Il messaggero ideale della Patria: la pedagogia patriottica del Giro d’Italia dalle origini agli anni Sessanta

Lucia Grazia Coviello

Ricercatrice indipendente

Indice

Completare il Risorgimento

Il Meridione e Roma

Trento e Trieste

Risorgere dalle macerie

Il canto del cigno

Considerazioni conclusive


Abstract: In addition to being a well-known sporting competition, by express will of its founders, the Giro d’Italia has proved to be, since its debut, an effective means of patriotic propaganda. Indulging in this particular vocation, the race will try, in its various editions, to make its own personal contribution to the consolidation of the fragile Italian unification and to the formation of a national discourse in which all Italians can recognize themselves as part of a single people. The essay, which covers a long time span, from the first edition of 1909 to 1961, clearly shows how the Giro, through its routes and the words of the sports press, was, in his own way, an educator of national conscience. A particular messenger of a propaganda which, far from being granitic, will prove to be very sensitive to the changing image of Italy that the Italian political and cultural world intended to convey over the course of those decades.

Keywords: Giro d’Italia; Italy’s Nation-building; patriotic propaganda

Il Giro d’Italia è sempre stato qualcosa di più di una semplice competizione sportiva ed è nato, per stessa volontà dei suoi ideatori, «Gazzetta dello Sport» e ditta Atala, per essere qualcosa d’altro: «una mirabile manifestazione di propaganda»1. Propaganda industriale, naturalmente. Offriva e offre tutt’ora una spettacolare vetrina mobile per le ditte che, a vario titolo, vi prendono parte. Propaganda turistica. Nell’era televisiva più che mai le bellezze paesaggistiche e artistiche d’Italia incantano i telespettatori di tutta la Penisola e non solo. Propaganda patriottica. Fin dal suo esordio, nel 1909, dovendo confrontarsi con un’unità nazionale fragile e incompleta, la corsa ha scientemente condotto, attraverso la scelta mirata dei suoi itinerari, una tenace opera di affratellamento volta a unire «spiritualmente e materialmente, il maggior numero possibile di regioni»2 alfine di celebrare la «meravigliosa […] unitarietà»3 della Patria. Intento enfatizzato dalla scelta, chissà quanto casuale, di far partire la competizione nel mese di maggio, instaurando così idealmente una connessione di scopo con le «ricorrenze epiche di quell’altro maggio fondatore»4, quello del 1860, cui si aggiungerà poi quello del 1915. Avendo dalla sua un vantaggio strutturale rilevantissimo se paragonato, ad esempio, alla letteratura pedagogica postunitaria, fruibile dal solo, e, a inizio Novecento, ridotto pubblico alfabetizzato (nel 1911 il tasso di analfabetismo si aggira intorno al 43,1%, su 36 milioni di abitanti). Spetterà a lei, a questa itinerante tessitrice dell’unità nazionale, portare da Nord a Sud, da Est a Ovest, nelle grandi e popolose città come nelle più aride e solitarie campagne, l’Italia a tutti gli italiani senza discriminazione di censo o d’istruzione. Riuscendo, tra le altre cose, grazie al diffondersi della stampa sportiva (basti citare «Il Ciclo», del 1893, allegato a «Il Corriere della Sera» e la «Gazzetta dello Sport», nata nel 1896 come «Il Ciclista e la Tripletta») e alla popolarità di uno sport come il ciclismo, ad avvicinare alla lettura un pubblico di giovani e meno giovani che difficilmente avrebbe altrimenti approcciato un testo scritto5. Una propaganda altresì visiva grazie alla riproduzione su stampa del tragitto del Giro che fornisce, anno dopo anno, una «percezione finalmente anche geografica»6 della penisola italiana.

Va da sé che questa singolare pedagogia patriottica a pedali non possa procedere semplicemente facendo leva su percorsi che includano località significative per la storia nazionale, con particolare attenzione al periodo risorgimentale e alla Grande guerra, ovvero all’età che ha visto compiersi e completarsi il processo unitario. È fondamentale che a questi si associ una narrazione in grado di fare di questo viaggio attraverso la Penisola un’esperienza emozionale capace di insegnare la Nazione e rendere gli italiani consapevoli del comune destino che li unisce. Il modello da cui attingere, talmente forte da travalicare l’epoca per la quale è stato congegnato, è quello adottato tra fine Settecento e inizio Ottocento da quegli artisti e intellettuali italiani che, al fine di sollecitare i connazionali alla militanza patriottica, ricorsero a un insieme di simboli, immagini, figure e valori – per il quale lo storico Alberto Banti ha coniato l’espressione canone risorgimentale – in grado di colpire efficacemente l’immaginario collettivo e favorire la maturazione di un “io” plurale. L’Italia come terra della perenne resurrezione, come Madre da difende dalle mire espansioniste dell’invasore straniero – anche in bicicletta, come nella storia, la minaccia principale è rappresentata dagli «assalti del nord»7, nello specifico francesi e belgi –; la comunità nazionale come comunità familiare; la necessità del superamento del frazionismo italiano sono temi che, come vedremo, ricorreranno frequentemente nelle cronache giornalistiche del Giro d’Italia dei primi decenni e vieppiù in corrispondenza di ricorrenze nazionali particolari ed eventi spartiacque della storia patria: Cinquantenario e Centenario dell’unità, primo e secondo dopoguerra. Una propaganda tutt’altro che a sé stante, bensì, fortemente sensibile alla mutevole immagine d’Italia che il mondo politico e culturale italiano ha inteso veicolare nel corso degli anni.

