, ma nello specifico le zone intorno allo stadio restavano difficili da presidiare e su questo fronte poco o nulla era stato fatto. Così anche la domenica di Milan-Cremonese, quando circa diecimila tifosi della squadra ospite erano affluiti sugli spalti dello stadio Meazza di Milano per assistere alla gara, nelle vie e nei piazzali intorno allo stadio i tifosi delle due squadre passeggiavano fianco a fianco. Durante l’incontro, a parte qualche tensione verbale, non era successo nulla. Fu invece al termine della gara che, nel piazzale distante qualche centinaio di metri dallo stadio, Marco Fonghessi, ventunenne della provincia di Cremona, venne accoltellato al petto mentre si trovava con alcuni amici in attesa del rientro a casa. A differenza di questi ultimi, tifava Milan ma venne scambiato per un sostenitore della Cremonese perché aveva tra le mani un gagliardetto della squadra grigiorossa di proprietà di un amico. Portato in ospedale e sottoposto a intervento chirurgico, morì l’1 ottobre 198468. L’ennesima morte da stadio indignò e addolorò l’opinione pubblica; la Lega nazionale professionisti, guidata da Antonio Matarrese, stabilì per la quarta giornata di campionato un minuto di raccoglimento in memoria del tifoso ucciso69 e si sprecarono le dichiarazioni di ferma condanna. Il dilagare della violenza rischiava di compromettere seriamente l’immagine del calcio e dalle istituzioni sportive si cercò di porre maldestramente ai ripari, circoscrivendo il fenomeno. Emblematiche le parole del Presidente del CONI Franco Carraro che dichiarò: «La morte del tifoso a Milano è un fatto che addolora e allarma, ma è avvenuto fuori dallo stadio»70. Qualche giorno dopo venne arrestato l’aggressore, un giovane di diciotto anni che frequentava le Brigate rossonere del Milan.
La violenza non si fermava e sempre nel 1984, durante gli scontri seguiti al derby tra Triestina e Udinese, morì il ventenne Stefano Furlan colpito alla testa dalle manganellate dei poliziotti intervenuti per impedire il danneggiamento di alcune auto targate Udine71. Alcuni testimoni sostennero di aver visto Stefano «tenuto per i capelli» picchiato selvaggiamente: «due poliziotti lo tenevano e uno gli dava calci e pugni in testa e sulla schiena»72. Dopo le percosse il tifoso venne portato in questura per l’identificazione e in seguito rilasciato, ma già la sera, tornato a casa, si sentì male. Condotto in ospedale dapprima svenne, poi fu sottoposto a un delicato intervento chirurgico, dopo il quale entrò in coma. Venti giorni dopo morì73. L’episodio, oltre a provocare sgomento e orrore, acuiva le tensioni già esistenti tra l’universo ultrà e le forze dell’ordine, fomentando un clima di contrapposizione che negli anni successivi si andò radicalizzando. D’altro canto, però, la tensione con le forze dell’ordine favoriva ulteriormente lo sviluppo di dinamiche identitarie che cementarono la galassia del tifo estremo, unita trasversalmente in nome della contrapposizione nei confronti dello Stato, della società perbenista, dell’ordine costituito74.
La situazione di violenze diffuse caratterizzava ormai le cronache sportive della metà degli anni Ottanta, favorendo un diffuso allarme sociale, ma niente rispetto a ciò che si sarebbe scatenato dopo la tragedia dell’Heysel, per una partita tanto attesa, quanto preparata sommariamente sul piano dell’ordine pubblico dagli organizzatori75. La morte in diretta dei 39 tifosi durante la finale di Coppa Campioni tra Juventus e Liverpool a Bruxelles, il 29 maggio 1985, scosse non soltanto l’immaginario collettivo nazionale, ma più in generale l’opinione pubblica tutta, costringendo le istituzioni a fare seriamente i conti con un problema che, come abbiamo visto, veniva in parte ancora sminuito e circoscritto. Di «come abbiamo vissuto l’inferno di Bruxelles»76, scrisse il «Corriere della Sera», mentre «Stampa Sera» rilanciava con «Hanno ucciso il calcio»77 e ancora più eloquentemente: «Un’ondata di orrore è arrivata attraverso gli schermi della TV»78. Proprio il ruolo della televisione, con la brutalità delle immagini rilanciate in tutta la Nazione, insieme al numero delle vittime e dei feriti, contribuirono a determinare la fissazione dell’evento nella memoria collettiva, come emblema della violenza calcistica. La stessa scelta di far disputare la gara scatenò a lungo polemiche internazionali, mentre in Italia fu la decisione della Rai di non interrompere la diretta a generare dure prese di posizione, come quella del presidente del Consiglio Craxi79. La tragica carica effettuata dagli hooligans del Liverpool nel settore Z80, in larga parte occupato dai tifosi italiani, insieme alle vite dei tifosi, ebbe l’effetto di spazzare via tutte quelle resistenze che in Italia, fino ad allora, avevano impedito di affrontare seriamente, dal punto di vista legislativo, il fenomeno della violenza negli stadi. L’episodio suscitò un’ondata di sdegno verso gli inglesi, definiti «belve impazzite», «barbari», «sciacalli», esponenti di una «generazione selvaggia», secondo una retorica irta di stereotipi, ma poco adatta per comprendere i fatti nella loro complessità81. Poco considerato infatti il ruolo di frange radicali ed estremisti politici, interessati ad alzare il livello della tensione sfruttando l’occasione offerta dall’incontro. Fu «La Repubblica» a sottolineare in tal senso il possibile ruolo di gruppi nazionalisti legati al «National Front», visto che diversi suoi esponenti vennero segnalati in quei giorni nella città belga e tra i tifosi del Liverpool82. Su tutto, però, evidenti risultavano le falle dell’organizzazione belga, incapace non soltanto di controllare la situazione prima, impedendo la libera circolazione di elementi pericolosi, ma anche di evitare i contatti tra le opposte tifoserie fuori e dentro lo stadio, di fatto preparando le condizioni per la strage83.
