La storia degli sport tra interpretazioni storiografiche, histoire événementielle e dell’intanto

Guido Panico

Università di Salerno


Indice

Sport, storia e accademia

Sport, società e letteratura


Abstract: The history of sport in Italy, as elsewhere, has moved beyond mere reenactments, exclusively, “événementielle”, or steeped in anachronistic references to a sometimes-distant past. A decisive role in this transformation can be attributed to the models of twentieth-century historiography, with its attention to social behavior and the diverse realm of emotions. The following pages aim to highlight, including through the experiences of journals such as “Lancillotto e Nausica”, some aspects of the significance of studying sports history, its audiences, and narratives according to standards that enrich Clio’s vast and intricate domain.

Keywords: Sport story, anachronistic reference, historiographic interpretation

Sport, storia e accademia

In un articolo del 1983, uno dei primi contributi dedicato allo sport apparsi su riviste storiche di natura accademica, Edoardo Grendi scrisse del disinteresse della storiografia – direi non solo italiana – verso questo tema1. Eppure, gli spettacoli sportivi, il calcio su tutti, suscitavano –verrebbe da dire –spesso incontrollate passioni tra gli intellettuali. Lo storico genovese in quell’articolo estendeva alla storia degli sport le critiche da lui da tempo rivolte a quella parte del fare storia di carattere economicistico e, per certi aspetti, deterministico, spesso alla ricerca delle origini e dei grandi avvenimenti. Si riferiva a quell’idea della storia sportiva e non solo che a me piace chiamare dell’intanto, quella che colloca, meccanicamente, in contesti di storia generale, ovvero soprattutto politica, le pratiche della socialità. Sull’intanto tornerò più avanti. L’articolo si concludeva con il ricordo di una chiacchierata con Carlo Ginzburg, uno storico tutt’altro che appassionato di sport, ma che trovava l’argomento storiograficamente importante. Né, aggiungo, poteva essere altrimenti se si pensa alla sua idea e pratica della storia. Non era il caso, in una prospettiva veracemente storiografica, non legata, perciò, alla cronaca e alle curiosità, fare silenzio. «A rompere questo silenzio tra le riviste storiche italiane è stata è stata «Italia Contemporanea» che ha aperto sul suo numero 174 un dibattito sulla storia dello sport introdotto da Stefano Pivato»2, autore, qualche anno più tardi anche di Sia lodato Bartali3. Un auspico condiviso anche da Nicola Gallerano che su «il manifesto» dell’11 agosto 1990, scrisse un primo articolo, intitolato Il calcio in cattedra.

In realtà il silenzio era stato già interrotto da qualche anno. Risaliva al 1976 il primo volume di Felice Fabrizio, dedicato a Sport e fascismo4, cui seguì un secondo testo, dedicato alla storia dello sport e dell’associazionismo sportivo in Italia come aspetto niente affatto secondario del controllo sociale e della formazione della cultura diffusa5. Nell’aprile del 1984 era uscito il primo numero di «Lancillotto e Nausica». Di «Quaderni storici» si è già detto. Risaliva al 1986 un saggio, comparso in «Società e Storia», di Loreto di Nucci dedicato alla figura dell’eroe sportivo nella cultura di massa dell’Europa contemporanea. Un contributo che non era, forse, di storia, strettamente, sportiva (nel senso allora corrente), ma che affrontava uno di quei temi, che fanno proprio della cultura sportiva, con i suoi simboli e i suoi eroi, uno snodo interpretativo della ricostruzione del mondo delle passioni, intese in senso nicciano, nell’età definibile contemporanea6. Presto altre riviste di alto profilo storiografico si aggiunsero a quelle già citate. Prima tra tutte «Belfagor», che nel 1988 aveva ospitato un saggio di Antonio Papa, in cui si proponeva di collocare la vicenda degli sport in un contesto culturale e sociale specifico e non in un generico e scontato quadro storico generale. Lo sport, in quest’ottica, era una delle componenti della società otto/novecentesca e non un suo meccanico prodotto, una banale sovrastruttura7.

