Paolo Mazza, Gipo Viani e l’“invenzione” del calciomercato

Tommaso Begotti

Società Italiana di Storia dello Sport

Indice

Introduzione

Il calciomercato prima del calciomercato

Dirigenti-tecnici nel secondo dopoguerra

L’“invenzione” del calciomercato

Conclusione


Abstract:The origins of the modern transfer market in football is an interesting but yet very little explored topic. The purpose of this paper is to investigate the process behind the development of the transfer market in Italy and to highlight the key role played by the new generation of presidents and sporting directors which took the lead of the mayor Italian clubs after the Second world war. The paper will also focus on the figures of Paolo Mazza (president of SPAL Ferrara from 1947 to 1976) and Giuseppe “Gipo” Viani (coach and sporting director of many Italian teams between 1946 and 1969) considered to be the “inventors” of the modern transfer market in Italy.

Keywords: Football; transfer market; sporting directors; Paolo Mazza; Giuseppe Viani

Introduzione

Chiunque si sia anche solo occasionalmente accostato alle numerose manifestazioni del calcio contemporaneo come fenomeno mediatico, non può che constatare come accanto ai temi legati al campo, convivano numerosi altri aspetti, che spaziano nelle dimensioni più disparate, dalla sfera privata dei protagonisti alle grandi tematiche economiche e politiche. Tra questi, quello che forse raccoglie la maggiore copertura, tanto da offuscare non di rado anche il calcio giocato, è il calciomercato. Lungi dall’avere una definizione univoca, si tratta piuttosto di un termine ombrello che indica tanto l’insieme delle pratiche legate all’acquisto ed alla cessione dei diritti alle prestazioni sportive degli atleti tra una società e l’altra, quanto il periodo della stagione calcistica in cui tali pratiche di trasferimento sono possibili in termini di diritto o addirittura la sede fisica deputata ad ospitare questa peculiare forma di mercato1.

Oggi si tratta di un fenomeno di portata tale da influenzare in modo decisivo le politiche di gestione economica delle società calcistiche, che si affidano al calciomercato non solo (e forse non principalmente) per costruire le proprie fortune sportive, ma anche per trovare le risorse economiche necessarie per la propria sopravvivenza. Trattandosi di un vero e proprio sistema chiuso, in cui i valori di mercato sono determinati da una serie di parametri solo in parte oggettivi e strettamente legati al contesto di appartenenza, non sorprende come il calciomercato movimenti cifre assai significative, anche rispetto alle altre voci di bilancio di una società calcistica2. Esso tuttavia ha mostrato una propensione allo sfruttamento di stampo affaristico ed opportunistico, quando non apertamente elusivo delle leggi in tema di controllo delle transazioni finanziare e della gestione aziendale, come periodici scandali ed inchieste, tanto giornalistiche quanto della magistratura, hanno rivelato anche in tempi recenti3.

Accanto all’aspetto economico, il calciomercato ha saputo ricavarsi uno spazio importante, nel corso degli anni, come fenomeno sociale e culturale. In esso trovano naturale asilo le speranze e le ambizioni dei tifosi e degli appassionati, tanto che essi nutrano per la propria squadra desideri di rivalsa per una stagione fallimentare quanto sogni di grandezza ancora maggiori dopo i passati successi. L’attenzione tanto degli interessati quanto dei semplici curiosi è soddisfatta dall’ampia copertura del fenomeno offerta dalla stampa, ma, soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni ottanta, da una pletora di reti televisive specializzate, il cui palinsesto nei mesi dedicati ai trasferimenti si struttura specificatamente intorno al racconto in tempo quasi reale del calciomercato4 Nell’ultimo decennio, inoltre, un’ampia selezione di siti internet, applicazioni o semplici gruppi sui social network si sono associati ai mezzi d’informazione tradizionali nell’accompagnare lo stereotipico “sogno sotto l’ombrellone” del tifoso che attende fiducioso l’inizio della nuova stagione. Il ruolo del calciomercato nell’universo del calcio contemporaneo è talmente pervasivo da aver generato inoltre dei veri e propri “mercati surrogati”, riproduzioni virtuali dei trasferimenti reali, spesso presenti all’interno di forme di intrattenimento dedicate agli appassionati. L’esempio più esplicito è forse quello del Fantacalcio, dove il campionato virtuale nel quale i diversi partecipanti si sfidano è preceduto da una vera e propria asta a colpi di una specifica meta-valuta di gioco, ma particolarmente interessanti sono anche i casi dei diversi videogiochi di simulazione calcistica, come FIFA (EA Sports) o E-Football (Konami, noto fino alla stagione 2020-21 con il titolo di Pro Evolution Soccer), che possiedono forme di questo “mercato surrogato” tanto nelle modalità di gioco offline quanto in quelle online. Il simulatore manageriale Football Manager (SEGA) fa addirittura del calciomercato una componente fondamentale della sua esperienza di gioco, cercando di riprodurre fedelmente le modalità di trattativa reali.

Se da un lato l’enorme popolarità del calciomercato come fenomeno culturale è ormai assodata, dall’altro essa non poteva essere certamente data per scontata agli albori della storia del calcio. Sebbene il concetto di “trasferimento” dei giocatori e delle prestazioni sportive sia pressoché coevo alla formalizzazione del calcio come disciplina sportiva, il percorso per arrivare al mercato nella forma odierna fu lungo e accidentato, con non poche correzioni e svolte nel corso dei decenni. Lo scopo di questo articolo non è tanto quello di fornire un resoconto esauriente dei processi che hanno portato alla nascita del calciomercato moderno, un compito che si rivela assai arduo per la vasta portata del fenomeno e non si presta certamente ai limiti imposti dalle esigenze editoriali né alle dirette possibilità di ricerca dell’autore. Si tratterà piuttosto dello specifico caso italiano, ponendo l’attenzione su come questo complesso insieme di pratiche, relazioni e regolamentazioni che costituiva la prima forma del mercato dei calciatori, tra le origini del calcio italiano e la fine della Seconda guerra mondiale, sia andato strutturandosi e formalizzandosi a partire dai primi anni cinquanta, ponendo le basi per ciò che oggi è il calciomercato.