Intanto, a dimostrazione di quanto la galassia del tifo estremo avesse raggiunto una consapevolezza di far parte di un movimento che andava al di là dell’appartenenza alle singole squadre, nel luglio del 1985 venne organizzato dagli ultrà del Cosenza un incontro tra i diversi gruppi che doveva servire per confrontarsi sulla situazione. L’appuntamento non produsse risultati, erano ancora marcate le diffidenze tra le tifoserie e ciò non favorì la buona riuscita dell’evento che, però, rappresentava un segnale importante nel processo di costruzione subculturale del tifo estremo84. Le divergenze tra i gruppi, però, non riguardavano solo le diverse tifoserie, spesso laceravano anche singole curve. Come nel caso avvenuto nel 1987 a Roma, a seguito del trasferimento dell’ex laziale Lionello Manfredonia alla squadra giallorossa. Il passaggio provocò una spaccatura nella curva romanista e in particolare nel Commando Ultrà Curva Sud. Dalla lacerazione si formarono due entità, il Cucs Gam (Gruppo Anti-Manfredonia) e il Vecchio Cucs, che arrivarono a scontrarsi in più occasioni, con scazzottate e persino un accoltellamento85.
Sul fronte più ampio delle azioni di polizia per arginare i gruppi violenti, sempre nel 1987, ma a febbraio, reparti dell’Uigos arrestarono 12 ultras del Verona, dopo settimane di indagini e pedinamenti. L’accusa, gravissima, fu quella di associazione per delinquere: per la prima volta in Italia un gruppo di tifosi veniva considerato «fuorilegge»86. Sotto esame da parte degli inquirenti erano anche i legami dei sostenitori scaligeri con il mondo dell’estremismo neofascista, in particolare quello veneto. A conferma della pericolosità degli arrestati, durante le perquisizioni vennero sequestrati coltelli a serramanico, catene, biglie di ferro, fionde, pistole lanciarazzi, fruste, catene e stendardi con svastiche naziste87. Il sostegno della tifoseria agli inquisiti venne dimostrato, platealmente, la domenica successiva agli arresti, durante la partita contro la Roma, quando gli ultras scaligeri, ormai in rotta con la società e il sindaco, lasciarono vuota parte della curva e appesero uno striscione: «Non 12 ma 5000 colpevoli»88.
L’inchiesta veronese e le pressioni sulla tifoseria veneta non scoraggiarono le violenze degli altri ultras. Sempre nel 1987, ma il 13 dicembre, durante Milan-Roma, il portiere Franco Tancredi venne ferito durante un lancio di petardi, torce luminose e fumogeni sul prato di gioco89. Come se non bastasse, durante la gara gli spettatori avevano assistito a una sfilata di striscioni e drappi colmi di svastiche e asce bipenni, emblemi queste ultime dell’associazione neofascista «Ordine Nuovo».
Sul piano internazionale, lo shock collettivo generato dalla serata dell’Heysel aveva intanto spinto le istituzioni europee a muoversi. Il 19 agosto 1985, a Strasburgo, attraverso il Consiglio d’Europa, venne emanata una Convenzione sulla violenza e i disordini degli spettatori durante le manifestazioni sportive e, in particolare, nelle partite di calcio90. In particolare, all’art. 3 venivano sollecitate le autorità nazionali a intraprendere idonei percorsi legislativi per affrontare il fenomeno. In Italia, dopo i fatti dell’Heysel, presso il ministero dell’Interno, venne istituita una Commissione permanente che doveva affrontare con carattere d’urgenza la questione della violenza negli stadi. Di essa facevano parte il presidente del Coni, il direttore generale della Lega nazionale professionisti, il segretario della Figc e un rappresentante della Lega di serie C. La presiedeva il capo della Polizia. Era il segnale di cambio di rotta che, però, non produsse risultati evidenti. Anzi le statistiche, sempre per i campionati di A e B, mostravano un ulteriore incremento degli episodi criminosi91. Fermo restando la problematicità dei dati che, per il periodo in esame, identificano soprattutto la rappresentazione del fenomeno sulla stampa, tutto ciò mostra comunque come il tema si fosse fatto largo nell’opinione pubblica, colpendo l’immaginario e segnando le paure collettive92. La soglia di visibilità della violenza ultrà si era abbassata e ciò indicava che gli incidenti non erano più considerati estemporanei e isolati, ma sistematici e legati a un certo modo di intendere il tifo. Non era possibile circoscriverli alle grandi città e il tragico coinvolgimento di tifosi non ultrà – come mostrava il caso emblematico di Marco Fonghessi93 – aumentava il senso di insicurezza generale. In parte era generato dal ripetersi di avvenimenti luttuosi, anche non direttamente prodotti dalla domenicale “guerra” tra gli ultras. Come nel caso della morte di Paolo Siroli, giovane tifoso romanista, morto il 13 aprile del 1986 in un vagone dell’Espresso 607, che riportava i tifosi romanisti nella capitale dopo la gara contro il Pisa. Alcuni suoi compagni di viaggio, forse per gioco, accesero un fumogeno all’interno di uno scompartimento, prese fuoco all’istante una tendina e le fiamme si propagarono in fretta, senza controllo, mentre il treno viaggiava nel nodo ferroviario tra Ponte Galeria e l’autostrada per Fiumicino, a pochi chilometri dalla Stazione Ostiense. Paolo Siroli morì nella ressa, soffocato dal fumo e calpestato dai compagni di viaggio che cercavano di scappare94.