L’auspicio di Gallerano divenne presto realtà. Sono passati da allora oltre tre decenni, che hanno visto la crescita impetuosa di studi e ricerche tale da non fare più della storia accademica (tale per le metodologie, non certo per l’appartenenza a una corporazione) degli sport un’eccentricità. Una puntuale rassegna della storiografia in proposito dovrebbe riempire davvero molte pagine, forse più di quelle richieste per analoghi lavori dedicati ai casi francesi e inglesi. Una rassegna che dovrebbe prendere le mosse dalla varietà delle interpretazioni, spesso di alto profilo.

La storiografia sportiva ha avuto in Italia –almeno ai miei occhi – la fortuna di prendere l’avvio sulla scia di sensibilità provenienti dalla diffusa discussione, tra gli anni ’70 e ’80, sul fare storia come ricerca della complessità interpretativa. In tanti in fondo facevano propria la celebre affermazione – risale al 1938 – di Febvre sul fare storia come ricerca della complessità. «Invece di dissertare in astratto – scriveva – mettiamoci davanti alla realtà. E applichiamo il metodo migliore: complichiamo quello che appare troppo semplice»8. La complessità, cosa assai diversa dalla complicazione, la si otteneva attraverso l’introduzione di campi di ricerca che mettessero in gioco quanti più aspetti possibile delle società e della cultura in senso anche antropologico. Da qui la valorizzazione della psicologia, della letteratura, dell’arte e di ogni altro sapere in grado di aiutare a costruire quadri interpretativi non legati né alla cosiddetta grande storia (quella politica, economica e dell’alta cultura), né all’idea della piccola storia come storia delle banali curiosità. Erano gli anni in cui lo spirito delle «Annales» e anche di «Past & Present» conquistava, a volte acriticamente, la mente delle nuove generazioni. Quelle che venivano definite nei manuali scolastici le curiosità da mettere in appendice ai fatti storici erano diventate parte essenziale della ricostruzione del passato.

È in questo clima che l’eccentricità dello storico di mestiere alla scoperta degli sport, come del tempo libero, come del corpo e della sessualità, come del mondo dei sentimenti e delle passioni cominciò a essere meno eccentrica.

Ma esiste una specifica metodologia di storia degli sport? Credo di no. Esiste piuttosto una storiografia che nel suo spettro interpretativo inserisce anche gli sport e tutto quello che essi portano con sé a cominciare dalla passione dei pubblici. Una storiografia che in qualche modo faccia proprio anche il settimo aforisma della Gaia Scienza, quello in cui si evoca la centralità disattesa di una storia dei sentimenti e delle passioni. In esso Nietzsche fa un elenco delle passioni di cui non c’era, allora, una storia. Forse non è un caso che ad attirare gli interessi delle scienze sociali e, poi, di Clio siano stati, innanzitutto, i pubblici o, meglio, il tifo: in Italia come altrove. Per non dire delle pagine letterarie.

Mi si perdonerà se, a questo punto, faccio riferimento a me stesso. Ero reduce da studi sulla storia dei riti della violenza pubblica in età moderna. Ed ero in cerca di un argomento di ricerca che riguardasse sempre il mondo delle passioni, ma questa volta non legate alla morte, ma alla vita. Pensavo, ad esempio, alla storia dei riti delle feste nella mia città, Napoli, tra l’età moderna e quella contemporanea. Quando Antonio Papa mi propose di collaborare a una storia del calcio non potevo che accettare e non perché fanatico tifoso. Anche da vecchio lo sono. Pensai subito a un campo di ricerca che coinvolgesse la storia sociale e culturale, a una storia che provasse a ricostruire i meccanismi della formazione e dell’evoluzione nel tempo di una pratica sociale legata, attraverso vari fili, alle identità nazionali e locali, come alla costruzione di discorsi e parole diventate parte non marginale nella formazione dell’opinione pubblica. Già opinione pubblica: un concetto legato, al suo sorgere settecentesco, alla discussione politica, ma, via via, sempre più attinente a un ben più vasto campo rispetto all’informazione e alla discussione politica vera e propria9. A costruirla fin dal tardo Ottocento è stato sempre più un vasto campo che va dall’informazione sui fatti criminali a quella sugli sport.

