Herrera VS Pasolini

Un dibattito sui significati del calcio

Silvano D’Angelo

Società Italiana di Storia dello Sport


Indice

Il contesto

La vicenda

Conclusione


Abstract: Despite their prejudice, newspaper articles are an indispensable and inescapable source for the history of sport, certainly for the reconstruction of events, but above all as material for the study of the history of ideas and mentalities. In some cases, however, it is the press itself that becomes the scene of singular events such as those described in this article. If it is now commonplace for coaches and managers of major teams to comment on current affairs, in the 1960s it was a rarity for a coach to extend his discourse beyond the footballing sphere, and all the more so when his statements were such as to provoke the indignant reaction of a great intellectual. The only two candidates in this field are Helenio Herrera, the man who revolutionised the way the figure of the coach was interpreted and perceived in the 1960s, and Pier Paolo Pasolini, one of the few intellectuals of his time to speak, critically, about sport. The long-distance clash between the two took place in November 1969 and was triggered by some of Herrera’s comments on the function of sport as an instrument of mass distraction, reported in the Corriere della Sera on 1 November that year (Moravia-Herrera derby). Pasolini’s prickly response came a few weeks later in his ‘Chaos’ column in issue 48 of «Tempo», with the article Sport e Canzonette. If the direct confrontation between the two is concentrated in these two articles, we will see that the implications of their statements go far beyond the polemics of the moment. To fully understand the affair, it is necessary to widen our gaze to the footballing and political context of the 1960s and the personalities of the two players on the pitch. To this end, some of Pasolini’s other articles on sport, collected in Valerio Piccioni’s book Quando giocava Pasolini. Calci, corse e parole di un poeta, and a little-used source that must be treated with the utmost care: Helenio Herrera’s autobiography, La Mia Vita.

Keywords: Herrera, Pasolini, 1968

Il contesto

Il 1969 segnava l’apice di un periodo particolarmente complesso per il calcio italiano. Nei vent’anni precedenti erano infuriate furibonde polemiche sulla gestione della Nazionale azzurra, che aveva confezionato una serie di fallimenti nelle varie edizioni dei mondiali, culminate con l’onta della sconfitta contro la Corea del Nord ad Inghilterra 1966. Questo mentre a livello di club, invece, Inter e Milan facevano registrare un successo internazionale dietro l’altro1. A segnare l’apparente rinascita del calcio azzurro era arrivato l’insperato trionfo negli Europei casalinghi del 1968, sotto la guida di Ferruccio Valcareggi, che avrebbe condotto i suoi ragazzi anche alla finale dei successivi mondiali Messicani, finale poi persa contro il Brasile di Pelé, non prima però che quella squadra fosse passata alla storia grazie all’agonica semifinale con la Germania, “La partita del Secolo”, terminata 4-3 a favore degli azzurri. Il decennio seguente si sarebbe rivelato ancora difficile e avaro di successi per il calcio italico – che avrebbe dovuto attendere il “Mundial” del 1982 per un nuovo trionfo. A cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta non fu soltanto al livello strettamente sportivo che l’ambiente calcio conobbe evoluzioni di rilievo. Tra il 1967 e il 1968 erano salite sempre più alla ribalta testimonianze sulle condizioni lavorative dei calciatori. Si andava delineando l’immagine della “gabbia dorata” in cui venivano rinchiusi dei ragazzi spesso ancora minorenni, che guadagnavano certamente stipendi milionari, ma senza alcun tipo di tutela socio-assistenziale e al prezzo di vedere fortemente limitata la propria libertà di movimento e di giudizio, nel segno dell’obbedienza totale alla società e all’allenatore. Inoltre, scendendo al di sotto delle categorie professionistiche, la gabbia rimaneva ugualmente stringente, ma molto meno dorata2. Una questione che sarebbe sfociata nel luglio del 1968 nella fondazione dell’Associazione Italiana Calciatori e nelle sue successive battaglie.