Nonostante la mobilitazione delle forze dell’ordine e l’inasprimento dei controlli, scontri tra tifosi e agguati, continuavano a produrre episodi particolarmente cruenti, come la morte del tifoso ascolano Nazzareno Filippini, avvenuta nella città marchigiana dopo gli incidenti avvenuti in concomitanza con la gara tra la squadra locale e l’Inter. Era la prima giornata del campionato 1988-89, il 9 di ottobre, e numerosi erano i sostenitori nerazzurri affluiti per vedere la squadra in trasferta. La tensione rimase alta durante tutta la gara, volarono razzi tra i settori e petardi, uno di questi provocò l’incendio di un materasso disposto nella pista di atletica. Gli incidenti veri e propri accaddero però soprattutto alla fine dell’incontro e provocarono il ferimento di 8 persone, tra cui 2 poliziotti e un carabiniere95. Il più grave fu Nazzareno Filippini, ascolano, intercettato da un gruppo di interisti all’uscita di un bar e picchiato selvaggiamente96. In ospedale, ad Ancona, venne ricoverato in prognosi riservata per una ferita lacero-contusa nella zona sopracciliare sinistra, dopo che al pronto soccorso di Ascoli era entrato in coma. Venne operato per rimuovere un vasto ematoma, ma fu tutto inutile e morì lunedì 17 ottobre 1988. Le indagini, partite immediatamente, consentirono di arrestare i presunti colpevoli, tra loro membri dei Boys, dei Viking e degli Skins; proprio durante una perquisizione a casa dell’esponente del gruppo legato all’estrema destra milanese vennero trovati diversi coltelli97. Al termine del processo gli imputati furono condannati a 2 anni per rissa aggravata e, tranne uno, tornarono tutti in libertà. Negli altri gradi di giudizio il capo d’imputazione venne alleggerito ulteriormente e gli ultrà poterono così accedere ai benefici dell’amnistia98. Alcune inchieste, nel frattempo, avevano segnalato i legami tra gruppi di ultras neroazzurri e le società, basati sulla concessione di biglietti e altre agevolazioni. I sospetti vennero aggravati dal fatto che, nonostante gli accusati non appartenessero a famiglie particolarmente agiate, furono difesi «da veri e propri principi del Foro»99. La morte del tifoso, anche in questo caso, scatenò nell’immediato l’indignazione generale verso quelli che vennero definiti «eroi della devianza»100.
Le violenze segnarono anche la stagione successiva, con alcuni episodi particolarmente gravi. Il 4 giugno 1989, prima dell’incontro tra Milan e Roma, quattro tifosi romanisti, nei pressi dello stadio, vennero pedinati e poi inseguiti da una ventina di milanisti101. Il gruppo si diede alla fuga ma il diciottenne Antonio De Falchi, più lento anche per un problema al cuore, fu raggiunto e preso a pugni e calci. Qualche minuto dopo l’aggressione De Falchi si accasciò e morì per arresto cardiaco102. Il giorno dopo vennero arrestati tre tifosi milanisti, uno skinhead delle Brigate Rossonere e due membri della Fossa dei Leoni, con l’accusa di concorso in omicidio103. Il primo venne condannato, gli altri assolti per insufficienza di prova, in un clima di polemiche e recriminazioni, anche per le modalità con cui erano state svolte le indagini. Sempre nel mese di giugno, il 18, un altro grave episodio vide coinvolto le tifoserie di Fiorentina e Bologna. Una “batteria” di ultras fiorentini appartenenti all’«Alcool Campi» organizzò un assalto al treno che trasportava circa 2000 tifosi del Bologna nella città toscana104. Nei pressi della stazione di Rifredi, durante un rallentamento del convoglio, iniziò un fitto lancio di pietre e bottiglie molotov105. Nell’incendiò che divampò rimasero gravemente ustionati Ivan Dall’Olio, di quattordici anni, e Roberto Venturi di 22 anni e altri tifosi. Dopo una iniziale condanna per strage, da parte della corte di Assise di Firenze, i giudici nel 1992 derubricarono il reato a tentato omicidio plurimo, condannando tre ultras fiorentini a 14, 13 e 12 anni di reclusione106.
Fu in questo clima, segnato dai tanti episodi di violenza e dallo sdegno collettivo, che con sempre maggiore urgenza venivano invocate misure radicali e urgenti. Venne proposta la schedatura dei tifosi, la limitazione degli ingressi negli stadi, fino al «numero chiuso»; da più parti si invocava soprattutto un aumento delle forze di polizia e, in generale, una militarizzazione degli impianti sportivi107. Mentre il presidente del Coni Gattai chiedeva ai club di mettere a disposizione delle forze dell’ordine gli elenchi degli appartenenti al proprio tifo organizzato, le forze di governo varavano la legge n. 401 del 13 dicembre 1989, contenente interventi nel settore del giuoco e delle scommesse clandestine e di tutela della correttezza nello svolgimento delle manifestazioni sportive108. Il disegno di legge n. 1888, presentato alla Camera dei deputati il 14 novembre 1987, doveva mettere ordine nello svolgimento delle manifestazioni sportive, dopo i due pesanti scandali legati alla compravendita di incontri dei campionati di serie A e B, avvenuti nel 1980 e nel 1986. Tra le misure, che riguardavano le scommesse clandestine e il doping, veniva affrontato anche il tema della violenza negli stadi. In particolare, su quest’ultimo aspetto la legge aveva cercato di dare seguito a quanto indicato dalla Convenzione stipulata a Strasburgo il 19 agosto 1985 dopo i tragici fatti dell’Heysel. Il dispositivo legislativo, al suo interno, conteneva una misura destinata a segnare la storia delle misure di contrasto contro la violenza negli stadi: il D.A.S.P.O.109 L’acronimo stava per Divieto di Accesso alle manifestazioni sportive e da subito suscitò seri problemi di incostituzionalità110. Questo perché stabiliva una limitazione della libertà personale legata alla facoltà, concessa al questore, di vietare l’accesso ai luoghi delle manifestazioni sportive e a quelli interessati al transito di coloro che partecipavano alle manifestazioni medesime. I soggetti destinatari di tale misura venivano identificati come socialmente pericolosi e poteva essere loro comminata anche la prescrizione di presentarsi in un ufficio di polizia nell’orario in cui si svolgevano le manifestazioni sportive. Senza entrare nel dibattito scatenato dal provvedimento, e in quelle che Valerio Marchi definì le «forti e giustificate polemiche di tipo garantista»111, era evidente che la legge segnava un momento di discontinuità nella storia della gestione dell’ordine pubblico negli stadi italiani. Il carattere repressivo delle misure che sanzionavano anche le condotte non violente, ma semplicemente pericolose, si palesava agli articoli 6, 7 e 8 della legge. Qui i divieti venivano rivolti verso tutti quei comportamenti che minacciavano di turbare le competizioni agonistiche, con l’unica clausola «che il fatto costituisca reato»112. L’indeterminatezza della clausola, unitamente al fatto che l’atto di notifica poteva riportare «in termini ampiamente generici, i fatti specifici»113 che avevano prodotto l’interdizione, sanciva la svolta repressiva adottata per affrontare il fenomeno. Così venne percepita dal mondo ultras, come dimostravano le parole di Valerio Marchi (1955-2006), sociologo e profondo conoscitore del mondo delle curve: «con il DASPO la polizia sviluppa al massimo la propria discrezionalità, valutando se utilizzarlo in termini punitivi, colpendo gli specifici e accertati autori di azioni illegali, oppure – come avviene – in termini di repressione generale, con comminazioni massificate che con gli anni andranno aumentando a dismisura»114.