Fino ad allora non avevo letto nemmeno una pagina di storia dello sport. Pensavo che intorno allo sport, almeno in Italia, fossero state scritte solo pagine rievocative e puramente aneddotiche. Come spesso mi capita anche oggi, avevo torto. Certo gli sport, in particolare il calcio, sono stati spesso narrati – non solo in Italia – da una vasta letteratura fatta di aneddoti e spesso ispirata dall’orgoglio locale oppure dalla ricerca di occasioni per sentirsi patrioti. Ma non sempre. In fondo la prima vera storia del calcio, edita dall’Einaudi, risale al 1954 ed è quella di Antonio Ghirelli fino ad allora «l’unico a tentare una via diversa, una maniera di raccontare le vicende del calcio nostrano che non esulasse completamente da considerazioni di natura politica, economica e sociale»10. Con la sua contestualizzazione, che si sarebbe definita all’epoca gramsciana. Una contestualizzazione forse ingenua e meccanica. Ma parlo dall’alto della presunzione di chi ha avuto la fortuna di incrociare i grandi maestri del fare storia di tempi successivi.

Un po’ diverso è il tema della storiografia dell’intanto. Con questa espressione alludo alle tante pagine che, ancora oggi, provano a contestualizzare gli avvenimenti agonistici e con essi il tifo in un quadro storico generale, che è utile perfino a comprendere i successi e gli insuccessi sportivi. Binda dominava la scena ciclistica e intanto il fascismo. Un’interpretazione dell’intanto è quella recentissima seguita alle vittorie azzurre in varie discipline, in particolare nei campionati europei di calcio. La retorica della comunicazione pareva legare quella vittoria a una sorta di risveglio nazionale, come se ci fosse stato un rapporto tra una vittoria sportiva, dovuta alla bravura di alcuni atleti e a circostanze fortunate (una partita di calcio è, spesso, come una metafora della casualità della vita), e un ritrovato clima di ottimismo nazionale. Per non dire delle storie dei giornalisti tifosi che appiccicano alle vicende delle squadre di calcio e degli eroi sportivi più in generale significati tendenti ad esaltare le virtù patrie o locali con accenti, in certe storie napoletane, vittimistici, da lamentio sudista. Storie di nessun rilievo scientifico, ma che contribuiscono, più che nel passato, alla formazione di una sorta di immaginario comune, che va oltre il fatto sportivo e che investe il complicato campo del costume e della mentalità. Un immaginario che non può non interessare gli storici e gli scienziati sociali.

Ne è un esempio il recente lavoro di Daniele Marchesini e Stefano Pivato dedicato al tifo e alla passione sportiva in Italia e in tanti angoli dell’Occidente. Un libro, per fortuna, complesso in quanto getta sul tavolo svariate carte che provano a restituire un’interpretazione a tutto tondo di un sentire e di un comportamento culturale, oltre che sociale, tra i più pervasivi. Un comportamento che ha attirato l’interesse e coinvolto vari sentimenti. Perfino il senso della vita e della morte. L’Italia dei primi anni del dopoguerra conobbe non poche storie di morte che suscitarono un generale cordoglio. Marchesini e Pivato ricordano alcuni di quegli eventi dolorosi dovuti a calamità naturali e a incidenti sul lavoro, in alcuni casi vere e proprie stragi, come quella del 4 maggio del 1954 a Ribolla nel Grossetano. A causa di un’esplosione in una miniera di lignite persero la vita 44 operai. Prevedibile la commozione e lo sdegno di una parte del paese e le conseguenti polemiche politiche e giornalistiche. Tragedie come queste, che era seguita ad altre altrettanto terribili, nella memoria collettiva furono presto archiviate, «come passi dolorosi ma quasi necessari del cammino verso il recupero di condizioni normali di vita dopo il conflitto mondiale. Strascichi di quello. Per questo è una sciagura sportiva a causare il primo vero dolore collettivo del dopoguerra. Collettivo perché non divisivo, ma inclusivo»11.