Un interrogativo posto ai girini italiani in partenza nel 1911 riapre nell’Italia del Cinquantenario ferite non del tutto risolte: «che sarebbe domani di noi? […] voi siete pronti o latini? […] Un popolo di genti robuste sarà un popolo sempre di liberi»8. Anche la corsa, così come accade su altri fronti, coglie dal giubileo nazionale l’occasione per tentare un proprio bilancio della vita unitaria mettendo sul piatto una questione per lei non più rinviabile, soprattutto ora che la Nazione, con la guerra di Libia alle porte, tenta nuovamente l’uscita «dal recinto di casa»9. Fin dall’esordio il Giro, che nasce nell’anno del Futurismo e che dell’avanguardia nazionalista ne sposa la visione, presenta sé stesso come una «guerra, complessa e magnifica»10, propedeutica a «cose molto più grandi di una corsa in bicicletta»11. Questo nesso stretto tra l’attività sportiva e la guerra, diffusosi in Europa già sul finire del Settecento con l’imporsi di un nuovo modello di mascolinità contrassegnato da un’attitudine al coraggio, alla disciplina e al sacrificio disinteressato, si carica qui di un’urgenza tutta italiana afferente alla radicata convinzione, diffusa soprattutto oltre confine, secondo la quale il prolungato stato di sottomissione del Belpaese fosse dipeso da una carenza delle qualità virili e militari dei suoi abitanti12. Poiché, secondo modello, il vigore fisico e morale della popolazione maschile diventa criterio per misurare lo stato di salute della Nazione, occorre ora procedere al pieno compimento dell’emancipazione nazionale passando proprio attraverso il rinnovamento degli italiani. In altre parole, tornando in ambito sportivo, i giovani ciclisti italiani sono chiamati a completare l’opera di rivirilizzazione avviata dai patrioti risorgimentali, rispetto ai quali la generazione successiva, quella di Adua, si era dimostrata non all’altezza. Così gli sportivi avrebbero liberato l’Italia da un “nemico interno” più subdolo, ossia dagli «uomini pallidi, dalle menti oblique, dalle gambe storte [...] dai pedanti, dagli impotenti, dagli incostanti, dagli invidiosi»13 che ostacolano il fiorire di «una vera, nuova, indipendente, alacre, Italia»14. Per quanto utile possa considerarsi la sfida sportiva, solo la guerra, quella vera, può imprimere a questo percorso una svolta decisiva, attestando sul campo, e a dispetto dello scetticismo straniero, l’esistenza di un’italianità eroica. Se questo vale per il 1911, con «l’esame di riparazione»15 libico, vale ancor di più nel momento in cui si prospetta il confronto diretto con gli altri stati europei e la possibilità di ritagliarsi lo status di grande potenza. Esplicito, Nino Salvaneschi, prima della svolta pacifista, nei giorni del “maggio radioso”, scrive sulla «Gazzetta»: «i suonatori d’organetti, i lazzaroni, i maccheronai, i polentai, i briganti d’Italia, son mutati. Sui campi di battaglia […] i nemici troveranno la nuova generazione»16. È un allineamento alle posizioni interventiste che non si limita solo a riempire pagine di giornale. Nei mesi dell’incertezza che precedono la mobilitazione del 24 maggio, il foglio provvederà ad organizzare molteplici iniziative sportive (gare popolari di tiro a segno, marce ciclo-militari, adunate nazionali di sciatori e motociclisti, ecc.), finalizzate alla preparazione dei futuri soldati. Questo discorso incentrato sul carattere nazionale e sulla rivelazione della “vera Italia”, lungi dal concludersi con il successo militare del ’18, sarà ripreso ed estremizzato durante il Ventennio fascista. In una Nazione che ora «si nutre delle aspirazioni e delle glorie sancite dalla vittoria»17, il Fascismo, che considera sé stesso il legittimo erede tanto di quell’esperienza quanto degli eroismi risorgimentali, si sente ora chiamato a dare pieno compimento a questo Risorgimento in fieri. Lo farà riformulando il mito ottocentesco della Grande Italia secondo ambizioni imperialiste di conquista e di potenza. E tentando di rifare nuovamente gli italiani conformandoli a questo progetto di grandezza. Come scrive George Mosse: «l’uomo nuovo mussoliniano [...] viveva in uno stato di guerra permanente: sempre in divisa, sempre in marcia, votato all’esercizio fisico e allo sfoggio di virilità»18». Anche il Giro farà volentieri il suo, adeguando, ad esempio, la presentazione della corsa a questo pervasivo clima di guerra: si parla di adunata per indicare il raduno di partenza, di esercito per il gruppo, di rancio per il rifornimento, di duce per il leader di classifica19. “Donando” a un Regime che, per la sua eccessiva lentezza, non ama il ciclismo, e che considera financo uno sport poco virile, un campione in perfetta sintonia con il discorso dominate e il cui nome è tutto un programma, Learco Guerra, vincitore nel 1934.

Questa vena nazionalista/bellicista con cui la corsa è nata e cresciuta fino al giugno del ’40 verrà definitivamente accantonata con il Giro del ’46. Toccherà alle pedalate del «sarto»20 Gino Bartali, vincitore di quell’anno, ricucire un’Italia dalle «infinite rovine»21 e tuttavia pronta a ripartire. Un’edizione che, come vedremo, è specchio del generale clima di pacificazione che attraversava la Nazione. E a cui la corsa collabora non solo toccando le città simbolo del Risorgimento nazionale così da riunire idealmente tutti gli italiani, ma altresì contribuendo, attraverso l’ostinata descrizione delle macerie incontrate lungo la strada, ad alimentare quel «racconto egemonico»22 vittimistico e autoassolutorio, riassumibile nella dicotomia “italiani brava gente”-“cattivo tedesco”, con cui l’Italia, nei primi due anni del dopoguerra, nel tentativo di minimizzare le proprie responsabilità nel recente conflitto, ha cercato di guadagnarsi decisioni meno punitive ai tavoli di pace.

L’Italia del secondo dopoguerra sarà innanzitutto impegnata a lasciarsi alle spalle quello che, anche nelle cronache ciclistiche, viene vagamente definito «il cattivo patriottismo [che] sgretola gli scheletri delle Nazioni»23 per abbracciare un altrettanto incerto «buon patriottismo» che si tradurrà nella speranza di dar vita a un patriottismo sovranazionale che proietti l’amor di patria verso orizzonti europei. Sono anni cruciali che vedono l’Italia in prima linea nella costituzione della CECA, nel 1951, e della CEE, nel 1957, primi passi verso l’istituzione dell’Unione Europea nel 1992. Sono anni in cui soprattutto prende slancio quel miracolo economico che ne cambierà radicalmente il volto. È in questo contesto che la Nazione si appresta a festeggiare il suo Centenario, l’ultimo fremito in cui il «mito nazionale appare protagonista di primo piano sulla scena politica italiana»24. Celebrazioni a cui non può mancare l’apporto del Giro che disegna un’edizione all’insegna dell’esaltazione dei valori patriottici risorgimentali, presentandosi come il «Giro del Risorgimento, della libertà, della democrazia»25. Da quel 1961 in poi ha inizio quello che Baioni ha definito lo «sbiadimento»26 del Risorgimento come «icona dell’immaginario e fulcro dell’identità nazionale», sostituito, dopo i fatti di Genova dell’estate del ’60 e l’avvento del governo di centro-sinistra nel ’63, dal paradigma antifascista quale «mito di fondazione dello Stato repubblicano»27.

Completare il Risorgimento

Molto svela dell’indole originaria del Giro il progetto provvisorio reso noto dalla «Gazzetta» il 24 agosto 1908. Su una cartina d’Italia disegnata in tutta fretta (va ricordato che in quella stessa estate anche il terzetto concorrente Touring Club-Corriere della Sera-Bianchi stava pianificando, sul modello del Tour, un giro ciclistico d’Italia)28, senza la Sardegna e con i nomi delle città di tappa scritte a mano, si può notare, oltre a un significativo sconfinamento nel Trentino, un arrivo a Nizza e a Trieste. Un esordio dalle sfrontate ambizioni irredentiste, poi accantonato per evitare spiacevoli «noie per intromissioni politiche»29. E che, almeno per quanto concerne la città di Oberdan, si è riusciti appena a sfiorare nel 1910, nella Udine-Bologna, con il passaggio attraverso Palmanova, «il confine orientale politico d’Italia»30.

Fig. 1 .«Gazzetta dello Sport», 24 agosto 1908.


Sono tre i fronti, ognuno dei quali investito di una propria specifica funzione, verso cui la corsa muoverà al fine di irrobustire «questa benedetta unità ancora così fragile»31: le regioni meridionali e Roma, rispettivamente rivelazione e cardine del Giro del Cinquantenario, Trento e Trieste.

Il Meridione e Roma

Il Giro d’Italia del 1911, disegnato su dodici tappe, nasce dalla cooperazione tra il direttore della Gazzetta, Eugenio Camillo Costamagna, e il conte Enrico San Martino Valperga, presidente del comitato per le feste commemorative del Risorgimento32. La competizione ciclistica, che si inserisce a buon diritto tra gli eventi celebrativi del giubileo nazionale, viene così presentata ai lettori:

un Giro d’una importanza sportiva maggiore, d’una più elevata dignità morale, d’un significato nazionale più intenso […] il 1911 è per l’Italia l’anno [...], nel quale i fasti della Patria fatta una e libera vengono celebrati dal popolo in una meritata apoteosi […], inizio e fine non a Milano […] bensì a Roma. […] è all’altare sacro della Patria che noi offriamo […] l’omaggio dell’evento sportivo più solenne dell’annata33.