D’altra parte gli anni Sessanta segnavano il culmine del boom economico. La crescita del benessere significava anche un notevole aumento del budget destinato dagli italiani ai divertimenti, di cui facevano parte gli spettacoli sportivi; tra questi il calcio era ormai diventato nettamente quello dominante, staccando il ciclismo3. Questa crescita esponenziale aveva portato con sé anche un modo nuovo di vivere il calcio come spettacolo di massa. Il clima culturale del 1968 non aveva influenzato in maniera diretta il mondo del pallone, ma le parole d’ordine sessantottine avevano cominciato a penetrare in profondità nella società coeva. Questo significava che le posizioni, ancora predominanti, dei dirigenti federali che continuavano a propugnare l’immagine di uno sport apolitico – una definizione che non aveva mai ricalcato la realtà4 – si trovavano ad avere vita sempre più dura. Avevano destato parecchia attenzione le manifestazioni di giubilo popolare, le prime della storia della Repubblica, per la vittoria degli Europei del 1968, prima affermazione calcistica internazionale del secondo Dopoguerra. I caroselli per le strade avevano messo in luce un senso di unità nazionale che raramente si era visto in altri campi e metteva da parte rivalità e campanilismi non solo calcistici, ma anche politici e sociali. Per la prima volta dopo tanto tempo alcuni avevano ritirato fuori tricolori dimenticati nei cassoni di casa e persino una larga parte della popolazione femminile si era unita ai festeggiamenti. L’euforia nazionale sarebbe esplosa in misura ancora maggiore durante la Coppa del Mondo del 1970: uno scoppio di cui alcuni commentatori non mancarono di far emergere anche aspetti meno entusiasmanti, come le aggressioni verso alcuni tifosi tedeschi e le manifestazioni razziste nei confronti dei Brasiliani, avversari della finale5. Stava però di fatto che ormai il calcio poteva catalizzare le passioni di una nazione come nessun altro fenomeno e rappresentare una potenziale cassa di risonanza per istanze di tutt’altro genere. Nell’analisi della festa, per spiegare come essa avesse addirittura potuto sorpassare quella di due anni prima vennero chiamati in causa i rapporti politici, sociali ed economici ambivalenti con la Germania, nei confronti della quale gli italiani avevano sempre sofferto un certo complesso di inferiorità che la Nazionale di Valcareggi sembrava essere riuscita a ribaltare, almeno per una notte6. Se si aggiungono a questo le manifestazioni di piazza provocate anche in Italia dalle controverse Olimpiadi del 1968 – svoltesi dopo la strage di Piazza delle Tre Culture7 – diveniva evidente come sport e politica non potessero più essere presentati come entità sperate. E in un certo senso è proprio su questo tema che Herrera e Pasolini si vennero a scontrare.

La vicenda

Il 31 Ottobre 1969, nella sede Romana del «Corriere della Sera», Helenio Herrera, allenatore della grande Inter degli anni Sessanta si trova a discutere di tifo e sport professionistico con Alberto Moravia, un intellettuale ostentatamente disinteressato al calcio, in compagnia di cinque studenti universitari che avevano il compito di incalzare i due con motivi che nel corso dell’anno precedente si erano diffusi in maniera sempre più pervasiva negli ambienti sportivi italiani. Il dibattito è riportato sull’edizione del quotidiano del giorno successivo.