Tale svolta produsse, negli anni seguenti, non soltanto un aumento della conflittualità tra le forze dell’ordine e gli ultras, ma anche un ulteriore ripiegamento intestino del movimento. Ciò favorì una più marcata e trasversale consapevolezza di gruppo, accelerando, in chiave oppositiva, dinamiche identitarie già in atto. Tra gli effetti di tale situazione la transizione dalla condizione dispersa delle singole sigle del tifo a un fenomeno in parte diverso e, per molti versi più unitario. Istanze subculturali, forme espressive, rituali, conflitti e chiusure nei confronti della società, determinarono un esilio volontario che si tradusse nella definizione di uno stile particolare di vita115. La costruzione della cosiddetta «mentalità ultrà», cornice simbolica in grado di definire l’identità del movimento, conosceva un’accelerazione, rafforzando un senso di appartenenza e una coscienza subculturale che, in forme più definite, andarono strutturando la fisionomia del fenomeno116.
In relazione alle dinamiche appena descritte, gli anni Ottanta rappresentarono un momento decisivo. Non soltanto perché, dopo la morte del tifoso laziale Paparelli, si registrò un progressivo distacco della galassia ultrà dai gruppi estremisti che avevano animato gli anni settanta, ma anche perché le misure repressive adottate, parallelamente a una maggiore attenzione sul fenomeno, favorirono istanze identitarie più marcate. Si compiva così la parabola da un tifo pre-politico, fortemente segnato dalla stagione di antagonismo e mobilitazione collettiva del lungo Sessantotto italiano, a quella del movimento ultras. La fisionomia assunta dalla galassia era in parte correlata a istanze endogene, in parte segnata da impulsi esogeni. Nella fattispecie, un ruolo non secondario venne svolto dalla stampa non specializzata che, dopo una iniziale sottovalutazione del fenomeno, fornì un’immagine spesso stereotipata del tifo estremo. In particolare, accanto a un registro sensazionalistico e un linguaggio allarmistico, emergeva una diffusa e generica criminalizzazione del mondo delle curve. Ciò era in parte il risultato di anni di violenze continue e di alcuni episodi emblematici, in grado di colpire fortemente l’opinione pubblica. I riflessi sul mondo del tifo radicale furono principalmente di due tipi: da una parte l’identificazione del giornalista come un nemico del tifo organizzato; dall’altra, una distanza sempre maggiore rispetto alla società civile e una progressiva chiusura intestina del movimento. Tutto questo incentivò un aumento esponenziale del livello di conflittualità che, durante gli anni Ottanta, produsse morti e feriti. La radicalizzazione delle pratiche violente erano però il risultato di più fattori, oltre a quelli indicati: la ricerca di riferimenti identitari nelle giovani generazioni; la diffusione delle droghe nelle curve; il fascino esercitato dalla violenza come criterio di affermazione simbolico, in un contesto culturale fortemente maschilista; la progressiva, e rabbiosa, reazione nei confronti del biasimo agito dalla società nei confronti dei tifosi estremi; la strumentalizzazione delle violenze operate dai gruppi estremisti, soprattutto quelli legati al neofascismo, e la penetrazione sempre più pervasiva della criminalità organizzata.
Il fatto che la violenza abbia svolto un ruolo centrale nelle dinamiche del tifo estremo dimostra non soltanto quanto essa sia connaturata alla fisionomia stessa dell’essere ultrà, ma anche come il fenomeno non possa essere letto soltanto con lenti criminologiche o come esempio di istanze degenerative rispetto a una civilizzazione del tifo, teleologicamente assunta come dato di fatto117. Resta centrale il legame con i mutamenti sociali e per questo l’importanza dello studio del fenomeno per comprendere il più ampio contesto storico.
1 Scene «che oscillano tra la farsa e l’epopea da Far West» le definisce Antonio Ghirelli nel suo classico lavoro sul calcio. Cfr. A. Ghirelli, Storia del calcio in Italia, Torino, Einaudi, 1972, p. 51. Il fenomeno è però più antico, vedi a titolo indicativo: D. Marchesini, S. Pivato, Tifo. La passione sportiva in Italia, Bologna, il Mulino, 2022, pp. 136-139; A. Papa, G. Panico, Storia sociale del calcio in Italia. Dai club dei pionieri alla nazione sportiva (1887-1945), Bologna, il Mulino, 1993, pp. 128-129; F. Archambault, Il controllo del pallone. I cattolici, i comunisti e il calcio in Italia (1943-anni Settanta), Firenze, Le Monnier, 2022, p. 250; J. Foot, Calcio. 1898-2010. Storia dello sport che ha fatto l’Italia, Milano, Bur, 2011 [n. ed.], pp. 41-45.
2 Papa, Panico, Storia sociale del calcio. Dai club dei pionieri, cit., p. 89.
3 Ivi, p. 92.
4 Sull’importanza della metafora amico/nemico nelle dinamiche che si generano sugli spalti cfr. A. Dal Lago, Descrizione di una battaglia. I rituali del calcio, Bologna, il Mulino, 2001, pp. 46-53.
5 F. Archambault, La violence des ultrà au tournant des années 1970: une violence politique?, in «Storicamente», 10 (2014), n. 24 [https://storicamente.org/archenbault_italian_ultras].
6 Sulla violenza negli stadi tra il secondo dopoguerra e gli anni Settanta del Novecento mi sia consentito il rimando a: F. Milazzo, Il tifo violento in Italia. Teppismo calcistico e ordine pubblico negli stadi 1947-2020, FrancoAngeli, Milano 2022, pp. 20-36 e 43-53. Cfr. inoltre G. Silei, Da teppisti a Ultras: Calcio e tifo violento in Italia nel secondo dopoguerra, in «Ricerche Storiche», XLIX (2019), n. 2, pp. 145-156.