Il tema sarà trattato attraverso la prospettiva di due dei protagonisti di questo processo e del mercato dei calciatori tra gli anni cinquanta e sessanta, la prima “età dell’oro” del calciomercato italiano. Paolo Mazza, presidente della SPAL (Società Polisportiva Ars et Labor) di Ferrara e Giuseppe “Gipo” Viani, allenatore e direttore tecnico di Salernitana, Lucchese, Palermo, Bologna, Roma e Milan, furono i veri e propri artefici di questa nuova, matura fase del mercato. Entrambi appartenevano ad una nuova generazione di dirigenti sportivi che trovò spazio dopo la fine del conflitto, figure di transizione tra il pionieristico spirito del gentleman-amateur che costituiva ancora l’idealtipo del dirigente e le successive figure professionali specializzate dei direttori generali e direttori sportivi5. Cresciuti all’interno di un sistema calcistico già formato e molto più sensibili alle tematiche economiche rispetto ai loro predecessori, erano al contempo ancora uomini fortemente legati alla dimensione del campo e del calcio giocato. Per questo, essi incarnano alla perfezione il modello del dirigente-tecnico diffuso nel calcio italiano del secondo dopoguerra e degli anni cinquanta6. Se la loro parabola professionale e personale fu certamente diversa (Mazza legò il suo nome a doppio filo alla SPAL per quasi un trentennio come presidente, mentre Viani ricoprì in diverse società un ruolo vicino a quelli degli odierni direttori sportivi, pur occupandosi anche dei questioni di campo), entrambi intuirono le potenzialità del mercato dei calciatori in espansione e la possibilità di sfruttare il significativo giro d’affari determinato dagli scambi per garantire alle proprie società di appartenenza maggiori garanzie di stabilità economica e capacità di competere con le squadre maggiori. La loro attività, inserita nel rapido mutamento di contesto socio-economico che il Paese stava vivendo con l’inizio degli anni cinquanta, portò il calciomercato ad una forma di stabilizzazione e formalizzazione: un mercato delle prestazioni sportive dei calciatori limitato ad un preciso arco temporale e dotato di una propria sede specifica, l’Hotel Gallia di Milano, dove avevano luogo le trattative in forma diretta7. Visto con gli occhi dell’osservatore moderno quello di Mazza e Viani può apparire ancora come un mercato caratterizzato da un insieme di pratiche tradizionali e da un approccio ingenuo e quasi artigianale. Per certi versi, si tratta di un’impressione veritiera, ma non va al contempo dimenticato come i primi semi di quell’imponente fenomeno che oggi conosciamo fossero tutti già presenti: propensione affaristica, priorità del mercato sul campo, creazione di circuiti di scambio dei calciatori, nuove forme contrattuali (spesso in aperta contraddizione con le regolamentazioni delle istituzioni calcistiche contro il professionismo), prospettiva internazionale. Allo stesso tempo, l’incontro nella realtà del Gallia favorì la creazione di nuovi equilibri all’interno del calcio italiano, permettendo tanto un’ulteriore ascesa delle società maggiori quanto la creazione di una nuova piccola “nobiltà” provinciale, spesso alimentata dalle prime scintille di quel Miracolo economico che stava per esplodere in tutta la sua prorompenza alla fine del decennio8.

Il calciomercato prima del calciomercato

In termini assoluti, una certa mobilità degli atleti era sempre stata presente sin dalle origini del calcio moderno. In squadre solitamente legate ad istituzioni scolastiche o associazioni ricreative, il ricambio dei giocatori tra una stagione sportiva e l’altra avveniva in modo naturale9. A favorire questa mobilità intrinseca era l’appartenenza sociale dei primi calciatori (provenienti dalle classi più agiate o dalla stessa aristocrazia urbana) e la rigida impostazione dilettantistica della pratica calcistica. Uno dei tratti fondamentali del gentleman amateur che praticava sport era infatti quello di rifiutare ogni possibile compenso in denaro per la propria attività10. Dopo un certo periodo, la pratica sportiva era semplicemente abbandonata, magari assumendo un ruolo dirigenziale all’interno del club11. La rigida mentalità dilettantistica, che escludeva ogni possibilità di fornire una prestazione sportiva dietro compenso, vietava a maggior ragione l’eventualità di un trasferimento dell’atleta da un club ad un altro in cambio di un indennizzo in denaro. Ma se i regolamenti delle prime competizioni ed associazioni bandivano queste forme di proto-mercato dei calciatori, poco era possibile fare concretamente per impedire che ciò avvenisse, in particolar modo con la rapida impennata in popolarità del football ed il progressivo ampliamento della platea dei praticanti. Società affiliate a stabilimenti industriali o altre realtà imprenditoriali introdussero l’uso di offrire un pagamento ai loro atleti, spesso appartenenti alle classi più popolari e quindi privi di quelle risorse economiche dei primi gentleman amateur. Una volta avviata, la macchina si dimostrò impossibile da fermare: nel 1888 venne creata in Inghilterra la prima lega professionistica, la Football League, appena sei anni dopo la prima vittoria in FA Cup di un club con calciatori retribuiti (il Blackburn Olympic, nel 1882)12. In Italia, quindi, il calcio visse la sua prima fase di grande sviluppo dopo che il concetto di professionismo era già stato introdotto e regolamentato nell’area britannica. Ciò favorì la creazione di una situazione ibrida: certamente i primi club facevano riferimento agli ideali del dilettantismo e del gentleman amateur, ma la frattura tra la rappresentazione ideale e la realtà di acuì in tempi molto ridotti. In un primo tempo, il dilettantismo fu comunque prevalente, tanto che diversi tra i primi pionieri del calcio italiano, probabilmente addirittura “pagavano per giocare”, sobbarcandosi i costi organizzativi delle società e degli eventi sportivi13. Questa linea programmatica era confermata dai regolamenti della prima Federazione Italiana del Football (FIF), fondata nel 1898, che stabilivano per i calciatori lo status di dilettanti14. Tuttavia, l’evoluzione verso le prime forme di retribuzione per le prestazioni sportive fu assai rapida: già pochi anni dopo non era infrequente che diversi atleti percepissero un compenso per le loro prestazioni. Soprattutto le società come quelle genovesi, che risentivano maggiormente dell’influenza britannica ed erano dotate di una solida struttura organizzativa e di buone risorse economiche, non esitavano ad ingaggiare i migliori calciatori avversari dietro pagamento. Poiché le forme di retribuzione diretta erano vietate dai regolamenti, la prassi era quella di aggirare le restrizioni offrendo ai calciatori un lavoro, spesso per tramite di un socio della società interessata all’ingaggio, che avrebbe permesso loro il cambio di residenza e di conseguenza l’iscrizione al nuovo club15. Si trattava di una forzatura ai regolamenti, che permetteva alle società di proseguire pressoché indisturbate le loro politiche di trasferimento, fintantoché la retribuzione degli atleti fosse rimasta indiretta. Solo in rari casi la Federazione intervenne per punire le violazioni più palesi, come nel caso del trasferimento di Sardi e Santamaria dal Doria al Genoa (1905), quando i due calciatori vennero sorpresi ad incassare un assegno di 1.000 lire da parte dei dirigenti genoani16. In questo caso, ai due atleti venne comminata una squalifica a vita, poi ridotta a due anni e quindi rimossa in seguito ad un’amnistia17.

Dall’analisi di questo episodio e di altri casi similari, è possibile tracciare un quadro delle condizioni ambientali in cui si sviluppò il calciomercato in Italia, che rimase sostanzialmente immutato fino quasi agli anni ottanta: scarsa e lacunosa regolamentazione; cronica tendenza all’aggiramento delle norme federali in tema di trasferimenti; condizione lavorativa e contrattuale dei calciatori definita in modo confuso o ambiguo; difficile (quando non inesistente) possibilità di tracciare e ricostruire con sicurezza i flussi di denaro movimentati, anche a causa della prolungata mancanza di una specifica legislazione che imponesse alle società di rendere conto della propria gestione economica interna. Nei termini della ricerca storica, ciò rende particolarmente difficile la stesura di una completa ed esauriente “storia del calciomercato”. Mancano infatti le certezze circa le cifre spese, le effettive dinamiche di movimento dei giocatori, la natura dei legami tra i calciatori e le società. Molto deve essere quindi desunto in forma indiretta della stampa dell’epoca o dalle testimonianze successive. Anche solo basandosi su queste fonti, seppur limitate e parziali, è tuttavia possibile evidenziare come il mercato dei calciatori abbia conosciuto una crescita costante, tanto per quanto sotto gli aspetti numerici quanto in termini economici, nel corso dei primi anni del secolo, venendo frenato solo dallo scoppio della Prima guerra mondiale che segnò il blocco delle competizioni maggiori18. Nelle stagioni immediatamente precedenti allo scoppio del conflitto, il volume di scambi era aumentato a tal punto che le società maggiori non si ponevano più remore nell’effettuare una vera e propria “campagna acquisti” alla vigilia del nuovo campionato. La stampa sportiva espresse frequentemente disapprovazione e sdegno per il crescente giro d’affari che coinvolgeva il calcio, facendosi portatrice dei valori del dilettantismo pionieristico, abbracciati in particolar modo da testate come «Il Guerin Sportivo»19.

Negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra si segnò una flessione dei prezzi, causata dalla svalutazione che colpì l’Italia nel periodo bellico20. La congiuntura negativa non rallentò tuttavia il volume degli scambi e si dissipò rapidamente21. La prova della centralità che il mercato dei calciatori andava assumendo per le società si ebbe nella stagione 1921-1922, segnata dalla scissione tra FIGC e Confederazione Calcistica Italiana (CCI) e dalla disputa contemporanea di due massimi tornei nazionali22. Gli stessi scissionisti non fecero mistero di come dietro alla loro defezione ci fossero ragioni economiche e le squadre più importanti non esitarono ad offrire lauti compensi per assicurarsi le prestazioni sportive dei calciatori più richiesti, tanto nel campionato CCI quanto in quello FIGC23.

La scissione venne ricomposta l’anno successivo, ma il controllo del mercato rimase problematico. Posta di fronte ad un quadro ormai quasi completamente sregolato, la Federazione impose l’introduzione del sistema dei cartellini e delle liste di trasferimento per tentare di limitare i danni tecnici ed economici per le società24. Ancora una volta tuttavia, la regolamentazione era abbastanza lasca perché i più spregiudicati potessero approfittarne, come accadde puntualmente nel corso della stagione 1923-1924, quando Gustavo Gay e Virginio Rosetta, calciatori della Pro Vercelli, vennero contattati dal Milan e dalla Juventus interessati al loro ingaggio tramite la consolidata pratica del cambio di residenza legato all’offerta di lavoro25. A far degenerare la situazione fu il coinvolgimento di diversi dirigenti delle società interessate all’interno delle istituzioni calcistiche, che portò ad una serie di pressioni incrociate perché la vicenda si risolvesse in favore di una delle due parti in causa, con gravi danni sulla regolarità del campionato26. Al termine della stagione lo strappo fu ricucito ed i giocatori poterono trasferirsi regolarmente, ma il grave scandalo, oltre a dimostrare la profondità dei legami tra le società maggiori ed i vertici delle istituzioni calcistiche, sdoganò definitivamente il mercato dei calciatori di fronte all’opinione pubblica. Ciononostante, al momento di varare la riforma che ne avrebbe cambiato fisionomia nei decenni a seguire, il calcio italiano non si mosse verso l’adozione del pieno professionismo.

Con la Carta di Viareggio, promossa del nuovo presidente del CONI, Lando Ferretti, il regime fascista plasmò la fisionomia del calcio italiano riorganizzando i campionati ed imponendo le fusioni e i cambi di denominazione a diverse società. Per quanto concerneva il mercato dei calciatori, le disposizioni più interessanti erano sicuramente quelle sullo status degli atleti. Esse riflettono la concezione sportiva del fascismo, che mal sopportava l’idea del calcio come sport professionistico: i calciatori vennero divisi tra dilettanti e non-dilettanti, una formula di comodo per indicare coloro che percepivano un regolare compenso per le loro prestazioni ed erano, di fatto, professionisti. I pagamenti ai calciatori vennero mascherati da rimborsi per il mancato guadagno, integrati da premi partita o compensi occasionali. Si trattava di una soluzione particolarmente ipocrita: invece di affrontare il problema del professionismo e del mercato sregolato di petto, si era scelto di nascondere la polvere sotto il tappeto, favorendo così le società che potevano agilmente aggirare le norme e continuare ad operare le loro spregiudicate politiche di trasferimento27. Durante tutto il periodo fascista, il mercato dei calciatori visse una fortissima espansione. Già dopo pochi anni dalla Carta di Viareggio, il sistema dei rimborsi era di fatto saltato a causa delle spese sempre crescenti: nel 1928, la Juventus concedeva a Raimundo Orsi un regime contrattuale fisso di 8.000 lire al mese, insieme ad un premio d’ingaggio (100.000 lire) e a diversi regali (tra cui un’auto sportiva)28. A cascata, caddero progressivamente tutte le limitazioni. Quando il presidente della FIGC Giorgio Vaccaro, nel 1940, introdusse i massimi di retribuzione per i calciatori non-dilettanti, in apparente accordo con tutte le società delle due categorie maggiori, le cifre di 3.000 lire di stipendio e 200.000 lire di premio d’ingaggio per la Serie A e 1.500 di stipendio e 100.000 di premio d’ingaggio per la Serie B, suonavano come una presa in giro29.

Dirigenti-tecnici nel secondo dopoguerra

La cesura apportata dalla Seconda guerra mondiale determinò una fase di transizione ai vertici del calcio italiano. Se per le istituzioni calcistiche essa fu abbastanza complessa, per molte delle società maggiori si trattò piuttosto di un cambio nella struttura dirigenziale. Alcuni club, come il Bologna con Renato Dall’Ara e il Torino con Ferruccio Novo, rimasero saldamente nelle mani dei presidenti dell’anteguerra, ma numerosi furono le nuove presidenze insediatesi tra la metà degli anni quaranta e la metà degli anni cinquanta: Gianni Agnelli alla Juventus; Carlo Rinaldo Masseroni all’Internazionale; Umberto Trabattoni al Milan; Achille Lauro al Napoli; Enrico Benfani alla Fiorentina; Renato Sacerdoti alla Roma (anche se in questo caso si trattò di un ritorno, dopo l’allontanamento avvenuto nel 1935 e l’interdizione in seguito alle leggi razziali del 1938). La maggior parte di questi nuovi presidenti e dirigenti sportivi apparteneva alla generazione successiva all’epoca pionieristica del calcio italiano. Pur essendosi avvicinati allo sport quando era ancora forte l’influsso dei valori dilettantistici, erano molto meno ostili alle commistioni tra calcio ed economia e spesso trasferivano la loro mentalità imprenditoriale nella gestione economica delle rispettive società. Sebbene non sia da trascurare la sincera passione sportiva che caratterizzò le presidenze di molti di loro e che è rimasta la caratteristica maggiormente enfatizzata dalla pubblicistica successiva (spesso encomiastica e nostalgica nei confronti dei vecchi “presidenti-tifosi”), non va trascurato come questi dirigenti abbiano per primi trasmesso un approccio imprenditoriale alla gestione economica delle società sportive, che pure mancavano ancora delle caratteristiche formali per poter essere definite imprese a tutti gli effetti30.