L’atmosfera risorgimentale è qui resa dalla scelta di includere nel percorso le tre capitali del Regno d’Italia, Torino, Firenze, Roma, così da simboleggiare la marcia «del popolo italiano alla rivendicazione di sé stesso, alla riconquista della libertà e della Patria». E dal tentare una più decisa penetrazione verso le regioni meridionali, fino ad allora, esclusa Napoli, città d’arrivo nel 1909 e nel 1910, toccate solo marginalmente dalla competizione. Le due tappe Sulmona-Bari e Bari-Pompei, stando alle parole d’auspicio degli organizzatori, assoceranno terre ancora inesplorate «al nostro rito di celebrazione di fasti patriottici» e, aspetto non secondario, contribuiranno «all’apostolato […] per distruggere il vecchio pregiudizio antitaliano»34 che contrappone un Nord industrializzato e moderno a un Sud, viceversa, raccontato come indolente e arcaico.

«Nord, centro, sud? No, l’Italia è una; e non vi sono più distinzioni e separazioni tra regione e regione»35. Anche il Giro d’Italia, nel suo piccolo, pone la sua questione meridionale. Ancora nell’edizione del 2019, tra le non poche polemiche di chi ha esplicitamente parlato di un Sud dimenticato, la tappa più meridionale è stata la Cassino – San Giovanni Rotondo. La conoscenza con il Mezzogiorno è difatti un’operazione protrattasi lentamente e in maniera assai discontinua su cui hanno inciso diversi fattori: le condizioni, spesso più che scadenti, delle strade meridionali che hanno reso talvolta solo difficoltoso, talvolta persino impraticabile, il transito della carovana; le disponibilità economiche su cui gli organizzatori e le industrie hanno la possibilità di “costruire” il Giro; la “scoperta” delle Dolomiti sul finire degli anni Trenta che, per ragioni di spettacolo agonistico e promozione turistica, sposta il baricentro della competizione ancora più a Nord; la scelta, ripetuta, e assai limitante almeno nei primi anni, di fissare a Milano, la città della «Gazzetta», la partenza e l’arrivo della corsa rosa.

Se prendiamo per vero il principio secondo cui l’unità di una nazione non possa prescindere da una rete viaria che consenta di raggiungere anche i suoi angoli più remoti, non stupisce che inviati e organizzatori del Giro ricerchino le responsabilità della fragile unificazione italiana nello stato di prolungata incuria in cui versano le strade meridionali. Lasciano davvero poco spazio alle interpretazioni le espressioni scelte dai cronisti in quelle prime esplorazioni: «poche strade esistenti»36, «strade infami»37, strade «dalla bellezza orrida»38. Sono tuttavia scomodità necessarie per chi si è prefissato l’obiettivo di rivelare il Mezzogiorno reale, le sue genti, al resto degli italiani. Emancipandoli, in particolare un certo immaginario settentrionale, dai condizionamenti dell’antropologia positivista che ha descritto il Meridione come irrimediabilmente «Altro interno dell’Italia unita»39, somma di tutti i difetti italici, «capro espiatorio di tutti i guasti del paese»40. È probabilmente a questo che si allude nella «Gazzetta» del 7 giugno 1911, quando leggiamo, tra le finalità di quel Giro, quello di eliminare «le divisioni regionali [e] dileguare tanti sciagurati malintesi costituenti la piaga più dolorosa della nostra nazione»41. Uno sforzo che sarà premiato dall’accoglienza meridionale «così commovent[e], da farci chiedere, stupiti, – scrive Costamagna – perché noi ignoriamo ancora così il cuore e le terre di questi nostri cari fratelli»42.

Grazie al vasto programma di ammodernamento avviato sul finire degli anni Venti con l’istituzione, nel ’28, dell’Azienda autonoma statale della strada, il Giro diventa uno dei mezzi privilegiati mediante il quale il Fascismo rende noti i miglioramenti apportati alla rete stradale italiana. La corsa completerà così la sua personale “conquista” del Mezzogiorno arrivando in Calabria, nel 1929, e partendo dalla Sicilia, l’anno seguente43. Anche nel ’49 l’isola maggiore darà il via al Giro, con il dichiarato proposito di legare il “Continente” alla «perla del Mediterraneo»44 in modo da ridestare, in una regione dalle forti spinte indipendentiste, un sentimento di fraternità nazionale.

Come accennato, il cuore del Giro del Cinquantenario, a quarant’anni dalla legge che l’ha resa Capitale del Regno, è ovviamente Roma, «eterna e maestra […] delle mille glorie dell’Italia nostra»45, il solo antidoto a quel municipalismo che per secoli ne ha impedito l’unificazione46. Da qui, poco lontano da Porta Pia, si parte il 15 maggio, nell’anniversario della battaglia di Calatafimi, per ritornarvi il 6 giugno, due giorni dopo l’inaugurazione dell’imponente monumento a Vittorio Emanuele II. Una Roma caput mundi che, essendo città d’avvio e meta finale della competizione, «formerà la catena di virilità e di amore che allaccia i popoli della nostra penisola alla grande genitrice della civiltà del mondo»47. Un abbraccio che è possibile interpretare come il compimento di un più travagliato percorso storico/simbolico che ha nell’Urbe il proprio epicentro. Si parte sì da Roma, ma dalla Roma dei Cesari, in cui affondano saldamente le radici dell’identità nazionale, della sua vocazione alla grandezza – la grandezza di Roma è ora, almeno così si vorrebbe, «qualche cosa d’identico alla grandezza di tutta l’Italia»48 – e della sua missione civilizzatrice – il 1911 è l’anno della guerra libica e della conquista di Tripoli –, per giungere, all’ombra del Vittoriano, nella Terza Roma, liberale, finalmente Capitale dell’Italia unita. Traguardo verso cui «andarono per tant’anni i desideri nostalgici di coloro che ardentemente vollero e gloriosamente fecero l’Italia»49. E verso cui tendono ora, giocando sul parallelismo patrioti-ciclisti, gli sforzi degli atleti in gara. Roma, da allora in avanti, e ancor più con le aspirazioni d’impero del Ventennio, sarà meta irrinunciabile proprio in virtù di quel perenne richiamo alla responsabilità di grandezza che essa suggerisce e del suo essere guida e custode dell’unità nazionale. Per citare Quintino Sella: «chi ci insegnò a volere una patria? Roma, nient’altro che Roma»50. Archiviate le ambizioni imperiali, è alla città simbolo e sintesi del processo di costruzione nazionale a cui guarda e verso cui muove la corsa. Almeno fino agli anni Cinquanta, in un’Italia dai forti contrasti politici ed economico-sociali, dei venti separatisti che soffiano dai due poli opposti della Penisola (Sicilia e Sud Tirolo), la presenza del Giro nella Città Eterna servirà a ristabilire, in questo quadro frammentato, un comune centro identitario. Aspetto accentuato dalla decisione di allegare alla battaglia sportiva una «semplice e caratteristica cerimonia di omaggio all’Altare della Patria»51 e al sacello del Milite ignoto, l’emblema del Risorgimento compiuto, della Nazione una, forte e vittoriosa e del «coraggio e della tenacia degli italiani nel ‘farsi italiani’»52.

Trento e Trieste

Lo sforzo diretto all’affratellamento tra il Nord e il Sud della Penisola sarà in parte sacrificato all’annessione all’Italia di Trento e Trieste dopo il primo conflitto mondiale. Il Giro, che nel dicembre del ’17 perde al fronte il vincitore della sua quinta edizione, il bersagliere ciclista Carlo Oriani53, limiterà infatti, negli anni immediatamente successivi, le incursioni nelle regioni meridionali muovendosi viceversa alla scoperta dei nuovi confini nazionali.