Non è difficile immaginare che il primo grande lutto collettivo del dopoguerra fu quello di Superga. Ecco una pagina di storia di un sentimento condiviso intorno alla morte e ai suoi riti che trova nella passione sportiva una sua duratura manifestazione. Ancora oggi, a 73 anni di distanza, la tragica fine del Grande Torino fa parte della memoria comune, celebrata attraverso l’onomastica, i monumenti, le rievocazioni. Un argomento, quello delle memorie dei fatti tragici o, al contrario festosi, che può stuzzicare la curiosità degli storici tout-court, magari di formazione non storicista e non politicista. Come i tanti che da ormai un quarto di secolo incrociano la storia degli sport, confermando un senso storiografico che va ben oltre l’accadimento agonistico o la contestualizzazione dell’intanto. Fare gli italiani recita un paragrafo del libro dedicato da Marchesini alla storia del Giro d’Italia nell’età dei pionieri in cui si legge:

Al di là degli slanci retorici che ispirano quasi sempre e cronache, bisogna inoltre considerare che la funzione unificante di un Giro d’Italia risiede anche in altri solidi elementi i quali rinviano, tutti, al piano di respiro nazionale della sua effettuazione e a processi magari meno evidenti agli occhi del pubblico ma non per questo meno sostanziali. In altre parole il Giro è nazionalizzante perché è il suo stesso svolgimento a presupporre e a riassumere in sé una serie di fatti che sono nazionalizzanti e modernizzanti12.

A questo punto il riferimento alla tradizione che da un lato fa capo a Eric J. Hobsbawm e, dall’altro, a Norbert Elias, è d’obbligo. Da un lato l’idea degli sport cosiddetti moderni, in particolare, il calcio come aspetto della formazione delle identità nazionali e locali tra Otto e Novecento, dall’altro il ruolo della competizione regolata con i canoni del fair play come controllo dell’aggressività e, perciò, componente non trascurabile dei processi di civilizzazione. Ovviamente prima del 1976 e del 1983, anni di pubblicazione delle opere di Elias e di Hobsbawm, a cui, maggiormente, si fa riferimento13, non mancavano in Italia, come altrove, studi di argomento sportivo, non necessariamente di carattere puramente evenemenziale. Al 1978 risale il noto studio di Allen Guttmann dedicato alla specificità culturale e sociale della natura degli sport moderni rispetto alle attività ludiche del mondo antico fino alla tarda età che si definisce moderna.

Secolarismo, uguaglianza nelle opportunità di gareggiare e nelle condizioni della competizione, specializzazione dei ruoli, razionalizzazione, organizzazione burocratica, ricerca dei record14: ecco le sette caratteristiche peculiari degli sport dei moderni da cui prende avvio l’analisi comparativa e con essa un’ipotesi storiografica, oltre che sociologica, fondata appunto sulle differenze di costumi e tradizioni, tali da rendere anacronistico ogni, sia pur affascinante, confronto tra l’antico olimpismo, i cosiddetti giochi della tradizione e tutto ciò che si può ascrivere alla pratica e agli spettacoli degli sport. Su tutti quelli che maggiormente coinvolgono i riti delle identità locali e nazionali. Si pensi per l’Europa e per il Sud America al calcio15. Per l’Italia e la Francia anche al ciclismo, soprattutto agli albori dell’età degli sport e ai primi decenni del secondo dopoguerra.

Sport, società e letteratura

Per fortuna e in parte sulla scia delle suggestioni storiografiche e sociologiche a cui si è fatto cenno da almeno un trentennio esiste in Italia e altrove (è bene ribadire che lo scarso rilievo storiografico dato a lungo agli sport, al leisure e a tutto ciò che vi è legato non è una prerogativa nazionale), una consolidata tradizione di veraci studi di storia sportiva. Studi e ricerche che hanno contribuito ad ampliare lo spettro interpretativo della storia tout-court. Né più né meno come la storia dell’arte, del cinema, della letteratura e di tutto ciò che può raccontarci il passato, senza però, cadere nel relativismo e nella negazione dell’oggettività del fare storia. Anzi, la letteratura, come l’arte, può dare una mano allo storico16.