Il primo studente che interviene chiede subito in maniera sfacciata se lo sport sia «giusto», visto che ormai a tutti gli attori coinvolti sembra interessare soltanto l’aspetto del guadagno, mentre un secondo rincara la dose definendo lo sport «solo spettacolo»8. Nelle sue risposte Moravia sembra inizialmente seguire la solita linea polemica sulla distinzione tra sport praticato, apprezzabile e salutare, quando non addirittura necessario, e il deprecabile sport-spettacolo. In realtà, più che sul sistema dello spettacolo sportivo, il punto polemico dello scrittore si concentra sul suo principale derivato: il tifo. Proprio analizzando il comportamento dei tifosi, che il più delle volte non praticano alcuno sport, Moravia arriva a negare al calcio anche lo statuto di “spettacolo”, perché secondo lui lo “spettacolo” è qualcosa che si osserva e sul quale alla fine si esprime un giudizio, sul fatto che la rappresentazione sia riuscita o no, se sia piaciuta o meno. Al contrario, il tifoso che si reca a una partita di pallone partecipa “attivamente” e in maniera «drammatica» all’evento. Per replicare a queste posizioni, Herrera definisce il tifo un semplice «svago» e lo dipinge come un ottimo modo per avvicinare i giovani allo sport. Subito dopo propone un esempio che rivela tutta la sua indole conservatrice: parla, infatti, di come il regime franchista spagnolo utilizzi la corrida, alla quale Moravia aveva accomunato il tifo calcistico, per distrarre la popolazione dalla «rivoluzione». Poi, tornando sui ragazzi italiani che vanno allo stadio, afferma:

È meglio che i giovani vengano attratti dallo sport che non da altri miti, come per esempio la droga. Se non avessero questa valvola di sfogo potrebbero persino dedicarsi al gioco della rivoluzione che è assai più pericoloso9.

L’invito sostanziale di Herrera è dunque quello di accettare la realtà così com’è – affermando ad esempio che il calcio non è l’unico ambiente in cui girino stipendi da capogiro. Moravia invita invece ad avere un approccio più critico e consapevole, concordando con Herrera sulla capacità di distrazione esercitata dallo spettacolo calcistico, ma dandole una connotazione completamente opposta:

Il tifo è un surrogato, prodotto dall’alienazione, di altre esigenze. Le più grandi folle che ho visto nella mia vita sono state quelle dello stadio e di piazza Venezia […] Coloro che vanno negli stadi scaricano energie ed entusiasmi che si vorrebbe dedicassero anche ad altre manifestazioni della vita civile10.

Moravia si mostra contrario alla visione anestetizzante proposta da Herrera e profondamente scettico sul fatto che il tifo possa veicolare valori più alti, pur riconoscendo che i problemi legati ad esso non riguardano soltanto il calcio, ma la cultura, la politica e la società. L’unico punto su cui lo scrittore deve cedere alle affermazioni del “Mago” si ha nel momento in cui quest’ultimo ricorda come i proventi del Totocalcio servano a finanziare tutta le attività del CONI, compresa la promozione della pratica sportiva di base.

Dopo aver letto il resoconto del duello, Pasolini ne rimase allibito e si sentì in dovere di controbattere all’interno della sua rubrica «Il Caos», sulla rivista «Tempo» del successivo 29 novembre, con un articolo dal titolo Sport e Canzonette. Le parole di Herrera, sulla corrida, mettevano in luce la funzione reazionaria dello sport, proprio nel momento in cui anche nel campo sportivo la presa di coscienza dei problemi socio-politici si faceva più forte dopo le Olimpiadi del Messico. Pasolini si sorpese non tanto del contenuto delle affermazioni del Mago, la cui evidenza era quasi incontrovertibile, quanto del fatto che tali verità potessero essere espresse in maniera così esplicita senza che nessuno, perlomeno tra la stampa di sinistra, prendesse posizione contraria, forse per paura di alienarsi le simpatie proprio di quei tifosi di cui parla Herrera:

Herrera, senza rendersene conto, con atavica e neanche antipatica impudenza, ha smascherato il calcio e in genere lo sport, la sua funzione reazionaria, il suo asservimento al potere. […] I giornali di sinistra hanno forse paura di ciritcare Herrera? Forse perché i lavoratori vanno in massa agli stadi? E sarebbe dunque impopolare parlar male di Herrera, come sarebbe impopolare parlar male degli insopportabili cantanti di canzonette, che, come il calcio e peggio, «distraggono dalla rivoluzione»?11