Nell’analisi del panorama calcistico italiano del secondo dopoguerra, uno degli aspetti più peculiari, insieme alla fase di transizione che caratterizzò le grandi società, fu il prepotente emergere di numerosi piccoli club, legati a centri urbani dove il calcio aveva conosciuto scarsi successi o periodi di declino, o ancora a territori marginali in termini socio-economici. Origini apparentemente così modeste valsero a queste società l’appellativo di “provinciali”, a sottolineare la loro collocazione appartenente periferica nella geografia sportiva italiana. Le provinciali, tuttavia, si distinsero per la loro centrale importanza nel sistema calcistico italiano proprio nei tre decenni successivi alla Seconda guerra mondiale. Esse, in particolare, si dimostrarono spesso anticipatrici dei tempi nelle politiche di gestione economica, destinando grande attenzione al mercato dei calciatori, riuscendo al contempo a controbilanciare con gli incassi dei trasferimenti le loro limitate risorse. La varietà delle casistiche locali rende difficile sintetizzare efficacemente le modalità gestionali delle numerose società provinciali che si affacciarono nelle due massime divisioni tra gli anni quaranta e gli anni cinquanta, ma effettuando una classificazione in termini generali, è possibile identificare: casi di mecenatismo da parte del notabilato o dell’imprenditoria locale, spesso sull’onda dello sviluppo economico che diverse aree del Paese conobbero in quel periodo; ridotti casi di esplicito patrocinio industriale, dove la società legò il suo nome ad un’azienda del luogo (Ozo Mantova, Talmone Torino, Marzotto Valdagno, Lanerossi Vicenza)31; società prive di significative risorse economiche ed orientate all’auto-sostentamento, soprattutto tramite il mercato dei calciatori (per quasi vent’anni, tra la fine degli anni quaranta e la fine degli anni sessanta, il modello di questa società fu incarnato dalla SPAL)32. È comunque necessario evidenziare come si tratti di distinzioni di massima: numerosi sono infatti i casi di commistione tra le differenti modalità gestionali in cui importanti aziende (in forma indiretta) o imprenditori locali (in forma diretta, magari ricoprendo il ruolo di presidente) fornivano supporto economico ad una società calcistica pur senza configurarsi come un vero e proprio patrocinio industriale, come avvenne ad esempio a Brescia (Beretta), Piombino (Magona d’Italia), Varese (Ignis)33.

Osservare l’organizzazione dirigenziale di queste piccole società è particolarmente interessante perché mette in evidenza l’ascesa, nel periodo dell’immediato dopoguerra, di nuove figure ibride tra il dirigente “vecchio” stampo ed il tecnico dedito alle faccende di campo. I “dirigenti-tecnici” condividevano con il nuovo gruppo di vertice del calcio italiano lo slancio verso la modernità e la visione economico-centrica della gestione societaria, ma ad essa integravano l’esperienza maturata come calciatori o allenatori prima di passare dietro la scrivania, ponendosi quindi a metà tra il moderno dirigente sportivo e la tradizione del gentleman dell’epoca pionieristica. Dare una definizione efficace del ruolo e del peso ricoperto dai dirigenti-tecnici in questa fase storica del calcio italiano è assai difficile, poiché i casi locali dimostrano spesso una loro originalità ed una decisa resistenza alla generalizzazione. Inoltre, nel periodo in esame, mancava ancora una netta distinzione tra l’area dirigenziale, economica ed istituzionale e l’area tecnica e sportiva di una società, portando spesso una singola persona a cumulare su di sé più cariche che oggi sarebbero ricoperte da figure nettamente distinte. Sotto il punto di vista teorico è possibile definire come dirigente-tecnico chiunque abbia ricoperto incarichi in entrambi gli ambiti, ma alla prova dei fatti, il discrimine per definire la vera portata innovatrice di queste figure è il loro ruolo nella trasformazione in atto nel calcio italiano del dopoguerra. Furono infatti l’iniziativa e l’originalità di questi nuovi dirigenti a permettere la creazione di quel sistema di scambi e relazioni che trasformò il mercato dei calciatori dell’epoca nel calciomercato moderno. Il ruolo delle piccole società nel nuovo meccanismo era fondamentale: con l’entrata in scena delle proprietà imprenditoriali nelle piazze maggiori, aumentò la competitività del campionato e la richiesta di giocatori di buon livello, all’interno di un mercato che era ancora prevalentemente limitato all’ambito nazionale; le piccole società, orientate verso una gestione che privilegiava la sostenibilità economica, potevano fornire i giocatori richiesti e guadagnare dalle cessioni le risorse necessarie da reinvestire sul mercato per mantenere la categoria. A porre le premesse per questo circuito integrato era stata l’intraprendenza di molti dirigenti delle piccole società, consapevoli delle necessità delle loro piazze e sostenuti nella loro attività dall’esperienza di campo maturata negli anni. Ad incarnare il modello ideale di questa nuova figura erano Gipo Viani, ex calciatore di buon livello prima di diventare allenatore, e Paolo Mazza, prima allenatore e poi presidente della SPAL.

Originario di Treviso, Gipo Viani, all’anagrafe Giuseppe, aveva militato come calciatore nelle fila di diverse società di primo piano come Ambrosiana-Inter, Lazio, Livorno e Juventus. Dopo aver chiuso la carriera alla Salernitana, ne aveva assunto il ruolo di allenatore a partire dalla stagione 1941-1942. Dopo una breve parentesi nel periodo bellico, tornò sulla panchina dei granata nella stagione 1946-1947, nella quale fu uno dei primi allenatori in Italia ad adottare uno schieramento difensivo rinforzato da un libero, che la stampa sportiva ribattezzò «vianema»34. Tra il 1948 ed il 1958 ricoprì l’incarico di allenatore di Lucchese (1948-1949), Palermo (1950-1951), Roma (1951-1952), Bologna (1952-1956) e Milan (1956-1958), prima di assumere le vesti di direttore tecnico dei rossoneri fino al 1965, per poi chiudere la carriera da dirigente tra Genoa (1965-1966), Bologna (1966) ed Udinese (1966-1969)35. La sua interpretazione del ruolo di allenatore fu sempre molto ampia, tanto da gestire direttamente il mercato dei calciatori36. Attento alla valorizzazione dei giovani giocatori, si distinse soprattutto per l’abilità affaristica e l’attenzione al mercato estero. Le sue competenze gli permisero di assemblare squadre di successo, arrivando persino alla conquista della Coppa dei Campioni con il Milan nel 1962-1963, unitamente a tre scudetti (1956-1957, 1958-1959, 1961-1962), tutti vinti con i rossoneri37. Tra il 1958 ed il 1960 ricoprì per due brevi periodi la carica di commissario tecnico della nazionale, mentre fu direttore tecnico della nazionale olimpica di Roma 196038.

A differenza di Viani, Paolo Mazza legò pressoché tutta la sua esperienza professionale e personale ai colori della SPAL, squadra della città di Ferrara. Nato a Vigarano Mainarda, ma originario di Portomaggiore, ricoprì l’incarico di allenatore della squadra del piccolo comune ferrarese nella prima metà degli anni trenta39. I buoni risultati ottenuti gli valsero le attenzioni della SPAL, che lo ingaggiò per la panchina alla vigilia della stagione 1936-193740. Direttore tecnico dei biancazzurri tra il 1939 ed il 1942, rappresentò la continuità tra il periodo prebellico ed il dopoguerra per la società ferrarese, assumendone la presidenza nel 194741. Viste le limitate risorse economiche della SPAL, Mazza affidò al calciomercato le fortune della sua squadra, concentrandosi sulla valorizzazione dei giovani calciatori acquistati nelle divisioni inferiori o sul rilancio di veterani finiti ai margini delle società di appartenenza. Conquistata la Serie A nella stagione 1950-1951, la SPAL rimase nella massima divisione per sedici anni tra il 1951-1952 ed il 1967-1968, con l’unica eccezione della stagione 1964-196542. Mazza si guadagnò il soprannome di «Mago di campagna» per le sue abilità in sede di calciomercato, incarnando idealmente il modello del dirigente-tecnico delle società provinciali43. Il suo controllo sull’organizzazione societaria era pressoché assoluto, con gli allenatori ridotti a semplici preparatori atletici44. Rimase alla guida dei biancazzurri fino al 1976, nonostante le ultime negative stagioni, quando venne estromesso dal nuovo gruppo dirigente guidato da Primo Mazzanti45.