Sulla prima pagina del 4 novembre 1918, accanto alla trascrizione del Bollettino della Vittoria di Armando Diaz, la «Gazzetta» comunica, sommando entusiasmo a entusiasmo, che il Giro del 1919, oltre a riprendere la routine interrotta a causa del conflitto, farà tappa a Trento e a Trieste, «le due sorelle ritornate alla Gran Madre»54. Così si legge nell’annuncio di quella storica giornata:

il nostro cuore par che più non regga alla misura di esultanza che segue ai duri travagli ed alle sofferenze di tre anni di guerra e che s’intitola coi nomi auspicati delle due città alfine entrate a far parte del tesoro d’Italia: Trento e Trieste! Sì che noi sentiamo di dover tradurre subito nella forma e nell’opera che la trepida letizia dell’ora consiglia questa piena di sentimenti ineffabili. Compiremo questo dovere allacciando le due gemme redente alle consorelle di tutta la Patria una e completa in una di quelle manifestazioni di civiltà, di progresso e di educazione che fanno parte invidiata del nostro patrimonio di organizzazioni e di fattiva propaganda: il Giro d’Italia.

L’arrivo a Trento e a Trieste è per gli organizzatori della Corsa un anelito che li accompagna fin dall’esordio. Ora frutto reale di un azzardo andato a buon fine a cui, come scritto in precedenza, la stessa «Gazzetta», insieme al suo bisettimanale «Lo Sport Illustrato»55, ha dato man forte schierandosi apertamente a favore dell’ingresso dell’Italia nella Grande guerra.

L’edizione del 1919 non può che rispecchiare a pieno la soddisfazione derivante dal conseguimento «di questa sacra fusione»56, in sede di accordi di pace, ancora da ufficializzare. Lo stesso percorso viene presentato come «un saluto ininterrotto per 3100 chilometri, un bacio sportivo a dodici regioni sorelle […], un abbraccio in dieci tempi, 10 tappe della fratellanza nazionale nello sport». Un itinerario costruito con la ferma volontà di celebrare i luoghi simbolo della Vittoria e, attraverso di essi, la «bella Italia nuova ed antica indissolubile» e il riscatto di una Nazione che ora rivendica «il suo posto al sole»57. Con la Milano-Trento e la Trento-Trieste, la corsa raggiungerà la «capitale ancora commossa […]. Da Trento a traverso […] le Alpi sacre e riconsacrate, a Belluno indomita, a Vittorio vittorioso, a Udine riaffrancata, a Gorizia giardino del Friuli Orientale, al tragico Carso vinto e doppiamente nostro, a Trieste finalmente immaculata». Tappe entrambe vinte, per la gioia di organizzatori e tifosi che paventavano la nota stonata di un’affermazione straniera in terre redente, dal campione d’Italia, Costante Girardengo58.

Da quel 1919 in avanti compito dei corrispondenti del Giro sarà proprio quello di dare risalto alla sincerità e alla persistenza dei sentimenti patriottici delle due città assonanti. Sembra valere qui, più che altrove, la logica per cui la calorosa accoglienza riservata al Giro sia in realtà da rivolgere alla Nazione Italia di cui la Corsa non è altro che «l’avanguardia e il simbolo»59. Quest’identificazione con l’Italia, associata a questa sua innata capacità di fare da cassa di risonanza agli umori popolari, ritornerà particolarmente utile nel secondo dopoguerra con l’affacciarsi della questione triestina.

Dirigersi verso la città adriatica, a fronte della singolarità della situazione là costituitasi dopo la fine del conflitto mondiale, serve innanzitutto a ribadire, in particolare a chi, da lì a breve, ne deciderà le sorti ai tavoli di pace, l’indiscutibile appartenenza della città all’Italia. Detto altrimenti: «il Giro italiano andrà a Trieste italiana. Sempre, e per sempre»60. Anche prendendosi qualche rischio come nella Rovigo-Trieste del 1946, sospesa all’altezza di Pieris, a quaranta chilometri dal traguardo, a seguito di un’aggressione ordita da un gruppo di «uomini di Tito, fra cui purtroppo alcuni italiani»61, sostenitori dell’annessione della zona A alla Jugoslavia. Mentre il grosso del gruppo decide di riparare a Udine, solo uno sparuto gruppetto di diciassette corridori, tra i quali il triestino Giordano Cottur, porta a termine la tappa. Ad aspettarli, come si attende «una armata liberatrice»62, le campane festanti di San Giusto. Ovunque

era uno sfarfallio di bandiere e di drappi tricolori esposti alle finestre […]. La folla si slanciava con le braccia protese e con le mani aperte verso l’esigua carovana in cammino, urlava il suo amore infinito e incontenibile e di questo amore piangeva nell’empito di una commozione senza freno. […] La strada vastissima è un nereggiare di folla che la percorre gridando: I- ta-lia, I-ta-lia, I-ta-lia.

Un’accoglienza appassionatamente italiana che, oltre a replicarsi nel passaggio della Vicenza-Udine del ’49 e nella Venezia-Trieste del ’51, non verrà meno neppure dopo l’assegnazione della città all’Italia, nel Giro del ’55 (Lido di Jesolo-Trieste)63. Un «sabba di italianità»64 da leggersi chiaramente in prospettiva nazionale. Trieste è infatti la città che più di altre, in quel confuso dopoguerra, dove perfino l’unità della Nazione è apparsa più fragile del consueto, è andata identificandosi con l’Italia dando corporeità a ciò che lo storico Isnenghi ha definito «la leggenda di Trieste città simbolo dell’Italia che, liberando Trieste, reintegra e compie se stessa»65. Insomma non può dirsi vera Italia senza la città di san Giusto che sembra qui rivestita del ruolo che era stato di Roma prima di Porta Pia. Entrambe mete a lungo desiderate, ognuna, a proprio modo, città-tutrice dell’unità nazionale.

Risorgere dalle macerie

A rivelare l’assoluta unicità del Giro del ’46, la prima manifestazione sportiva nazionale del dopoguerra, sono innanzitutto i suggestivi appellativi con cui viene presentato agli italiani. Dal più prevedibile, quello con cui passerà alla storia, “Giro della Rinascita”, passando per “atto di fede” e “atto di coraggio”, fino a “corsa del popolo”. Si tratta di vivi incoraggiamenti volti a dimostrare che così come il Giro è riuscito a superare svariati problemi logistici costruendo una corsa in piena regola, diciassette tappe e poco più di tremila chilometri, così anche gli italiani hanno il dovere di fare altrettanto superando le ostilità reciproche maturate nei mesi di guerra per concorrere unanimi alla rinascita della Nazione. La stessa «Gazzetta», in sintonia con quanto sollecitato, rispondendo affermativamente a una richiesta «in parte estranea alla [sua] volontà»66, verosimilmente d’origine politica, decide di rimandare la partenza (sarà il 15 giugno) a dopo le elezioni all’Assemblea costituente e il referendum istituzionale. È un’Italia che, anche attraverso il suo Giro, affidandosi alla sua popolarità, cerca di consolidare quella «pacificazione degli animi»67, altrove perseguita con mezzi meno emozionanti di una corsa in bicicletta. E che, rimanendo in ambito giornalistico, ancor prima dell’amnistia del 22 giugno, si è tradotta nella decisione della Commissione unica per la tenuta degli albi professionali dei giornalisti di archiviare il periodo delle epurazioni dando il via libera al reintegro in redazione di quelle firme compromesse con il Ventennio, di nuovo in «auge dopo una forzata quarantena»68.