Si pensi all’esperienza di «Lancillotto e Nausica. Critica e storia dello sport»: il primo numero della rivista, come già ricordato, fu pubblicato nell’aprile del 1984. «Si aveva la necessità e il desiderio di capire la differenza filosofica che intercorre tra il concetto di “gioco” e il concetto di “sport” e dirimerne la contiguità»17, ha scritto Paolo Ogliotti, uno dei fondatori della rivista. Il quale ha raccontato della discussione intorno al sottotitolo, in particolare su quale dei due termini, “critica” e “storia”. dovesse precedere l’altro. Si scelse il primo per meglio definire concettualmente l’idea di sport distinguendola, così come detta il significato originario della parola critica (κρίvω ovvero distinguere, separare), da quella inerente altre e più antiche attività fisiche e ludiche. «Analisi dello sport, dunque, non solo presentazione dell’Homo nella sua fondamentale origine ludens, dimostrata da Huizinga e articolata da Caillois, ma ricerca sulla natura di questa entità, lo Sport, ormai presente e, a volte persino invasiva, ma disciplinarmente, se così si può dire, abbastanza assente»18.

La storia dello sport, forse, abbastanza assente, ma presente e utile al fare storia tout-court per i suoi metodi e per le discipline inevitabilmente intersecate. Si pensi al ruolo della grafica e dell’iconografia, a cui rimanda lo stesso Ogliotti, come fonte e come ulteriori elementi del contesto interpretativo. Per non dire delle pagine letterarie e cinematografiche: un caso esemplare di come la finzione possa e debba andare in soccorso di Clio.

Risale al 1892 Amore e Ginnastica di Edmondo De Amicis, un romanzo noto anche grazie alla sua versione cinematografica del 1973. Lo scrittore ligure dedica alcune pagine del racconto alla rappresentazione di un dibattito culturale del tardo Ottocento niente affatto marginale. Si descrive da una parte l’idea della ginnastica come preparazione militare, secondo il cosiddetto modello tedesco, teorizzato in Italia da Rodolfo Oberman, dall’altra come parte integrante dell’educazione e della salute delle nuove generazioni. Era il modello di Emilio Baumann, medico e tra i fondatori della Federazione delle Società Ginnastiche Italiane, autore nel 1870 di un libro, La ginnastica nei suoi rapporti con la medicina e l’igiene, che in qualche modo diede una base teorica all’introduzione, con la legge De Sanctis del 1878, della Ginnastica nella scuola.

È, forse, questo di De Amicis un primo esempio di narrazione letteraria italiana che coinvolge lo sport? I suoi protagonisti sono coinvolti in una discussione intorno a pratiche fisiche definibili sportive nel seno attribuito da Guttmann? Probabilmente no e non solo perché nelle sue pagine il termine sport è assente. In alcuni suoi passaggi narrativi il romanzo, piuttosto, descrive con efficacia pezzi della cultura del corpo e della sua educazione. Il fatto che la ginnastica, le attività natatorie, quelle legate alla bicicletta – a cui nel romanzo si fa un brevissimo accenno – siano parte del fare sport, non impedisce di individuare le specificità delle due culture. Certo il fascino della ricerca delle origini – nonostante Marc Bloch – è, tuttora, presente in tante pagine storiche. Figuriamoci se riferite a un tema, apparentemente, di lunghissimo periodo come lo sport19.

A maggior ragione se si pensa ai cosiddetti giochi della tradizione, come il pallone col bracciale, a cui la poesia e la narrativa hanno dedicato non poche pagine. Il pensiero corre inevitabilmente a Un vincitore del pallone di Leopardi. Pubblicato nel 1897, Gli azzurri e i rossi, sempre di De Amicis ci racconta vicende ed eroi del Gioco col Bracciale. In queste pagine «lo sport rappresenta l’ultima spiaggia per quegli ideali eroici e cavallereschi, per lo spirito d’avventura che la civiltà industriale aveva da tempo stritolato nei suoi ingranaggi di consumo-produzione», si legge in un libro, che raccoglie gli atti di un convegno del 1985 dedicato alla letteratura sportiva. Come in quasi tutti gli studi precedenti e successivi dedicati al tema l’idea di sport copre interpretazioni varie, che, insieme, confermano la pervasività, in Italia fin dai primi decenni del Novecento, del fenomeno nella cultura non intesa solo in senso antropologico. Paradossalmente ne danno atto le note osservazioni di un grande intellettuale, assai poco sportivo, «al quel che si chiamò lo sport, dalle biciclette alle automobili, dalla boxe e dal foot-ball allo sky, che tutti in vario modo cospirarono a dare a troppa larga parte nel costume e nell’interessamento al rigoglio e alla destrezza corporale, scapitandone al confronto le parti dell’intelligenza e del sentimento», scrive Benedetto Croce20.