L’“invenzione” del calciomercato

Il passaggio dal mercato dei giocatori che aveva caratterizzato il calcio italiano fino alla Seconda guerra Mondiale al calciomercato degli anni cinquanta non avvenne in modo sistematico o programmato46. Si trattò piuttosto di un’intuizione, o meglio di una vera e propria “invenzione”, nata dall’iniziativa di un gruppo di quei presidenti e dirigenti-tecnici che si era affermato nei primi anni del dopoguerra. A differenza di quanto accaduto al termine della Prima guerra mondiale, il mercato dei calciatori non subì particolari ridimensionamenti, vivendo al contrario una ripresa relativamente rapida ed una conseguente crescita del giro d’affari47. Nell’estate del 1946 i trasferimenti di Fattori e Carapellese, rispettivamente dal Vicenza alla Sampdoria e dal Novara al Milan, furono valutati circa 10 milioni di lire e risultarono i più costosi del mercato, ma già quattro anni dopo i prezzi erano triplicati48. Le opportunità di guadagno offerte dai trasferimenti erano senza precedenti, con le società maggiori pronte ad investire cifre prima difficilmente raggiungibili, come ad esempio accadde nel corso della sessione di mercato che precedette la stagione 1949-1950, in cui il Torino, colpito dalla tragedia di Superga, dovette sborsare la cifra esorbitante di 200 milioni di lire per ricostruire la squadra49. L’aumento delle spese non aveva riflessi positivi sulle finanze dei club (tra il 1946 ed il 1951 le uscite delle società di Seria A e B passarono da 750 a 4910 milioni, con i passivi annuali che lievitarono da 30 a 370 milioni e quelli pluriennali da 60 a 1200)50, ma ciò non frenava l’attivismo sul mercato dei calciatori. Con le congiunture economiche nazionali che cominciarono a dimostrarsi favorevoli, la possibilità di mettere in piedi una struttura, almeno ufficiosa, a supporto dei trasferimenti degli atleti divenne una prospettiva interessante, soprattutto per quella nutrita schiera di presidenti avvezzi al protagonismo e dirigenti-tecnici abituati a condurre personalmente le trattative. Gli ispiratori principali dell’iniziativa furono proprio Viani e Mazza. Il primo aveva recentemente assunto l’incarico di tecnico del Palermo, passato sotto la presidenza del tanto eccentrico quanto ambizioso Raimondo Lanza di Trabia, mentre il secondo si stava distinguendo come uno dei principali protagonisti delle ultime sessioni di mercato, soprattutto grazie alla sua grande abilità nella valorizzazione dei giocatori. Come centro dell’attività di scambio venne scelta Milano, che si prestava al ruolo grazie alla sua centralità nell’economia nazionale. In un’epoca antecedente alla motorizzazione di massa e caratterizzata dalla scarsità di infrastrutture capaci di garantire rapidi spostamenti in automobile, la scelta della sede del nuovo calciomercato cadde sullo storico Hotel Gallia, in Piazza Duca d’Aosta, facilmente raggiungibile dalla vicina Stazione Centrale51. Se oggi quella piazza vede svettare la caratteristica sagoma del grattacielo Pirelli, inaugurato nel 1960 e divenuto uno dei simboli architettonici del Miracolo economico, all’epoca fu proprio l’investitura a sede del calciomercato dell’Hotel Gallia a rappresentare il primo segno della crescita economica del Paese.

Assecondando almeno formalmente i regolamenti federali, il calciomercato occupava, in termini temporali, poche settimane tra la fine di giugno e l’inizio di luglio, precedendo l’inizio della stagione, anche se negli anni successivi si sarebbero aggiunte sessioni di riparazione all’inizio dell’autunno. Durante il periodo in cui erano permessi i trasferimenti, decine di dirigenti, tecnici e rappresentanti delle diverse società affluivano nei saloni del Gallia, trasformando l’albergo in un caotico mercato generale che aveva poco della borsa valori e molto di un’asta per l’acquisto del bestiame, come gli sghignazzi della divertita stampa sportiva non mancavano di sottolineare52. La rapida crescita del calciomercato, del resto, non poteva che attirare le attenzioni della carta stampata, che dedicò al fenomeno uno spazio sempre maggiore, fino a documentarlo con regolarità a partire dai primi anni sessanta. Fu proprio la stampa, a coniare il nuovo termine, una crasi delle parole “calcio” e “mercato”, dapprima riportate con un trattino di separazione, quindi fuse per esigenze giornalistiche53. Gli stessi giornalisti potevano essere attori di primo piano delle trattative, come nel caso del direttore de «Il Guerin Sportivo», Alberto Rognoni, che non esitò ad utilizzare il proprio ruolo di spicco all’interno del mondo calcistico non solo per fini giornalistici, ma anche per influenzare direttamente i trasferimenti attraverso l’adozione di pratiche assai poco ortodosse, quando non al limite del grottesco54. Tutto l’ambiente del Gallia in realtà era permeato da un clima di affarismo ed opportunismo che, unito alla tradizionale permeabilità dei regolamenti federali, generava una miscela potenzialmente esplosiva. Aggirare le regolamentazioni per i trasferimenti era la norma, come era consueto assistere a trattative condotte con pratiche “artigianali”, come accordi informali con cifre scritte su tovaglioli o pacchetti di sigarette55. Nelle estati del Gallia a ricoprire il ruolo di primo piano erano sicuramente i presidenti ed i dirigenti più attivi sul mercato, come gli stessi Viani e Mazza, ma anche Achille Lauro, Renato Dall’Ara o Carlo Masseroni, ma attorno ad essi iniziò a svilupparsi anche un sottobosco ancora poco definito di intermediari, affaristi o semplici approfittatori, interessati a lucrare su di un mercato in costante crescita e capace di movimentare cifre enormi. A prestare il fianco a questo tipo di infiltrazione era la stessa natura del calciomercato, che stava peraltro subendo una rapida mutazione: nel giro di pochi anni, si consolidarono nuove forme di trasferimento dei calciatori, a dimostrazione di una raggiunta maturazione. Accanto alla tradizionale acquisizione del cartellino dietro contropartita economica divenne organica la pratica del prestito dei giocatori, mentre si fece strada anche una peculiare forma di trasferimento, la comproprietà, che conobbe un ineguagliato successo sul mercato italiano, anche per l’ambiguità di alcune sue procedure, come il riscatto alle buste56. Anche il rapporto di lavoro dei calciatori stava progressivamente trasformandosi. Formalmente, per i giocatori continuavano a valere i principi sanciti nella Carta di Viareggio, ma nei fatti pressoché tutti i calciatori nelle due massime divisioni erano professionisti. Ciononostante, la piena sanzione del loro status continuava a non arrivare. Le motivazioni alla base di questa reticenza ad abbracciare il pieno professionismo da parte dei vertici delle istituzioni calcistiche vanno ricercate nell’ancora radicata mentalità dilettantistica che permeava numerosi dei loro membri, ma anche nella scarsa volontà delle società di affrontare concretamente il problema. Grazie all’ambiguità nella definizione dello status dei calciatori ed al lassismo nei controlli, infatti, i club potevano godere di più ampi spazi di manovra nell’amministrare le loro uscite, eludere i vincoli fiscali ed infine esercitare un maggior potere ricattatorio sui giocatori stessi57. Questi ultimi, se si eccettuano pochi fuoriclasse capaci di dettare autonomamente le proprie condizioni alle società di appartenenza, erano così di fatto completamente dipendenti dalla volontà del club che li tesserava58. Il dibattito sul professionismo continuò sottotraccia per tutto il decennio, sino all’approvazione di una «dichiarazione di professionismo» fatta firmare ai calciatori alla vigilia della stagione 1959-1960 che tuttavia rimase poco più che un mero riconoscimento formale59. Per la piena svolta verso il riconoscimento dei diritti lavorativi dei calciatori si sarebbero dovuti infatti attendere gli anni settanta60.