7 Vedi l’introduzione in Milazzo, Op. cit., 9-19. Inoltre, solo a titolo di riferimento segnaliamo: Dal Lago, Op. cit.; A. Roversi, Calcio, tifo e violenza. Il teppismo calcistico in Italia, Bologna, il Mulino, 1992; Sportivi, tifosi, violenti a cura di A. Balloni, R. Bisi, Bologna, Clueb, 1993; Calcio e violenza in Europa: Inghilterra, Germania, Olanda, Belgio e Danimarca, a cura di A. Roversi, Bologna, il Mulino, 1990; F. Borghini, La violenza negli stadi, Firenze, Manzuol, 1987; D. Colombo, D. De Luca, Fanatics. Voci, documenti e materiali del movimento ultrà, Roma, Castelvecchi, 1996; A. Salvini, Il rito aggressivo. Dall’aggressività simbolica al comportamento violento: il caso dei tifosi ultras, Firenze, Giunti, 1988; V. Marchi, Stile Maschio Violento, Genova, Costa e Nolan, 1994; Id., Ultrà. Le sottoculture giovanili negli stadi d’Europa, Roma, Hellnation Libri, 2015; Id., Teppa. Storie del conflitto giovanile dal Rinascimento ai giorni nostri, Roma, RedStarr Press, 2014; Id, La sindrome di Andy Capp. Cultura di strada e conflitto giovanile, Rimini, Nda, 2004; Id, Il derby del bambino morto. Violenza e ordine pubblico nel calcio, Roma, DeriveApprodi, 2005; C. Bromberger, Le Match de football. Ethnologie d’une passion partisane à Marseille, Naples et Turin, Parigi, Éditions de la Maison des sciences de l’homme, 1995.
8 Per uno studio di caso, relativamente alle dinamiche inerenti i processi di costruzione identitaria degli ultras dell’Hellas Verona, vedi: F. Milazzo, Le Brigate scaligere. Usi della storia, dinamiche identitarie e immaginario degli ultras dell’Hellas Verona, in «Diacronie. Studi di Storia Contemporanea», 42 (2020), n. 2, pp. 50-71.
9 Cfr. Dal Lago, Op. cit., p. 9.
10 Cfr. G. Silei, “I soliti teppisti”: Ultras, tifo violento e stampa non specializzata in Italia (1985-1995), in «Storia e Problemi Contemporanei», 86 (2021), n. 1, pp. 25-44.
11 Cfr. G. De Felice, Il calcio non si salva dal contagio della violenza, in «Corriere della Sera», 15 marzo 1977.
12 Cfr. Milazzo, Il tifo violento in Italia, cit., pp. 102-125.
13 Per un inquadramento generale sui mezzi di contrasto della violenza negli stadi vedi: A. Cervigni, C. Deana, M. Martinelli, Le norme per contrastare la violenza negli stadi, Sant’Arcangelo di Romagna, Maggioli, 2008; M.F. Cortesi, Il procedimento di prevenzione della violenza sportiva, Padova, Cedam, 2008.
14 Per l’evoluzione della situazione nella fase successiva vedi: Milazzo, Il tifo violento in Italia, cit., pp. 126-164.
15 Cfr. C. Villari, Primo nemico, Boogaloo publishing, Rovereto, 2006, pp. 49-50.
16 Cfr. C. Balestri, G. Viganò, Gli ultrà: origini, storia e sviluppi recenti di un mondo ribelle, in «Quaderni di Sociologia», (2004), n. 34, pp. 37-49.
17 O. Del Buono, Morituri al Colosseo, in «Corriere della Sera», 29 ottobre 1979.
18 Per la ricostruzione del fenomeno, vedi Milazzo, Il tifo violento in Italia, cit., pp. 93-96.
19 Cfr. G. Arpino, I barbari della domenica, in «La Stampa», 29 ottobre 1979.
20 Su hooligans e violenza vedi: E. Dunning, P. Murphy, J. Williams, Il teppismo calcistico in Gran Bretagna 1880-1989, in Calcio e violenza in Europa cit., pp. 21-54; E. Dunning, P. Murphy, J. Williams, The Rots of Football Hooliganism, London, Routledge, 1987, pp. 157-183; J. Clarke, Football hooliganism. Calcio e violenza operaia, Roma, DeriveApprodi, 2019; D. Howell, Soccer Hooliganism: A Preliminary Report, Bristol, John Wright & Sons LTD, 1968; D. Lava, Hooligans e ultras. Rito e aggressività nel mondo del calcio, Falconara M.ma, L’Orecchio di Van Gogh, 2000, pp. 19-78; P. Harrison, Soccer’s Tribal Wars, «New Society», 29 (1974), pp. 602-604; Marchi, Ultrà, cit., pp. 19-64; Fighting Fans: Football Hooliganism As a World Phenomenon, ed. by E. Dunning, P. Murphy, I. Waddington, A. Astrinakis, Dublin, Univ. College Dublin, 2002.
21 Cfr. Archenbault, La violence des ultrà, cit.
22 Silei, Da teppisti a Ultras cit., p. 151; Roversi, Op. cit., p. 17.
23 Balestri, Viganò, Op. cit., pp. 37-49.
24 Sul “miracolo economico” vedi: S. Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana. Dalla fine della guerra agli anni novanta, Venezia, Marsilio, 1994, pp. 343 e segg. Per uno studio d’insieme vedi inoltre il lavoro di G. Crainz, Storia del miracolo italiano: culture, identità, trasformazioni fra anni cinquanta e sessanta, Roma, Donzelli, 1996; P. Ginsborg, Storia dell’Italia dal dopoguerra a oggi, Torino, Einaudi, 1989, pp. 283-292; V. Castronovo, L’Italia del miracolo economico, Roma-Bari, Laterza, 2010.
25 Ginsborg, Op. cit., p. 325.
26 Ivi, pp. 325-336.
27 Sottolinea l’importanza del tifo, e del calcio, per la costruzione dell’identità nazionale Fabien Archambault in Le contrôle du ballon. Les catholiques, les communistes et le football en Italie, de 1943 au tournant des années 1980, Rome, École française de Rome, 2012, p. 3. Cfr. anche P. Ginsborg, Ma quale Italia?, in «Storia & Dossier», 95 (1994), pp. 6-25.