Come già anticipato, non è questo un Giro a cui si richiede semplicemente di irrobustire questo clima di riconciliazione nazionale. «Andiamo allora a vedere come l’Italia ce l’hanno conciata»69, così Bruno Roghi, dimissionario per ragioni politiche dopo l’8 settembre, tornato alla guida della «Gazzetta», introduce le vere protagoniste di quel Giro, presenza immancabile di ogni tappa. Per una manifestazione che attinge colore anche da ciò che accade a bordo strada, la descrizione delle molte macerie che ancora segnano il paesaggio italiano, testimonianza di una caduta di cui, almeno qui, si omettono i responsabili, offre alle penne dei corrispondenti la possibilità di corroborare quel complesso puzzle narrativo con cui l’Italia spera di ottenere clemenza a Parigi.

Non è la prima volta che le devastazioni arrecate dalla guerra trovano spazio nelle cronache sportive. Fin dall’indomani del 1918, e per diversi anni a seguire, orientando i manubri verso Trento e Trieste, il Giro trovò lungo il suo cammino «le rovine dell’Italia nuova e della ritornata»70. Si trattava tuttavia di osservazioni che si estendevano a una limitata porzione d’Italia. L’animo che le considerava era quello di chi riconosceva in quegli ammassi informi la Vittoria che aveva permesso all’Italia di sedersi tra le grandi potenze e di rifinire i confini nazionali. Le macerie della Seconda guerra mondiale, viceversa, rivestite della funzione di cui si è detto, sono ora il riflesso del «dolore comune»71 di un’intera Nazione che, dopo mesi di frattura tra la Repubblica Sociale a Nord e il Regno del Sud, ritrova la forma della propria unità in questa «sinistra teoria di scheletri»72.

Fig. 2. «Gazzetta dello Sport», 12 aprile 1946


Ogni “stazione” attraversata da questa laica via Crucis – la descrizione insistita delle macerie, la croce cui è ora inchiodata l’Italia, rimanda altresì all’associazione con Cristo e ne preannuncia l’imminente resurrezione – ha le sue ferite da mostrare. Ma è il superamento della Linea Gotica, in particolare, che verrà vissuto in uno stato di «strana trepidazione, […] come se il Giro d’Italia varcasse il confine e s’avventurasse per paesi ignoti e imprevedibili vicende»73.

Nel corso della Prato-Bologna del 19 giugno le parole e gli sguardi dei cronisti sono assorbiti da quel che resta di Vergato. Del paese emiliano, sito proprio lungo la citata linea del fronte, al centro degli opposti schieramenti, scrive Giovanni Mosca, «non c’è più nulla. O quasi»74. Nella Cesena-Ancona del giorno seguente, seconda frazione di giornata con la Bologna-Cesena, viene incontro ai corridori un’Ancona dai «muri polverulenti e pustolosi di tante, di troppe case diroccate dalle furie selvagge della guerra»75. I chilometri che separano Bologna dal capoluogo marchigiano offrono un unico, mesto panorama: «dalla Porretta a Bologna, da Bologna a Castelbolognese, a Faenza, a Rimini, a Cattolica, a Senigallia, a Fano, a Pesaro, è un crescendo di ruderi e di macerie»76. Persino la polvere, «la vecchia cara» polvere che imbiancava gli atleti nei tempi di pace, in questo Giro della Rinascita, sembra aver smarrito il suo carattere bonario. Quella che avvolge ora la corsa si leva dalle «povere città distrutte, dai poveri villaggi distrutti: polvere di tanti focolari morti della nostra povera Italia». Si riabbracciano città rese irriconoscibili dai bombardamenti: «ho tagliato la corda, – scrive Orio Vergani – e sono andato […] a vedere Ancona distrutta, quella metà di Ancona di cui si dimenticano e che qualche anno fa, invece, c’era anche lei […] ad aspettarmi e a salutarmi. Adesso è là, morta, spenta, senza più anima viva; la più spettrale maceria d’Italia»77. Si lascia la città per muovere verso Chieti: «strada liscia, asfaltata con poche curve, molti rettilinei e i soliti ponti di fortuna in legno»78. Da lì si procede verso Napoli, «la città delle quattro giornate eroiche»79. È il turno della Napoli-Roma: «mescoliamo gli ingredienti della tappa di oggi: Vesuvio, scugnizzi, macerie di Capua, ponti distrutti sul Liri e sul Garigliano, […] cimiteri di guerra sparsi per le messi […] chiese trapassate dalle cannonate, vigneti arati dalle bombe […] il ponte di Ariccia spezzato a metà […] una rapida frittura di pesce mangiata fra le rovine di Formia»80. Desolante lo spettacolo di Cascano, quasi completamente distrutta81. Ecco Carigliano dove si è combattuto ferocemente «per la conquista della strada di Roma». Dalla Capitale si risale verso Nord senza che il paesaggio accenni a mutare. Si arriva a Firenze il 27 giugno evitando di transitare per «le rovine che si ammassano intorno a Pontevecchio»82. Si oltrepassano le «spaventose distruzioni di Pontelagoscuro»83, nel ferrarese. Si percorre Bassano sul cui ponte non «ci daremo la mano»84 essendo andato distrutto anche «il vecchio ponte della canzone alpina». Si scorgono sul Passo Rolle gli scheletri di «due case incendiate per vendetta di un paese vicino»85. Si ritorna a Milano, il 7 luglio, dove la carovana è attesa dalla «sagoma di una delle poche cose che la guerra ha rispettato: la sagoma della guglia della Madonnina»86. Si chiude un Giro che è costato «molti sospiri», venti giorni trascorsi tra «paesi logorati fino alle ossa»87, ma che, nonostante le difficoltà, ha saputo, unitamente ad altri propositi, stringere a sé gli italiani recuperando quei traguardi fondamentali che appartengono tanto alla sua storia quanto soprattutto a quella del Risorgimento nazionale:

[Il Giro] doveva andare a Napoli per testimoniare l’affratellamento degli italiani del nord e degli italiani del sud. È andato a Napoli. Doveva andare a Roma perché gli italiani si riconoscessero nella Madre comune e l’interpretassero come il simbolo dell’unità nazionale. È andato a Roma […]. Doveva andare a Trieste, […], per recare alla “sorella in pericolo” la prova della solidarietà disperata di tutti i fratelli italiani. È andato a Trieste. Doveva andare a Trento per ricollegare idealmente la sorella marinara al fratello montano ripercorrendo [...] le strade dell’altra guerra, la guerra della libertà e dell’onore. È andato a Trento88.

Il canto del cigno

Come nel 1911, ed è forse l’unica similitudine tra i due giubilei, anche il Giro del 1961 si avvale della collaborazione del comitato istituito per coordinare le celebrazioni del Centenario, il comitato “Italia ’61”, e del Governo nazionale. Il percorso della competizione, che mai come allora riesce a legare così saldamente sé stessa all’Italia, toccando ben diciassette regioni su venti, si dice imposto dal «nostro Risorgimento»89 ed è presentato come un «ampio abbraccio a tutto il continente e alle isole»90 e, in sintonia con obiettivi di solidarietà europea, «rapido saluto [...] ai quattro Paesi oltre le nostre frontiere». Sono coinvolti in questa stretta fraterna molti dei luoghi simbolo «dei 40 anni di lotta che hanno condotto dai moti napoletani, le congiure, le rivoluzioni, le guerre d’indipendenza, la spedizione dei Mille, alla unità nazionale»91. Mentre a Trieste, Gorizia, Trento e Vittorio Veneto, spetta «il compito di riaprire le gloriose pagine della grande guerra vittoriosa»92.

Fig. 3. http (ultimo accesso 04/02/2022)


Ovunque, lungo tutto quel Giro, si respirerà «aria di Risorgimento»93. La stessa guida cartacea, per una felice intuizione del giornalista Nando Martellini, viene ribattezzata Il Garibaldi, quasi a lasciare intendere che anche la Corsa, «come l’eroe risorgimentale, arriva prima o poi un po’ ovunque nel paese e contribuisce in questo modo alla sua identificazione unitaria da parte della coscienza collettiva»94. Curiosa nota a margine, a conferma del rapporto simbiotico con la Nazione, proprio quell’anno anche la Corsa porta a compimento la sua personale unificazione toccando l’unica terra che ancora le mancava, la Sardegna.