La narrazione degli sport e dei suoi spettatori ha così contribuito, in Italia, come altrove, a delinearne la storia sociale, qualche volta perfino agonistica. Risale al 1934 la Prima antologia degli scrittori sportivi. A curarla furono Franco Ciampitti, uno scrittore trentenne – egli stesso appassionato sportsman, oltre che autore di un romanzo sportivo21 – e Giovanni Titta Rosa, collaboratore, tra l’altro di «Lacerba», la rivista fiorentina legata al futurismo. L’antologia raccoglieva scritti di ventidue autori per un totale di 351 pagine, se si vuole, una testimonianza dell’appassionato interesse di una non piccola schiera di intellettuali e scrittori italiani verso gli sport, al di là della retorica di stampo fascista, che pure vi appare. Un’antologia – e questo è da notare – che non coinvolse, se non per citazioni, i giochi e gli sport, per così dire, antichi. Vi comparivano, tra le altre, le pagine di Massimo Bontempelli dedicate alla tipologia del tifo, di Orio Vergani sulla figura del pugile e le cinque celebri poesie di Umberto Saba sempre sul calcio. Ne viene fuori un ritratto più complesso e vario del creduto della visione degli sport in quegli anni, dunque, storiograficamente, non irrilevante.

L’equiparazione tra giochi, generiche attività fisiche e sport caratterizzò anche una successiva antologia, pubblicata nel 195022. Vi compaiono testi letterari dedicati alle più diverse attività: dai giochi ricreativi ad alcuni sport. L’idea era, attraverso le pagine di noti scrittori, di mostrare come il tempo del leisure potesse essere oggetto dell’interesse dell’alta cultura23. La confusione concettuale intorno significato storico di sport caratterizza anche un’antologia del 195524. La prima parte del libro si apre con Omero e Virgilio per proseguire, in un percorso millenario, con i più diversi autori, sottolineando così la continuità storica di un’“invenzione” del mondo moderno. Un’ottima occasione per raccontare lo spirito sportivo, prendendo il via dal mondo antico fu offerto dalle Olimpiadi romane del 1960. È questa la data da cui, forse, prese l’avvio la sempre più folta narrativa di finzione sullo sport, i suoi eroi e i suoi pubblici, temi che interessano da gran tempo la curiosità degli studi letterari e storici. In Italia e in altri angoli del mondo, il ruolo recitato soprattutto dal calcio e dal ciclismo, anche nella finzione letteraria è scontata, meno scontato è il valore delle story nella formazione di conoscenze e di interpretazioni dell’history.

Ne è un esempio un volume di Sergio Giuntini dedicato al racconto del calcio, un libro di storia, che nel ricostruire contenuti, tecniche narrative e, perfino, qualità del linguaggio restituisce la vicenda della passione di tanti intellettuali, giornalisti e scrittori nell’ambito di un contesto culturale generale in cui le parole del pallone, insieme alla mitografia dei suoi eroi hanno contribuito all’invenzione di linguaggi, sentimenti e tradizioni25. Vale la stessa cosa in altri angoli del mondo, sebbene i protagonisti siamo altri sport. E non solo per le pagine letterarie. Infatti, giustamente, il libro di Giuntini dedica e sue ultime pagine al calcio narrato al teatro e soprattutto al cinema. Le sue storie aiutano a ricostruire non come siano andate veramente le cose, ma come sono state vissute. «Insomma, il cinema non raffigura la società in quanto tale, ma piuttosto nel modo con cui questa stessa società intende raffigurarsi», ha scritto Pietro Cavallo26. Aggiungerei per gli sport e per i suoi pubblici in particolare, come le genti del cinema al pari dei narratori delle pagine scritte, ne hanno interpretato, spesso anche in Italia, il significato culturale e civile. Non è poca cosa per la storia tout-court.