28 Papa, Panico, Op. cit., p. 124.
29 Cfr. P. Dietschy, Storia del calcio, Vedano al Lambro, Paginauno, 2014, pp. 392-395.
30 A. Papa, G. Panico, Storia sociale del calcio in Italia. Dai campionati del dopoguerra alla Champions League (1945-2000), Bologna, il Mulino, 2000, p. 11.
31 Cfr. Torino invasa da tifosi lombardi, in «La Stampa», 23 Novembre 1953.
32 Balestri, Viganò, Op. cit., p. 37.
33 S. Cametti, I Guerrieri di Verona. Brigate gialloblu dal ‘71 ad oggi, Caselle di Sommacampagna, Edizioni Zerotre, 2015, p. 9.
34 A. Ferreri, Ultras i ribelli del calcio. Quarant’anni di antagonismo e passione, Lecce, Bepress, 2008, p. 15.
35 Ivi, pp. 15-16.
36 La violenza negli stadi non è un fenomeno legato all’avvento degli ultras. Per il periodo precedente cfr. almeno Milazzo, Il tifo violento in Italia, cit., pp. 20-53; Papa, Panico, Storia sociale del calcio. Dai club dei pionieri, cit., p. 128; Roversi, Op. cit., pp. 85-86; M. Stefanini, Ultras. Identità, politica e violenza da Pompei a Raciti e Sandri, Milano, Boroli, 2009, pp. 90-94. Per un utile rappresentazione statistica del fenomeno tra il 1964 e il 1988 cfr. Dal Lago, Op. cit., p. 163.
37 Cfr. Collettivo “Curva Fiesole”, Autobiografia di una curva, Firenze, Edizioni ANMA & San Marco Sport Events, 1999, pp. 30-31.
38 M. Bianchini, Giovane sostenitore del Napoli, il “solitario” dell’Olimpico, in «La Stampa», 10 Marzo 1975.
39 Cfr. M. Di Domizio, Misure antiviolenza e presenze allo stadio: una indagine empirica sulla serie A, in «Rivista di Diritto ed Economia dello Sport», 7 (2011), n. 3, pp. 75 e segg.
40 Cfr. G. Summonte, Morire di sport, in «Il Popolo», 30 ottobre 1979; C. Marcucci, Il mondo del calcio non può chiamarsi fuori, in «L’Avanti!», 30 ottobre 1979.
41 Furono diversi i reportage, le trasmissioni, i servizi, di taglio più o meno polemico e scandalistico, organizzati per cercare di spiegare la natura di un movimento che iniziava a essere colto – e raccontato – nei termini di un problema sociale, una sorta di filiazione interna a quelle classes dangereuses che da oltre un secolo rappresentavano uno spettro per la politica e l’opinione pubblica. Cfr. A.B., Quando il calcio scatena la violenza, in «La Stampa», 12 gennaio 1980; S. Bonsanti, Scoperti gli assassini dell’Olimpico sono ragazzi, ma chi li organizzava?, in «La Stampa», 30 Ottobre 1979.
42 Sulla stampa frequente è il riferimento allo «sgomento» generale. Cfr. Mario Bianchini, Fiorillo, cattura imminente, in «La Stampa», 30 ottobre 1979, p. 12; G. Fedi, Olimpico davvero incontrollabile, in «La Stampa», 30 ottobre 1979.
43 D. Mariottini, Tutti morti tranne uno. Morire di tifo in Italia: dalle origini a Gabriele Sandri, Torino, BradipoLibri, 2009, pp. 32-33.
44 Cfr. Prigione in Inghilterra per i tifosi scalmanati, in «La Stampa», 30 ottobre 1979; Cfr. Violenza sportiva un vertice di Rognoni, in «La Stampa», 30 ottobre 1979; Rognoni: controlli molto più severi, in «La Stampa», 30 ottobre 1979; Agli stadi come in aeroporto, in «La Stampa», 30 ottobre 1979; B. Perucca, Violenza nel calcio, che fare?, in «La Stampa», 12 dicembre 1981; T. Sansa, Berlino, Processi per direttissima, in «La Stampa», ٤ novembre 1979; A. Giorgi, Spagna, i tifosi mai oltre i limiti, ibidem.
45 I. Rossini, «Al fine di infrenare tali teppistici episodi…». Gli stadi e l’ordine pubblico in Italia, 1976-1985, in Tifo. Conflitti, identità trasformazioni, in «Zarpruder», (2019), n. 48, p. 107.
46 Venne introdotto brevemente anche il metal detector. Cfr. Foot, Op. cit., p. 372.
47 M. Martucci, Nobiltà Ultras dal 1900. Un secolo di storia, documenti e immagini della tifoseria laziale, Roma, De Marco-Piscitelli, 1996, p. 167.
48 Parallelamente cresceva la distanza tra gli ultras e i club di tifosi che, in questa fase, venivano coinvolti dalle autorità in manifestazioni e incontri volti a «ripristinare un clima di serenità». In tali dinamiche si compiva un passaggio importante del processo di criminalizzazione degli ultras, sempre più identificati socialmente come facinorosi e violenti, emblema di un tifo degenerato a cui veniva contrapposto il sostegno “sano” dei club. Cfr. Ivi, p. 170; Cfr. anche «Onorate insieme Paparelli», in «La Stampa», 4 Novembre 1979; «Il caso Paparelli fu colpa dei club», in «La Stampa», 1 luglio 1981; G.P. Ormezzano, Si aspetta un altro morto?, in «La Stampa», 3 marzo 1981.
49 A riprova di una differenza sempre più marcata tra due modi di intendere il sostegno alla squadra, vedi l’intervista a Giovanni Fiorillo, responsabile dell’innesco del razzo che uccise Paparelli. Tra le altre dichiarazioni, al giornalista che chiede «Perché ultrà?», Fiorillo risponde: «Perché noi siamo i veri tifosi, perché siamo quelli che la seguono (la squadra) in trasferta a spese nostre. Il tifo lo facciamo noi e le botte le diamo e le prendiamo noi», cit. da D. Mariottini, Ultraviolenza. Storie di sangue del tifo italiano, Torino, Bradipolibri, 2006, p. 32.