Poiché è un Giro che si corre «nel simbolo del tricolore»95, prova ulteriore ne è la maglia rosa che esibisce i bordi fasciati coi colori della bandiera italiana, ogni tappa ha la pretesa di essere la più patriottica dell’edizione.

Si parte il 20 maggio da Torino con i 115 chilometri da percorrere all’interno del cosiddetto “circuito tricolore”. Un triplice percorso, uno bianco, uno rosso e uno verde, che, oltre a celebrare cromaticamente il Centenario, fa rivestire a Torino i suoi vecchi abiti di capitale d’Italia, ora «città simbolo della nuova Italia del ‘miracolo’» economico96, qui ben rappresentata dalle quarantamila tute blu accorse a vedere partire i corridori97.

Tornante dopo tornante, il Giro ricuce pazientemente «con il filo del suo percorso l’unità d’Italia»98. Da Quarto dei Mille, salpa puntando alle due isole maggiori. L’ispirazione risorgimentale della Marsala-Palermo emerge con forza dal tragitto che ricalca quasi perfettamente quello percorso dalle camicie rosse nel maggio del 1860: «abbiamo visto Marsala – annota Giovanni Mosca – come si presentò agli occhi dei Mille. Una striscia bianca fra mare e terra, poi si distinsero le case, i forti, la cupola metallica della cattedrale su cui Garibaldi salì per esplorare l’entroterra»99. Ecco Salemi, dove si scorge il castello normanno su cui il condottiero fece issare la prima bandiera italiana. Vita su cui i Mille ritornarono dopo aver messo in fuga i Borbonici. Calatafimi che «inaugurò i successi della spedizione». Dal Passo di Renda si scorge «la meravigliosa conca di Palermo. Qui Garibaldi sostò incantato».

Questa monocromia tricolore prosegue salendo verso Nord. La Modena-Vicenza viene presentata come «la tappa più densa di richiami patriottici, la tappa in cui a ogni passo si ridestava un glorioso ricorso del Risorgimento da Curtatone a Montanara, a Goito, a Solferino, a San Martino, a Peschiera, a Montebello: per ogni battaglia un traguardo»100. Si toccano naturalmente Trieste, la «città italianissima»101, e Vittorio Veneto, dove il 3 novembre del ’18 «le avanguardie italiane trovarono il primo riposo»102, per subire un’improvvisa – ma veramente quanto imprevista? – battuta d’arresto in prossimità di Bolzano. Non sono tanto i cartelli in lingua tedesca quanto soprattutto l’assenza delle bandiere tricolore e dell’abituale accoglienza a raccontare di una terra che, a quarantuno anni dall’annessione, fatica ancora a dirsi italiana. Tant’è che a un costernato Giovanni Mosca viene spontaneo domandarsi: «ma dove siamo?». Le urla festanti e gli incitamenti ai campioni lasciano il posto a «visi scuri, arcigni, gruppetti muti». Tacciono anche i bambini delle scuole, «i soli, in tutta Italia» a non agitare le bandierine che l’organizzazione distribuisce qualche ora prima del passaggio della corsa. Una freddezza che si spiegherà due giorni più tardi con la Notte dei fuochi dell’11-12 giugno, quando Bolzano e la zona circostante saranno scosse da più di quaranta attentati dinamitardi approntati dal Bas (Befreiungsausschuss Südtirol), la nota organizzazione terroristica per l’indipendenza del Sud Tirolo. Nel 1964, a causa delle tensioni persistenti tra Roma e Vienna in merito alla definizione dell’autonomia della regione sudtirolese103, il Giro, così come nel ’49, fungerà da mediatore dando il via alla sua quarantasettesima edizione proprio da Bolzano, approntando una partenza all’insegna della «perfetta neutralità»104, con «discorsi augurali in italiano e tedesco».

Con la città senza bandiere alle spalle, recuperando la strada del ’61, il tradizionale entusiasmo che accompagna la Corsa può ridestarsi a Trento, dove la carovana taglia il traguardo in prossimità del castello del Buonconsiglio restituendo così alla memoria e al Giro il ricordo del martire irredentista, Cesare Battisti. Questo «solenne rito patriottico»105 si concluderà, tra non poche difficoltà per i colori nazionali, con l’affermazione del romagnolo Arnaldo Pambianco, soprannominato, neanche a farlo apposta, Il Garibaldino106.

Considerazioni conclusive

Difficile stabilire quanto questa propaganda a pedali, piccolo ingranaggio di un meccanismo più complesso e mutevole d’educazione nazionale, abbia inciso concretamente nella coscienza collettiva. Il giubileo del ’61 segna anche per il Giro il passaggio ad un nuovo capitolo della sua storia, contrassegnato da una certa difficoltà d’adattamento a un’età dalle profondissime trasformazioni e di fronte alle quali, come fanno notare Colombo e La Notte, «il ciclismo non si dimostra capace, o volenteroso, d’importare i nuovi modelli culturali e comportamentali»107 della gioventù “agitata” degli anni Sessanta-Settanta. A questa fase di riflusso del ciclismo in generale, considerato tutto-sommato uno sport datato e poco appetibile, si accompagna per il Giro l’affievolirsi della funzione qui presentata, non più in armonia con il nuovo assetto dei tempi che intente rileggere l’amor patrio in chiave universalistica e principalmente europea108. Recuperandola, almeno nei percorsi, in corrispondenza delle ricorrenze nazionali più significative: nel 1966, nel Centenario della terza guerra d’indipendenza, con la Brescia-Bezzecca; nel 1968, nel Cinquantenario della Vittoria, con la Trento-Monte Grappa, la Bassano del Grappa-Trieste e la Gorizia-Vittorio Veneto, anniversario celebrato anche nel 2014 con l’arrivo finale a Trieste, con la Sarnonico-Vittorio Veneto e la Bassano del Grappa-Cima Grappa e nel 2018 con la Ferrara-Nervesa della Battaglia, la San Vito al Tagliamento-Monte Zoncolan e la Trento-Rovereto; l’edizione del 2007, nel Bicentenario della nascita di Garibaldi, prende il via con la Caprera-La Maddalena; nell’anno del Centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia, nel 2011, con alcune località iconiche della storia patria quali Torino, Reggio Emilia, Quarto dei Mille, Sapri e Castelfidardo.

Il Giro stesso tenderà col tempo a “europeizzarsi” sacrificando parte del territorio nazionale. Sempre più frequentemente, anche per ragioni economiche e promozionali, il via della corsa avrà come sfondo il profilo di una città straniera: parte da San Marino nel 1965; dal Principato di Monaco nel 1966; dal Belgio nel 1973 (Verviers) e 2006 (Seraing); da Città del Vaticano nel 1974; dalla Grecia (Atene) nel 1996; dalla Francia (Nizza) nel 1998; dall’Olanda nel 2002 (Groninga), 2010 (Amsterdam) e 2016 (Apeldoorn); dalla Danimarca (Herning) nel 2012; dall’Irlanda del Nord (Belfast) nel 2014 e da Israele (Gerusalemme) nel 2018. Nel 2020, prima che la pandemia da Covid19 costringesse gli organizzatori a rivederne tempi e tragitto, la partenza era prevista dall’Ungheria (Budapest), concretizzatasi poi nell’edizione del 2022109.