Un simile opportunismo da parte delle società era rilevabile in un altro ambito che fu spesso al centro dell’attenzione mediatica nel corso degli anni cinquanta e sessanta: quello dei calciatori stranieri. Il loro tesseramento era stato vietato, con l’eccezione degli oriundi, dalla Carta di Viareggio, ma alla fine della Seconda guerra mondiale le frontiere erano state riaperte. Le polemiche intorno all’eccessivo impiego degli stranieri sorsero con regolarità nel corso dei decenni successivi, soprattutto in occasione degli insuccessi della nazionale61. Anche in questo caso, tuttavia, la problematica fu sempre molto difficile da affrontare soprattutto per le pressioni esercitate dalle società. Se da una parte il mercato estero poteva essere un’opportunità per ingaggiare ottimi giocatori che avrebbero permesso il salto di qualità ad una squadra, dall’altra parte esso rappresentava, molto più spesso, una terra di speculazione e becero opportunismo. Allenatori, delegati delle società, osservatori con licenza di spesa, semplici intermediari quando non faccendieri e maneggioni di dubbia reputazione scorrazzavano infatti alla ricerca di calciatori da ingaggiare in mercati dove, grazie ad una disinvolta interpretazione dei regolamenti federali italiani e locali, sarebbe stato possibile spendere cifre irrisorie per atleti di buon livello. Fu il caso, ad esempio, dei paesi scandinavi, dove lo status di dilettanti dei calciatori permetteva alle società italiane di ingaggiare atleti di ottima caratura pagando ai club di appartenenza indennizzi irrisori62. La pratica di agire furbescamente sul mercato internazionale, sfruttando una legislazione vaga, quando non del tutto assente, non era del resto nuova per le società italiane: già negli anni venti questo atteggiamento spregiudicato aveva causato frizioni tra la federazione italiana e quella ungherese63, ma il tema si ripresentò con continuità anche nei decenni successivi. Proprio tra il dopoguerra e gli anni cinquanta, inoltre, si aprirono nuove rotte di mercato sia con le tradizionali destinazioni sudamericane (Argentina, Brasile, Uruguay), sia con paesi dell’area europea, come Austria, Svizzera e Turchia64.

Che fosse per opportunismo o narcisismo dei presidenti delle grandi società piuttosto che per calcolato affarismo dei dirigenti-tecnici delle provinciali, il mercato aveva infatti conosciuto una vera e propria esplosione a partire dalla stagione 1950-1951, la prima in cui la sessione dei trasferimenti si svolse in prevalenza al Gallia. Quando all’inizio del decennio un cartellino di un buon calciatore poteva essere valutato intorno ai 10 milioni di lire, alla metà degli anni cinquanta il valore si assestava tra il triplo ed il quadruplo65. Le società maggiori investirono cifre assai significative nella rincorsa per lo scudetto, che tuttavia, nel corso del decennio, lasciò l’asse Milano-Torino solo per la stagione 1956-1957, grazie al successo della Fiorentina66. Già verso la fine degli anni cinquanta le piccole società iniziarono a mostrare segni di difficoltà nel mantenersi competitive per i primi posti in un sistema che richiedeva costi di mantenimento sempre più significativi.

L’alba del Miracolo economico italiano segnò il definitivo passaggio del calciomercato di Serie A verso la dimensione che oggi ci è più familiare, ossia quella di un vero e proprio sistema autonomo e peculiare, capace di movimentare cifre assai difficili da ipotizzare in settori diversi e completamente fuori scala rispetto alla dimensione dei trasferimenti nelle serie inferiori ed all’effettivo valore del denaro. In due distinte sessioni di mercato, la prima nelle estati 1957 e 1958 la seconda in quella 1961, le maggiori società di Serie A diedero il via ad una vera e propria asta a rialzo, arrivando a sborsare cifre esorbitanti per ingaggiare giocatori di richiamo, soprattutto dal mercato estero67. Tra il 1957 ed il 1958 la Juventus spese 115 milioni per il cartellino di John Charles e 180 per quello di Omar Sivori, l’Internazionale 90 milioni per Antonio Valentin Angelillo, il Milan 135 per Josè Altafini, il Bologna 90 per Humberto Maschio68. Appena quattro anni dopo, l’Internazionale cedette Angelillo alla Roma per 250 milioni, che nemmeno coprirono le uscite determinate dall’ingaggio di Luis Suarez (più 250 milioni al Barcellona) e Jerry Hitches (135 milioni all’Aston Villa), il Milan ingaggiò Jimmy Greaves dal Tottenham per 135 milioni ed il Torino spese più di 300 milioni complessivi per i cartellini di Dennis Law e Joe Baker da Manchester City ed Hibernians69. Si trattava ormai di trattative condotte secondo i nuovi principi di un calcio pienamente di mercato, lontanissimo dai valori dilettantistici ancora forti appena pochi decenni prima. Agli inizi degli anni sessanta, le società maggiori avevano definitivamente accettato l’idea di una gestione di impostazione imprenditoriale e pienamente imperniata intorno all’economia. Nel 1959 i calciatori erano passati dallo status di dilettanti a quello di professionisti anche a livello formale, segnando un primo passo verso il riconoscimento formale dell’ormai consolidata pratica del calciomercato70. Pochi anni dopo, nel 1967, la regolamentazione dei rapporti economici consolidatisi a partire dal decennio precedente sarebbe stata pienamente sancita dalla trasformazione dei club in società per azioni, provvedimento sul quale pesò molto il ruolo dell’ormai consolidato mercato dei trasferimenti71. Dopo pochi anni dalla sua “invenzione” il calciomercato moderno aveva assunto tutti i caratteri di quel fenomeno socio-economico che avrebbe caratterizzato i decenni a venire ed aveva traghettato il calcio nella sua epoca liberista.

Conclusione

Come è ben evidente da questa breve carrellata, il calciomercato è sempre stato un fenomeno centrale nell’universo calcistico italiano. Connaturato alla stessa pratica sportiva, esso si è sviluppato parallelamente ad essa nel corso dei decenni, ritagliandosi un ruolo sempre più importante nell’economia delle società calcistiche e incidendo sempre più sugli equilibri di bilancio oltre che su quelli del campo. Organico al sistema sin dalla sua nascita, il calciomercato ne ha condiviso pregi e storture, consolidando negli anni anche una serie di pratiche diffuse volte all’aggiramento dei regolamenti ed improntate allo sfruttamento opportunistico delle occasioni di mercato piuttosto che all’oculata gestione economica delle società.