50 Cfr. G. Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni ottanta, Roma, Donzelli 2003, pp. 558-559 e G. De Luna, Le ragioni di un decennio 1968-1979. Militanza, violenza, sconfitta, memoria, Milano, Feltrinelli, 2011, pp. 135-139.
51 Cfr. R.F.J. Spaaij, Understanding Football Hooliganism. A Comparison of Six Western European Football Clubs, Amsterdam, Vossiuspers UvA, 2006; The Ultras. A Global Football Fan Phenomenon, ed. M. Doidge, M. Lieser, London, Routledge, 2021.
52 Cfr. Roversi, Op. cit., p. 23. La rilevazione, fatta attraverso le notizie riportate sui giornali «Corriere della Sera», «Resto del Carlino», «Stadio-Corriere dello Sport» e sulla base dell’Archivio Ansa, potrebbe essere sottostimata, riguardando i soli episodi che hanno raggiunto gli organi di informazione.
53 Cfr. Martucci, Nobiltà Ultras, cit., p. 195; Domenica di violenza negli stadi in «Stampa Sera», 13 Ottobre 1986. Si parla abitualmente di «guerriglia urbana», di «assedi», «raid», utilizzando una retorica che facilita la transizione dalla violenza verbale a quella reale. Cfr. Dal Lago, Op. cit., p. 48.
54 Cfr. Scalfaro: la violenza negli stadi può essere usata a fini eversivi, in «La Stampa», 4 giugno 1985.
55 Cfr. Violenza negli stadi. Che ne pensa lo psichiatra, in «La Stampa», 5 ottobre 1981.
56 Cfr. Piano contro la violenza, in «La Stampa», 6 gennaio 1984.
57 Cfr. Milazzo, Il tifo violento in Italia cit., p. 106.
58 Cfr. Quattro tifosi gravissimi per un razzo, in «Il Corriere della Sera», 8 giugno1981.
59 Cfr. Morta una giovane ustionata allo stadio di San Benedetto, in «Il Corriere della Sera», 14 giugno 1981; M. Martucci, Cuori tifosi. Quando il calcio uccide: i morti dimenticati degli stadi italiani, Milano, Sperling & Kupfer, 2010, p. 58.
60 Cfr. D. Mariottini, Tutti morti tranne uno, cit., pp. 55-76.
61 Ivi, p. 61.
62 Ivi, p. 62.
63 Cfr. G. Zaccaria, L’ultrà sugli spalti dello stadio trasforma il gioco in battaglia, in «La Stampa», 13 Novembre 1984, p. 6.
64 Da segnalare in tal senso iniziative come quella della «Coppa disciplina», che veniva assegnata alla tifoseria più corretta dei campionati di A, B e C, e le frequenti assemblee nazionale dei tifosi, organizzate per favorire lo sviluppo di un tifo “sano”. Cfr. Assemblea nazionale dei tifosi, in «La Stampa», 6 Gennaio 1984.
65 Ibidem.
66 Cfr. D. Mariottini, Ultraviolenza, cit., p. 53.
67 M. Fabbri, L’Inter offre una taglia per scoprire chi ha massacrato il tifoso austriaco, in «La Stampa», 10 Dicembre 1983.
68 Cfr. Stefanini, Op. cit., p. 117.
69 Il calcio si ferma per il tifoso ucciso a Milano, in «La Stampa», 5 Ottobre 1984.
70 È un problema di tutta la società, in «La Stampa», 2 Ottobre 1984. Cfr. anche: D. Mariottini, Tutti morti tranne uno, cit., p. 85.
71 Cfr. Morte di un tifoso. Indiziati 4 agenti, in «La Stampa», 6 Marzo 1984. Vedi anche Stefanini, Op. cit., p. 117.
72 M. Martucci, Cuori tifosi, cit., pp. 86-87.
73 Ivi, p. 90.
74 Ivi, pp. 96-99.
75 Per una ricostruzione di quanto accaduto cfr.: S. Govaert, M. Comeron, Foot & Violence, Politique, stades et hooligans. Heysel 85, Bruxelles, Université De Boeck, 1995 e N. Nucci, Il muro del pianto. 1985-1995. Ricordando l’Heysel, in «Supertifo. La rivista del tifoso organizzato», X (1995), n. 10, pp. 6-21; G. Francesio, Tifare contro. Una storia degli ultras italiani, Milano, Sperling & Kupfer, 2008, pp. 79-83; D. Mariottini, Tutti morti tranne uno, cit., pp. 93-100; Stefanini, Op. cit., pp. 117-119; N. Ferlat, L’ultima curva. La tragedia dello stadio Heysel, Pinerolo, NovAntico, 2015. Vedi inoltre F. Milazzo, Il tifo violento in Italia, cit., pp. 119-125.
76 Cfr. N. Morosini, Come abbiamo vissuto l’inferno di Bruxelles, in «Corriere della Sera», 30 maggio 1985.
77 Cfr. Hanno ucciso il calcio, in «Stampa Sera», 30 maggio 1985.
78 Cfr. Un’ondata di orrore è arrivata attraverso gli schermi della TV, in «Stampa Sera», 30 maggio 1985.
79 Cfr. Processo a una strage senza perché, in «Corriere della Sera», 30 maggio 1985.
80 Sui tifosi del Liverpool vedi P. Mignon, Liverpool, ovvero “addio alla Kop” e L. Crolley, In casa e in trasferta. I tifosi del Liverpool e i cambiamenti nella cultura calcistica, in You’ll never walk alone. Mito e realtà del tifo inglese, a cura di R. De Biasi, Milano, Shake, 2008, pp. 37-58 e 59-74.
81 Cfr. G. Barbiellini Amidei, I selvaggi, in «Corriere della Sera», 30 maggio 1985; M. Nava, Sulle gradinate qualche sciacallo ha derubato i cadaveri, in «Corriere della Sera», 31 maggio 1985.