A narrare la storia degli sport o, meglio, la loro pervasività nella formazione ed evoluzione del costume e del senso delle identità hanno contribuito, indubbiamente, anche i media. Informare, educare, intrattenere è il titolo di un capitolo di libro, pubblicato la prima volta all’alba del nostro secolo, di Asa Briggs e Peter Burke dedicato alla storia dei media. È scontato che tutti i media hanno informato e intrattenuto narrando di sport. Ricostruirne la storia è, apparentemente, semplice: si tratta di mettere in fila diacronica notizie, vere o false poco importa, e spettacoli. Meno scontato appare il percorso dell’educare. In realtà l’intreccio tra la pura informazione, la sua narrazione e lo spettacolo ha accompagnato un po’ tutta la vicenda sportiva. Ma è dal 1950 che le linee di demarcazione tra l’informazione e lo spettacolo si sono fatte sempre più confuse in tutti i media. Un processo che caratterizza ogni forma di comunicazione degli eventi e del sentire stesso dei pubblici, ovviamente a cominciare da quelli delle discipline più popolari27.

In ogni storia dello sport con ambizioni scientifiche la ricostruzione dei contesti culturali e con essa della soggettività appare, perciò, indiscutibile. Ed è per questo che la storiografia accoglie con sempre maggiore attenzione le pagine che si occupano del tempo libero, dello sport, degli spettacoli, intesi come parte dell’interpretazione, a tutto tondo e perciò articolata, del passato e, per le scienze sociali, del presente. Fonte essenziale di questa complessità interpretativa sono le pagine di finzioni, le story, comprese quelle cinematografiche e televisive. A maggior ragione la documentaristica televisiva, sempre più abbondante, che qualche volta interpreta le imprese sportive come periodizzanti della storia generale. Pare quasi che a sancire la fine degli anni di piombo sia stata la vittoria calcistica del 1982 in Spagna. Non è certo un evento sportivo a scandire la periodizzazione storica generale. Ma di un pezzo della soggettività sì.


1 E. Grendi, Lo sport, un’innovazione vittoriana, in «Quaderni storici», 18 (1983), n. 2, pp. 679-694.

2 S. Pivato, Le pigrizie dello storico. Lo sport tra ideologia, sport e rimozione, in «Italia Contemporanea», (1989), n. 174, pp. 17-27. Il dibattito proseguì, in particolare nel n. 176 dello stesso anno, pp. 155-178.

3 Id., Sia lodato Bartali. Ideologie, culture e miti dello sport cattolico, Roma, Edizioni Lavoro, 1985 (n.e Firenze, Castelvecchi, 2009).

4 F. Fabrizio, Sport e fascismo. La politica sportiva del regime 1924-36, Rimini-Firenze, Guaraldi, 1976.

5 Id., Storia dello sport in Italia. Dalle società ginnastiche all’associazionismo di massa, Rimini-Firenze, Guaraldi, 1977.

6 L. Di Nucci, L’eroe atletico nell’Europa delle masse. Note sulla cultura del tempo libero nella città moderna, in «Società e Storia», 34 (1986).

7 A. Papa, Le domeniche di Clio: origini e storie del football in Italia, in «Belfagor», (1988), n. 2, pp. 129-143.

8 L. Febvre, Storia e psicologia, in Studi su Riforma e Rinascimento e altri scritti su problemi di metodo e di geografia storica, Torino, Einaudi, 1966, p. 480.

9 La bibliografia intorno al concetto e alla formazione dell’opinione pubblica dal Settecento inglese ad oggi è vastissima. Qui mi prime ricordare il saggio di Giuseppe Civile, Per una storia dell’opinione pubblica: osservazioni a proposito della tarda età liberale, in «Quaderni Storici», (2000), n. 105, pp. 469-504. In esso i discorsi storici attinenti al concetto di opinione pubblica sono intesi, in termini di pratiche sociali piuttosto che di scelte intellettuali, e infine analizza le dinamiche attraverso le quali discorsi diversi, in tempi e contesti diversi, sono ammessi all’interno della sfera pubblica.

10 M. Impiglia, La SISS e i suoi antenati, in La storiografia dello sport, stato dell’arte, riflessioni, Quaderni della SISS, n. 3, Siena, Nuova Immagine, 2014, p. 24.