Il momento di svolta nella lunga parabola del mercato dei giocatori, che ha dato il via al suo processo di trasformazione nell’enorme fenomeno socio-economico che oggi conosciamo può essere rintracciata nell’Italia del secondo dopoguerra, quando l’iniziativa di una nuova generazione di presidenti e dirigenti-tecnici ha portato ad una svolta del calcio verso una piena economia di mercato. Se oggi percepiamo come lo sport, ed il calcio in particolare, conoscano una dimensione pienamente globalizzata e forse nell’atto di superare ancora più radicalmente i limiti dei confini nazionali, in parte lo dobbiamo anche all’attività di dirigenti come Gipo Viani e Paolo Mazza, che pur lontanissimi nel tempo e nei modi dal calcio come oggi lo conosciamo, hanno posto i semi di questi processi di innovazioni grazie alla loro personalissima “invenzione” del calciomercato.


1 Calciomercato in De Mauro. Il dizionario della lingua italiana, a cura di T. De Mauro, Milano, Paravia, 2000, p. 352; Treccani.it, Calciomercato, in «Vocabolario Treccani online», [https://www.treccani.it/vocabolario/calciomercato/] (quando non diversamente specificato l’ultimo accesso agli url è sempre 31 dicembre 2021).

2 Calcioefinanza.it, Il mercato e le 7 sorelle: saldo e impatto a bilancio per i top club, 4 settembre 2021, [https://www.calcioefinanza.it/2021/09/04/il-mercato-e-le-7-sorelle-saldo-e-impatto-bilancio-per-top-club/] (31 dicembre 2021); P. Russo, Bilancio impietoso di un mercato calcistico da paese marginale, in «Domani», 2 settembre 2021 [https://www.editorialedomani.it/fatti/bilancio-serie-a-calciomercato-italiano-cr7-rfeo5iiz].

3 Sulle recenti inchieste relative al calciomercato si veda, a titolo d’esempio: G. Galanti, Dalle plusvalenze ai procuratori, sotto inchiesta i pilastri del calciomercato, in «Huffingtonpost.it», 13 dicembre 2021, [https://www.huffingtonpost.it/entry/dalle-plusvalenze-ai-procuratori-sotto-inchiesta-i-pilastri-del-calciomercato_it_61b76f02e4b0b50268a96a29].

4 Se numerose delle emittenti televisive che dedicano ampio spazio alla trattazione di temi legati al calciomercato possono essere ricondotte all’ambito locale, esistono diversi casi di canali più importanti che fanno dal racconto e dell’approfondimento del mercato calcistico un elemento importante del loro palinsesto. È questo il caso, ad esempio del canale all news sportivo Sky Sport 24, di Sky Sport Uno o di Sportitalia. All’interno della programmazione di queste emittenti non è raro trovare, soprattutto nel corso dei periodi in cui sono aperti i trasferimenti dei calciatori, veri e propri show dedicati ad una trattazione enfatizzata e spettacolarizzata del calciomercato, spesso ricche di ospiti e divagazioni di vario tono, come nei casi Calciomercato-L’Originale sulle frequenze Sky o di Speciale Calciomercato di Sportitalia, che eloquentemente si autodefinisce «La casa del calciomercato».

5 N. De Ianni, Il calcio italiano 1898-1981. Economia e potere, Soveria Mannelli, Rubettino, 2015, pp. 87-88.

6 Ivi, pp. 93-94; M. Cavallini-F. Pazzi, Paolo Mazza “il mago di campagna”. La storia del Presidente che portò la S.P.A.L. nell’Olimpo del calcio, Ferrara, Linea BN, 2011, p. 45.

7 De Ianni, Op. cit., pp. 92-94.

8 Sul Miracolo economico italiano esiste una sterminata bibliografia. Si segnalano, senza nessuna pretesa di completezza, alcune opere che sono servite da supporto nel corso di questa ricerca: A. Graziani, L’economia italiana 1945-1970, Bologna, il Mulino, 1989; R. Petri, La frontiera industriale. Territorio, grande industria e leggi speciali prima della Cassa per il Mezzogiorno, Milano, FrancoAngeli, 1990; V. Zamagni, Dalla periferia al centro. La seconda rinascita economica dell’Italia (1861-1990), Bologna, il Mulino, 1993; F. Cazzola, Le campagne padane dall’Ottocento a oggi, Milano, Mondadori, 1996; P. Dorfles, Carosello, Bologna, il Mulino, 1998; F. Monteleone, Storia della radio e della televisione in Italia. Un secolo di costume, società e politica, Venezia, Marsilio, 2003; G. Crainz, Storia del miracolo italiano. Culture, identità e trasformazioni tra gli anni cinquanta e sessanta, Roma, Donzelli, 2005; M. Colucci, Lavoro in movimento. L’emigrazione italiana in Europa 1945-57, Roma, Donzelli, 2008; V. Castronovo, L’Italia del miracolo economico, Roma-Bari, Laterza, 2010; V. Zamagni, L’industria chimica italiana e l’IMI, Bologna, il Mulino, 2010; E. Asquer, Storia intima dei ceti medi. Una capitale e una periferia nell’Italia del miracolo economico, Roma-Bari, Laterza, 2011; A. Lepre-C. Petraccone, L’economia italiana 1945-1970, Bologna, il Mulino, 2012; C. Bonifazi, L’Italia delle migrazioni, Bologna, il Mulino, 2013; G. Crainz, L’ombra della guerra. Il 1945, l’Italia, Milano, Universale Economica Feltrinelli, 2014; L. Campus, Non solo canzonette. L’Italia della Ricostruzione e del Miracolo attraverso il Festival di Sanremo, Milano, Mondadori, 2015; E. Scarpellini, A tavola! Gli italiani in 7 pranzi, Roma-Bari, Laterza, 2014; V. Castronovo, Storia economica d’Italia, Torino, Einaudi, 2021.

9 A. Agosti-G. De Luna, Juventus. Storia di una passione italiana, Milano, UTET, 2019, pp. 15-40; De Ianni, Op. cit., p. 95; A. Papa-G. Panico, Storia sociale del calcio in Italia. Dai club pionieri alla nazione sportiva (1887-1945), Bologna, il Mulino, 1993, pp. 40-42.

10 De Ianni, Op. cit., p. 95; Papa-Panico, Op. cit., pp. 40-42.

11 Agosti-De Luna, Op. cit., pp. 15-40.

12 P. Dietschy, Storia del calcio, Vedano al Lambro, Paginauno, 2014 (ed. or. Histoire du football, Paris, Perrin, 2010), pp. 44-53.

13 De Ianni, Op. cit., p. 95.

14 Papa-Panico, Op. cit., pp. 58-60.

15 A titolo d’esempio, si veda il caso del trasferimento di De Vecchi dal Milan al Genoa citato in: De Ianni, Op. cit., pp. 49-50 e J. Foot, Calcio. 1898-2010. Storia dello sport che ha fatto l’Italia, Milano, BUR, 2010, pp. 48-49.

16 De Ianni, Op. cit., pp. 30-31; Foot, Op. cit., pp. 48-49.

17 Ibidem.

18 Papa-Panico, Op. cit., pp. 109-112.

19 P. Facchinetti, Dal football al calcio. Ottant’anni di storia e di pallone raccontati attraverso le pagine del Guerin sportivo, Bologna, Conti, 1998, pp. 11-18; De Ianni, Op. cit., p. 30.