1 G. Giardini, Tabù, anche questo?, in «Gazzetta dello Sport», 20 maggio 1950.

2 G. Ambrosini, Il Giro del Centenario. Realizzazione di un’idea, ivi, 5 aprile 1961.

3 B. Raschi, Al servizio dello sport, ivi, 19 maggio 1961.

4 M. Isnenghi, Una «ragione eroica di vivere». D’Annunzio Poeta-Vate e combattente, in Gli italiani in guerra. Conflitti, identità, memorie dal Risorgimento ai nostri giorni, v. 3, t. 1, Gli italiani in guerra. La Grande Guerra: dall’intervento alla «vittoria mutilata», a cura di M. Isnenghi, D. Ceschin, Torino, Utet, 2008, p. 354.

5 D. Gallo, D. Messina, Il ruolo dello sport e della stampa sportiva nell’evoluzione dell’editoria italiana. Milano, s.d., 1995, p. 22. Sul giornalismo sportivo e le sue origini cfr. anche: P. Facchinetti, La stampa sportiva in Italia, Bologna, Alfa, 1966; A. Ghirelli, La stampa sportiva, in La stampa italiana del neocapitalismo, a cura di V. Castronovo, N. Tranfaglia, Roma-Bari, Laterza, 1976, pp. 315-376.

6 D. Marchesini, L’Italia del Giro d’Italia, Bologna, il Mulino, 2003, p. 86.

7 I. Cappa, Verso l’apoteosi, in «Gazzetta dello Sport», 30 maggio 1909.

8 Id., Il saluto, ivi, 15 maggio 1911.

9 E. Gentile, La Grande Italia. Il mito della nazione nel XX secolo, Roma-Bari, Laterza. 2006, p. 77

10 La nostra riconoscenza ai volontari dell’organizzazione, in «Gazzetta dello Sport», 9 giugno 1911.

11 A. Geraldini, Addio “girini”!, in «Il Giornale d’Italia», ١١ giugno 1935

12 L. Riall, Eroi maschili, virilità e forme della guerra, in Storia d’Italia, v. 22, Il Risorgimento, a cura di A. M. Banti, P. Ginsborg, Torino, Einaudi, 2007, p. 261

13 Cappa, Verso l’apoteosi cit.

14 Id., Il saluto, cit.

15 S. Patriarca, Italianità. La costruzione del carattere nazionale, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 117.

16 N. Salvaneschi, L’ora di ricordare, in «Gazzetta dello Sport», 21 maggio 1915.

17 M. Baioni, Risorgimento in camicia nera. Studi, istituzioni, musei nell’Italia fascista, Torino-Roma, Carocci, 2006, p. 25.

18 G. Mosse, L’immagine dell’uomo. Lo stereotipo maschile nell’epoca moderna, Torino, Einaudi, 1997, p. 209.

19 Marchesini, Op. cit., p. 114.

20 G. Mosca, Sul monte dei ricordi, in «Corriere della Sera», 18 giugno 1946.

21 B. Roghi, Il Giro della rinascita ha il suo segreto: si chiama fiducia, in «Gazzetta dello Sport», 13 giugno 1946.

22 F. Focardi, La guerra della memoria. La Resistenza nel dibattito pubblico italiano dal 1945 a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2005, p. 11.

23 Roghi, Il Giro della rinascita, cit.

24 Gentile, Op. cit., p. 389.

25 G. Mosca, Fine del ‘cuore’, in «Corriere della Sera», 21 maggio 1961.

26 Baioni, Op. cit., p. 9; Focardi, Op cit., p. 41.

27 Ivi, p. 46.

28 Un secolo di passioni: Giro d’Italia 1909-2009: il libro ufficiale del centenario, a cura di P. Bergonzi, E. Trifari, Milano, Rizzoli, 2009, pp. 31-35; M. Franzinelli, Il Giro d’Italia. Dai pionieri agli anni d’oro, Milano, Feltrinelli, 2015, p. 59.

29 La storia, l’organizzazione e i premi del Giro d’Italia, in «Corriere della Sera», 6 maggio 1909. A Nizza, dove, a seguito del plebiscito dell’aprile del 1860, avrà inizio una dura repressione volta ad estirpare l’identità italiana della città il Giro transiterà solo nel 1955 nel corso della Cannes-Sanremo. Cfr. G. Vignoli, L’irredentismo italiano di Nizza e del Nizzardo: il caso Marcello Firpo (1860-1946), Roma, Settimo Sigillo, 2015.

30 Sull’organizzazione. L’aggiunta di due tappe, in «Gazzetta dello Sport», 31 gennaio 1910.

31 G. Mosca, Il convitato di pietra, in «Corriere della Sera», 28 maggio 1961.

32 Il terzo giro d’Italia, in «Gazzetta dello Sport», 6 giugno 1910.

33 Il Giro d’Italia, ivi, 7 gennaio 1911.

34 Giro d’Italia - La tappa di Bari, in «Gazzetta dello Sport», 27 marzo 1911.

35 F. P. , Arte, poesia e passione per il Giro d’Italia, inserto speciale de «Gazzetta dello Sport», maggio 1935.

36 Sulle vie abbandonate e demolite dell’estremo lembo d’Italia, in «Gazzetta dello Sport», 9 luglio 1919.

37 E. Colombo, Seguendo la corsa. Le prime salite, ivi, 5 giugno 1911.

38 Id., Seguendo la Campobasso-Ascoli 313 km, ivi, 19 maggio 1913.

39 Patriarca, Op. cit., p. XVI.

40 Ivi, p. XVII. Nello stesso solco, nel 1897-98, si è mosso anche il fondatore del Touring Club, Luigi Vittorio Bertarelli, protagonista di un viaggio in bicicletta attraverso la Calabria, la Basilicata e la Sicilia. Su questo cfr. Luigi Vittorio Bertarelli. Insoliti viaggi. L’appassionante diario di un precursore, a cura di L. Clerici, Milano, Touring Club Italiano, 2004.

41 Quel che i nostri colleghi non hanno veduto, in «Gazzetta dello Sport», 7 giugno 1911.

42 E.C. Costamagna, Fratelli d’Italia, in «Gazzetta dello Sport», 3 giugno 1911.

43 Al Giro spetterà decantare, ad esempio, la strada statale 4 bis, protagonista delle cronoscalate al Terminillo dal ’36 al ’39; su questo cfr. G. Pellizzari, Storia e geografia del Giro d’Italia, Torino, Utet, 2017, p. 57; «le rinnovate strade, rese [...] adatte alla moderna locomozione meccanica» dei territori bonificati dell’Agro pontino, cit. da R. Tassinari, Occhiate turistiche sul Giro d’Italia. L’eterna bellezza di Roma, in «Gazzetta dello Sport», 17 maggio 1937; il dannunziano Meandro del Benaco, nota come Gardesana occidentale, testato nei due arrivi a Gardone Riviera nel ’36 e ’37; l’autostrada Padova-Venezia inaugurata dalla cronometro del ’36.

44 N. Salvalaggio, Mia vecchia corsa del popolo…, in «Il Resto del Carlino», 21 maggio 1949. Sui richiami patriottici della partenza del ’49 cfr. anche: D. Buzzati, Dino Buzzati al Giro d’Italia, Milano, Mondadori, 1981, p. 18.

45 Il terzo giro d’Italia, cit.

46 G. Monsagrati, La repubblica romana del 1849, in Gli italiani in guerra. Conflitti, identità, memorie dal Risorgimento ai nostri giorni, v. 1, Fare l’Italia: unità e disunità nel Risorgimento, a cura di M. Isnenghi, E. Cecchinato, Torino, Utet, 2008, pp. 540-548.