82 Cfr. P. Filo Della Torre, I fascisti del National Front in mezzo ai tifosi del Liverpool, in «la Repubblica», 31 maggio 1985, cit. da G. Silei, “I soliti teppisti”, cit., p. 30.
83 Cfr. A. Guatelli, La colpevole impotenza della polizia belga, in «Corriere della Sera», 30 maggio 1985.
84 Cfr. T. Jones, Ultrà. Il volto nascosto delle tifoserie di calcio in Italia. Tra passione e fanatismo, la violenza nelle curve e i legami segreti con le organizzazioni mafiose, Roma, Newton Compton, 2020, p. 145.
85 Cfr. Milazzo, Il tifo violento in Italia, cit., pp. 146-147.
86 Ivi, pp. 121-122.
87 S. Edel, Violenza: le prime risposte. Blitz di Verona. Pesanti accuse alla banda nazista, in «la Repubblica», 3 febbraio 1987.
88 Cfr. Milazzo, Il tifo violento in Italia, cit., pp. 122.
89 Cfr. S. Garioni, Quando il cuore di Tancredi s’è fermato, in «Corriere della Sera», 14 dicembre 1987.
90 Cfr. R. Masucci, N. Gallo, La sicurezza negli stadi. Profili giuridici e risvolti sociali, Milano, FrancoAngeli, 2011, pp. 41-46.
91 Secondo le rilevazioni pubblicate da A. Roversi nel suo classico lavoro sulla violenza negli stadi, tra la stagione 1985-86 e quella 1989-90, il numero degli episodi passò da 55 a 66. Come riconosciuto dallo stesso studioso, tali cifre sottostimano il fenomeno. Cfr. Roversi, Op. cit., p. 23. Le osservazioni sui dati raccolti si trovano invece alle pp. 146-149. Simile l’andamento degli incidenti secondi i dati raccolti da Dal Lago che nella stagione 1984-85 segnala 52 episodi e in quella 1987-88, invece, 76. Anche in questo caso i dati sono stati raccolti attraverso gli episodi riportati dalla stampa. Cfr. Del Lago, Op. cit., pp. 162-163.
92 Cfr. G. De Leo, La violenza tra rumore e messaggio. Un itinerario di ricerca sulla rappresentazione del tifo violento sulla stampa, in A. Salvini, Il rito aggressivo. Dall’aggressività simbolica al comportamento violento: il caso dei tifosi ultras, Firenze, Giunti, 1988, pp. 274-299.
93 Cfr. Milazzo, Il tifo violento in Italia, cit., p. 117.
94 P. Caprio, Rogo sul Pisa-Roma. Tifoso morto, feriti, in «l’Unità», 14 aprile 1986; Cfr. anche Martucci, Cuori tifosi, cit., pp. 148-160 e Milazzo, Il tifo violento in Italia, cit., p. 117.
95 Cfr. D. Mariottini, Tutti morti tranne uno, cit., p. 104.
96 Cfr. F. Mazzocchi, Massacrato allo stadio. Calci in testa: sta morendo, in «l’Unità», 11 Ottobre 1988.
97 Cfr. L. Fazzo, A massacrare Filippini è stato un ultrà neonazista, in «l’Unità», 19 Ottobre 1988; L. Fazzo, Quattro per un omicidio in «l’Unità», 20 Ottobre 1988.
98 Cfr. D. Mariottini, Ultraviolenza reloaded. Morire di tifo in Italia, Bradipolibri, Torino 2018, p. 92.
99 Ivi, p. 92.
100 Milazzo, Il tifo violento in Italia, cit., p. 123.
101 Ivi, p. 131. Vedi inoltre D. Mariottini, Tutti morti tranne uno, cit., pp. 115-118.
102 Cfr. Agguato a S. Siro, tifoso si accascia senza vita, in «Il Corriere della Sera», 5 giugno 1989.
103 Milazzo, Il tifo violento in Italia, cit., p. 131.
104 Cfr. W.L., Agguato al treno per vendetta, in «Il Corriere della Sera», 19 giugno 1989.
105 K., Dalla balaustra. Trentacinque anni da ultras del Bologna, autoprodotto, s.d., p. 265.
106 P. Fallai, Ultras incendiari, non fu strage, in «Il Corriere della Sera», 11 aprile 1992. Sull’episodio vedi F. Milazzo, Il tifo violento in Italia, cit., p. 135.
107 Cfr. G. Triani, «Tranquillizzante» violenza da stadio, in «l’Unità», 19 ottobre 1988, p. 26; R. Pergolini, Un’iniziativa che fa discutere. Berlusconi non è un questore, in «l’Unità», 20 ottobre 1988.
108 Cfr. R. Grillo, La violenza negli stadi e le misure di contrasto, in Dalle violenze alle politiche di sicurezza urbana, a cura di AA.VV., Torino, Giappichelli editore, 2016, pp. 17-22.
109 Per un inquadramento generale sui mezzi di contrasto della violenza negli stadi vedi: A. Cervigni, C. Deana, M. Martinelli, Le norme per contrastare la violenza negli stadi, Sant’Arcangelo di Romagna, Maggioli, 2008; M.F. Cortesi, Il procedimento di prevenzione della violenza sportiva, Padova, Cedam, 2008.
110 Cfr. L. Contucci, L’avvocato del diavolo. Lo stadio di polizia, in AAVV, Stadio Italia. I conflitti del calcio moderno, Firenze, La casa Usher, 2010, pp. 114-115.
111 Marchi, Il derby del bambino morto cit., p. 106.
112 Grillo, La violenza negli stadi, cit., p. 7.
113 Marchi, Il derby del bambino morto, cit., p. 106.
114 Ibidem.
115 D. Hebdige, Sottocultura. Il fascino di uno stile innaturale, Genova, Costa & Nolan, 2000, p. 10.
116 Cfr. C. Bromberger, Passions sportives, in Histoire des éemotions, sous la direction de A. Corbin, J.J. Courtine, G. Vigarello, t. 3. De la fine du XIXe siècle à nos jours, volume dirigé par J.-J. Courtine, Paris, SEUIL, 2017, pp. 450-457.
117 Sul tema cfr. almeno N. Elias, E. Dunning, Sport e aggressività. La ricerca di eccitamento nel «loisir», Bologna, il Mulino, 1989.