20 Ivi, pp. 30-31.

21 Ibidem.

22 Papa-Panico, Op. cit., pp. 118-119.

23 Ibidem.

24 C.F. Chiesa, La grande storia del calcio italiano, Bologna, Il Guerin Sportivo, 2012, p. 111; De Ianni, Op. cit., p. 32.

25 Chiesa, Op. cit., pp. 112-118; De Ianni, Op. cit., pp. 107-108.

26 Ibidem.

27 Ivi, pp. 32-34.

28 Ibidem.

29 Ivi, p. 35.

30 Il primo passo per poter effettivamente accostare la gestione delle società di calcio a quella di vere e proprie imprese venne compiuto solo a partire dal 1967, con la loro trasformazione in società per azioni, all’epoca formalmente ancora senza scopo di lucro. Cfr. Ivi, p. 209.

31 Papa-Panico, Op. cit., pp. 123-131; M. Pignotti, Affermazione sociale e fidelizzazione territoriale: l’uso pubblico del club. Le “provinciali di lusso” e il boom economico italiano, abstract per il Convegno Cantieri di Storia X (Modena, 18-20 settembre 2019).

32 Cavallini-Pazzi, Op. cit., pp. 26-39.

33 Pignotti, Op. cit., pp. 1-10.

34 M. Bartoletti, Viani, Giuseppe in «Enciclopedia dello sport», 2002, [https://www.treccani.it/enciclopedia/giuseppe-viani_%28Enciclopedia-dello-Sport%29/] (3 gennaio 2022); De Ianni, Op. cit., pp. 86-87.

35 Bartoletti, Op. cit.; De Ianni, Op. cit., pp. 86-87.

36 Bartoletti, Op. cit.; De Ianni, Op. cit., pp. 86-87.

37 Bartoletti, Op. cit.; De Ianni, Op. cit., pp. 86-87.

38 Bartoletti, Op. cit.

39 Cavallini-Pazzi, Op. cit., pp. 13-15.

40 M. Malaguti, SPAL 110. 1907-2017 Storia critica, uomini e numeri della squadra dalla nascita al trionfale ritorno in serie A, San Lazzaro di Savena, Gianni Marchesini, 2017, pp. 153-154.

41 Cavallini-Pazzi, Op. cit., p. 23; Malaguti, Op. cit., pp. 154-168.

42 Malaguti, Ivi, pp. 167-211.

43 G. Bechetti-G. Palmieri, La SPAL 1908-1974, Bologna, Daniele Rubboli, 1974, p. 8.

44 Malaguti, Op. cit., pp. 18-19.

45 Ibidem.

46 Il caso italiano si dimostra di particolare interesse per la rapidità e la pervasività con cui il calciomercato diviene parte integrante del sistema calcistico a partire tra l’immediato dopoguerra ed i primi anni cinquanta, per poi di fatto non abbandonare più tale posizione di preminenza. Come evidenziato nei paragrafi precedenti, l’Italia si era dimostrata particolarmente sensibile al fascino del mercato calcistico già prima della Seconda guerra mondiale, anche a dispetto della formale assenza di professionismo tra i calciatori. La rapidissima espansione che il calciomercato italiano conosce negli anni cinquanta lo porta presto a rapportarsi alla pari, quando non a superare, l’area britannica, dove il regime professionistico e la pratica dei trasferimenti erano già consolidati da decenni. Una rapida ricognizione sulle fonti giornalistiche britanniche degli anni cinquanta permette di identificare il costo del cartellino di un buon giocatore di First Division tra le 10.000 e le 20.000 sterline, con diversi club in difficoltà per i costi del mercato già ad inizio del decennio (a titolo d’esempio: Leuty Likely To Be Too Costly for Many Clubs, in «Hull Daily Mail», 9th march 1950, p. 8). Al contrario il trasferimento di Jepson al Napoli dall’Atalanta (che lo aveva prelevato proprio da una squadra inglese, il Charlton Athletic, per 18.000 sterline) raggiunge una cifra sicuramente superiore alle 40.000 sterline (si veda: De Ianni, Op. cit., pag. 38). Casi di crescita significativa nel volume e nel valore dei trasferimenti si segnalano anche nell’area iberica, pur con differenze a livello locale e senza raggiungere la continuità del caso italiano (in proposito cfr. Dietschy. Op. cit., pp. 334-345), mentre l’Europa nord-occidentale e danubiana sono principalmente aree di emigrazione di calciatori verso i campionati più ricchi.

47 Malaguti, Op. cit., pp. 24-25.

48 De Ianni, Op. cit., pag. 35.

49 Ivi, p. 60.

50 Ivi, p. 24.

51 Sulle infrastrutture e la viabilità nell’Italia degli anni cinquanta si veda: Crainz, Op. cit., pp. 124-125.

52 Un articolo particolarmente interessante in proposito, anche se successivo ai primi anni del mercato all’Hotel Gallia è: G. Tumiati, Nei saloni del Gallia come in Borsa, in «La Stampa», 10 luglio 1969, p. 14.

53 A titolo d’esempio si può vedere: Mille milioni per due giocatori, in «Corriere d’informazione», 16-17 luglio 1962, prima attestazione dell’uso del termine senza trattino sull’edizione serale del «Corriere della Sera».

54 De Ianni, Op. cit., pp. 120-122.

55 Cavallini-Pazzi, Op. cit., p. 45; F. Esposito, Testa alta, due piedi. Storie di calciomercato, Roma, Absolutely Free, 2011, pp. 12-13.

56 La fine delle comproprietà nel calcio, in « Il Post», 29 maggio 2014 [https://www.ilpost.it/2014/05/29/comproprieta-calcio/] (3 gennaio 2022).

57 De Ianni, Op. cit., pp. 159-160.

58 Ivi, pp. 41-42.

59 Una conferenza del commissario Zauli sui maggiori problemi del calcio italiano, in «Corriere della Sera», 4 aprile 1959, p. 13.

60 De Ianni, Op. cit., pp. 214-225.

61 , Treviso-Roma, Fondazione Benetton Studi Ricerche-Viella, 2019, pp. 418-419; N. De Ianni,Op. cit., pp. 167-172.

62 A. Ghirelli, Storia del calcio in Italia, Torino, Einaudi, 1974, pp. 201-203.

63 Cfr. L. Venuti, Hungary as a Sport Superpower. Football from Horthy to Kádár (1924–1960), Berlin, De Gruyter Oldenbourg, 2024.

64 Sulle figure dei calciatori stranieri in Italia e sulla rilevanza dei trasferimenti internazionali si segnala in particolare: A. Molinari-G, Toni, I migranti del pallone. I calciatori stranieri in Italia. Un secolo di storia, Firenze, Le Monnier, 2023.

65 De Ianni, Op. cit., p. 38.

66 Ghirelli, Op. cit., pp. 235-239.

67 De Ianni, Op. cit., p. 39.

68 Ibidem.

69 Foot, Op. cit., pp. 487-488; E. Visoli, Più di mezzo miliardo per un paio di gambe, in «Domenica del Corriere», 9 luglio 1961, p. 14.

70 Una conferenza del commissario Zauli sui maggiori problemi del calcio italiano, in «Corriere della Sera», 4 aprile 1959, p. 13.

71 De Ianni, Op. cit., p. 209.