47 E.C. Costamagna, Il Giro d’Italia – La voce di Roma, in «Gazzetta dello Sport», 18 aprile 1911.

48 Gentile, Op. cit., p. 48.

49 Il Giro d’Italia cit.

50 Gentile, Op. cit., p. 48.

51 G. Ambrosini, Senza battute muove il Giro dei campioni, in «Gazzetta dello Sport», 28 maggio 1951.

52 P. Gaspari, Il centenario sprecato, in Il centenario mancato della Grande Guerra: come snaturare il momento fondativo dell’identità italiana, a cura di M. Cimmino, P. Gaspari, M. Juren, M. Pascoli, Udine, Gaspari, 2016, p. 22.

53 P. Colombo, G. Lanotte, La corsa del secolo. Cent’anni di storia italiana attraverso il Giro, Milano, Mondadori, 2017, pp 45-48.

54 Il Giro d’Italia con Trento e Trieste, in «Gazzetta dello Sport», 4 novembre 1918.

55 N. Sbetti, “Lo Sport Illustrato” e la Grande Guerra (1913-1915), in Lo sport alla Grande Guerra, Quaderni della SISS v. 4, Siena, Nuova Immagine, 2015, pp. 244-249.

56 Il 7° Giro d’Italia è cominciato. Saluto, in «Gazzetta dello Sport», 22 maggio 1919.

57 L’ora della rivincita, ivi, 7 giugno 1919.

58 Lo spettacolo dell’arrivo a Trento, ivi, 24 maggio 1919.

59 C. Verratti, A Trieste vittoria di Fantini che vince la volata dei fuggitivi, in «Corriere della Sera», 1 giugno 1955.

60 Questo è il Giro d’Italia, in «Gazzetta dello Sport», 12 aprile 1946.

61 G. Mosca, Oberdan chiama, in «La Nazione», ١ luglio 1946. Anche: P. Facchinetti, Quando spararono al Giro d’Italia, Limina, Arezzo, 2006; M. Monaco, N. Sbetti, La partita dell’Italianità. Il ruolo del Coni e del governo nella lotta per l’egemonia dello sport triestino (1945-1954), in «Qualestoria», XLVII (٢٠١٩), n. ٢; N. Sbetti, Le implicazioni internazionali del «Giro della rinascita», in Giro d’Italia: atti di Convegno, a cura di S.L. Battente, Cantenaro, Aracne, 2020, pp. 171-184.

62 G. Mosca, Il battello di Capodistria, in «Corriere della Sera», 8 giugno 1961.

63 Buzzati, Op. cit, pp. 89-91; N. Salvalaggio, Italia e oltre l’Italia: Trieste, in «Il Resto del Carlino», 1° giugno 1949; C. Verratti, A Trieste vittoria di Fantini che vince la volata dei fuggitivi, in «Corriere della Sera», 1° giugno 1955.

64 B. Roghi, La promessa mantenuta, in «Gazzetta della Sport», 1 luglio 1946.

65 M. Isnenghi, Storia d’Italia. I fatti e le percezioni dal Risorgimento alla società dello spettacolo, Roma-Bari, Laterza, 2011, p. 289.

66 Il Giro d’Italia delle nozze d’oro, in «Gazzetta dello Sport», 15 gennaio 1946.

67 P. Muriali, La stampa italiana del dopoguerra, v. 1, Dalla Liberazione agli anni del centrismo, Roma-Bari, Laterza, 1978, p. 114.

68 Fabrizio, Op. cit., p. 129.

69 B. Roghi, Il Giro e le case, in «Gazzetta dello Sport», 11 maggio 1946.

70 Il 7° Giro d’Italia è cominciato. Saluto, ivi, 22 maggio 1919.

71 B. Roghi, Il giro d’Italia è partito, ivi, 15 giugno 1946.

72 Id., Ventre a terra, ivi, 26 giugno 1946.

73 Il faro di Napoli, ivi, 22 giugno 1946.

74 G. Mosca, Quello che dice il grano, in «La Nazione», ٢٠ giugno 1946.

75 B. Roghi, Sul tappeto rotolante, in «Gazzetta dello Sport», 21 giugno 1946.

76 O. Vergani, I quattro Camellini, in «La Stampa», 21 giugno 1946.

77 Id., Lasciate che mi sfoghi, ivi, 22 giugno 1946.

78 C. Verratti, Il guizzo vittorioso di Ortelli sulle ultime rampe di Chieti, in «Corriere della Sera», 22 giugno 1946.

79 B. Roghi, L’ha visto soltanto un pecoraio, in «Gazzetta dello Sport», 24 giugno 1946.

80 O. Vergani, Settanta giornalisti svegli contro 68 corridori dormienti, in «La Stampa», 26 giugno 1946.

81 G. Giardini, Centocinquanta chilometri di fuga sul nastro stradale dell’Agro Pontino, in «Gazzetta dello Sport», 26 giugno 1946.

82 E. De Martino, Resisterà Coppi?, in «La Stampa», 29 giugno 1946.

83 G. Giardini, Dall’Arno alla Valle padana nella lunga tappa che ha chiarito la situazione, in «Gazzetta dello Sport», 30 giugno 1946.

84 O. Vergani, Corsa alla villeggiatura, in «La Stampa», 3 luglio 1946.

85 M. Rendina, Sono passati ventitré giorni, in «Il Resto del Carlino», 7 luglio 1946.

86 O. Vergani, Si torna a casa, in «La Stampa», 7 luglio 1946.

87 Id., Corsa alla villeggiatura, ivi, 3 luglio 1946.

88 B. Roghi, Al popolo italiano la “corsa del popolo”, in «Gazzetta dello Sport», 8 luglio 1946.

89 G. Ambrosini, Il Giro del Centenario. Realizzazione di un’idea, ivi, 5 aprile 1961.

90 Id., Il Giro dell’equilibrio, ivi, 23 aprile 1961.

91 Id, Il nostro obbiettivo, ivi, 20 maggio 1961.

92 Id, Il Giro dell’equilibrio cit.

93 C. Verratti, Il Giro d’Italia del Centenario prende oggi il “via” da Torino, in «Corriere della Sera», 20 maggio 1961.

94 Marchesini, Op. cit., p. 92; Colombo, Lanotte, Op. cit., p. 123.

95 G. Ambrosini, Triplice successo, in «Gazzetta dello Sport», 12 giugno 1961.

96 Gentile, Op. cit. p. 386.

97 Mosca, Fine del ‘cuore’ cit.

98 B. Slawitz, Un usignolo ha cantato al passaggio del Giro, in «Gazzetta dello Sport», 24 maggio 1949.

99 G. Mosca, Vittoria in volata del belga Proost su sei compagni di fuga a Palermo, in «Corriere della Sera», 25 maggio 1961.

100 C. Verratti, Il colpo di Nino Defilippis e la vittoria di Zamboni, ivi, 6 giugno 1961.

101 Id., Da Trieste il Giro d’Italia si appresta all’ultimo balzo, ivi, 8 giugno 1961.

102 G. Mosca, La bandiera nascosta, ivi, 10 giugno 1961.

103 G. Caprotti, Alto Adige o Südtirol? La questione altotesina o sudtirolese dal 1945 al 1948 e i suoi sviluppi: studio degli archivi diplomatici francesi, Milano, FrancoAngeli, 1988.

104 C. Verratti, Adorni a Riva del Garda è la prima maglia rosa, in «Corriere della Sera», 17 maggio 1964.

105 Il terzo giro d’Italia, cit.

106 Colombo, Lanotte, Op. cit., p. 123.

107 Ivi, p. 132.

108 Gentile, Op. cit., p. 404.

109 A causa della pandemia da Covid19, il Giro del 2020, svoltosi precauzionalmente tra il 3 e il 25 ottobre, ha preso il via con la Monreale-Palermo.