11 D. Marchesini, S. Pivato, Tifo. La passione sportiva in Italia, Bologna, il Mulino, 2022.

12 D. Marchesini, L’Italia del Giro d’Italia, Bologna, il Mulino, 2003, pp. 89-90.

13 Cfr. N. Elias, The Genesis of Sports as a Sociological Problem, in Sport. Readings from a Sociological Perspective ed. by E. Dunning, Toronto, University of Toronto Press, 1976, pp. 88-115. Il saggio fu riprodotto in italiano nel 1989 per i tipi de il Mulino in Sport e aggressività, a cura di N. Elias e E. Dunning. Cfr. anche E. J. Hobsbawm-T. Renger, L’invenzione della tradizione, Torino, Einaudi, 1987 (la prima edizione inglese del volumei risale al 1983); E.J. Hobsbawm, Nation and Nationalism since 1780: programme, Mith, Reality, Cambridge, Cambridge UP, 1990.

14 A. Guttmann, From Ritual Record. The Nature Of Modern Sports, New York, Columbia University Press, 1978, pp. 56-57.

15 In proposito si veda Le football des nations. Des terrain de jeu aux communautes immaginéesr, sous la direction de F. Archambault, S. Beaud, W. Gasparini, Paris, Publications de la Sorbonne, 2016. Una discussione intorno al libro è di É. Burgel, Vers une socio-histoire de l’inter-nationalisation du football, in «Genéses» (٢٠١٨), n. 113, pp. 193-201. Cfr. anche R. Ciccarelli, Il calcio come veicolo di identità e divisione, in Ipotesi per un’impresa culturale. L’organizzazione di un centro Archivi del Coni, Quaderni della SISS, n. 2, Siena, Nuova Immagine, 2013. pp. 94-101.

16 Cfr. F. Pitocco, Storia e letteratura. «Danno» e «utilità» di un rapporto controverso, in Il letterato e lo storico. La letteratura creativa come storia, a cura di P. Favilli, Milano, FrancoAngeli, 2013, pp. 50-75. Cfr. nello stesso volume anche id., Il testo letterario e lo storico spaesato: alcune domande, pp. 18-44.

17 P. Ogliotti, Lancillotto e Nausica. Una coppia ormai storica celebra il trentennale del suo primo incontro, in La storiografia dello sport, cit., p. 50.

18 Ivi, p. 51.

19 Cfr., ad esempio, M. D’Ascenzo, Alle origini delle attività sportive nella scuola italiana: la ginnastica razionale di Emilio Baumann, in Un’esperienza formativa tra gioco e impegno, a cura di R. Farné, Milano, FrancoAngeli, 2019, pp. 194-215.

20 B. Croce, Storia d’Europa nel secolo Decimonono, Bari, Laterza, 1965, p. 298. La prima edizione è del 1932. Cfr., sulla diffidenza della cultura italiana verso gli sport, A. Brambilla, S. Giuntini, Scrittura e sport. Primi sondaggi otto-novecenteschi, Verona, Libreria editrice universitaria, 2003, pp. 18-34.

21 Il titolo del romanzo edito dalla «Gazzetta dello Sport» nel 1932 è Novantesimo minuto. Il protagonista è Mario, un terzino dal carattere mite e lontano dall’eroe forte e deciso disegnato dal modello dello sportsman fascista.

22 Aa.Vv. Giuochi e sports, Torino, Edizioni Radiofoniche Italiane, 1950. Il libro prese spunto dagli interventi di scrittori e intellettuali in una rubrica radiofonica, Scrittori al microfono.

23 Per una storia delle antologie sportive cfr. A. Brambilla, Sport et scrittura. Il ruolo determinante delle antologie sportive, in «Italies. Littérature-Civilitation-Societé», (2019), n. 23, pp. 275-290. In particolare, per l’interesse dell’alta cultura al mondo dei giochi e dello sport si vedano le pp. 279-280.

24 Scrittori sportivi. Raccolta di scritti sullo sport, a cura di G. Caorsi, Torino, Rattero, 1955.

25 S. Giuntini, Calcio e letteratura in Italia (1892-2015), Milano, Biblion, 2017.

26 P. Cavallo, Viva l’Italia. Storia, cinema e identità nazionale (1932-1962), Napoli, Liguori, 2009, pp. 7-8.

27 Cfr. A. Briggs e P. Burke, Storia sociale dei media. Da Gutenberg a Internet, Bologna, il Mulino, 2002, pp. 232-234.