Pasolini si scandalizza e dice di poterselo permettere perché, a differenza di un Moravia, che definisce «handiccappato» nel rispondere alle affermazioni di Herrera, lui ha praticato sport ed è un tifoso che «vive la contraddizione dello sport»12. Pasolini era un appassionato sostenitore del Bologna, un tifo che lo scrittore cercherà di vivere sempre in maniera critica, ma che non rinnegherà né nasconderà mai, nemmeno dopo essersi trasferito a Roma, vivendo tutte le sofferenze tipiche del tifoso nei momenti meno felici della sua squadra del cuore.

Tornando alle dichiarazioni di Moravia sullo sport e sul suo negare al calcio anche la tanto vituperata definizione di “spettacolo”, possiamo trovare le opinioni di Pasolini a riguardo in un articolo in cui egli racconta di un evento a cui aveva assistito proprio in compagnia dello stesso Moravia e della scrittrice Elsa Morante. Il regista e poeta fu anche giornalista sportivo per la rivista di sinistra Vie Nuove e in questa veste seguì le Olimpiadi romane del 1960. Qui, al momento di assistere alle gare di atletica, si rese conto, non senza fare una certa autocritica, di non riuscire più a seguire competizioni di quel tipo perché sono troppo brevi e non corrispondono più ai canoni spettacolari dello sport moderno:

Da troppo tempo lo sport è spettacolo e tutta l’organizzazione sportiva è per lo spettacolo […] è inutile rimpiangere le cose che passano: bisogna coraggiosamente affrontare quelle che si presentano, nuove, portate da nuove necessità. Ci sono degli sport che, piano piano, hanno finito per non coincidere più con lo spettacolo13.

Nonostante da queste posizioni si possa desumere come la visione pasoliniana dello sport non fosse totalmente riassumibile nella pura diatriba tra sport di massa, per il quale comunque egli propenedeva, e la grande industria sportiva allora nascente, su una cosa Pasolini era comunque irremovibile. Il poeta di Casarsa era assolutamente avverso al nazionalismo sportivo che, a sua detta, oltre al deprecabile risultato di fomentare scontri e odi, aveva la «colpa» di non permettere ai tifosi “puri” come lui, a coloro che seguivano lo sport soltanto per bearsi della poesia dello sforzo atletico, di «assistere “pienamente” all’ascesa e alla grandezza»14 dei campioni stranieri, come ad esempio Eddy Merckx, dominatore in quegli anni del Giro d’Italia e del Tour de France.

Sulla scorta di queste riflessioni, Pasolini entrò in urto con il pugile Nino Benvenuti e i suoi tifosi. Un’antipatia nata a pelle che venne semplicemente confermata quando Pasolini scoprì che i ritratti del pugile erano appesi nelle sezioni del Movimento Sociale Italiano. Alla lettera di una signora italiana residente in Svizzera, che lo accusava di non capire la condzione degli italiani all’estero, i quali potevano contare solo sullo sport per avere un minimo senso di rivalsa all’interno di vite segnate da soprusi e privazioni, Pasolini risponde come tale sollievo non sia che una «falsa consolazione», perché «non c’è proprorzione tra i problemi esposti in questa lettera e il contributo di Benvenuti a risolverli»15. L’unico modo per ottenere una reale rivincita sarebbe cambiare le proprie condizioni materiali. Una posizione decisamente sui generis da parte di uno dei pochissimi intellettuali che all’epoca della contestazione rifiutava la pura e semplice definizione dello sport come oppio dei popoli, ma che allo stesso tempo si scagliava contro uno dei motivi per cui le vittorie della Nazionale di calcio, specie di quella del ’70 contro la Germania, causarono una risposta popolare senza precedenti. Mentre la popolazione esultava per le strade e riscopriva il tricolore, Pasolini si augurava tante sconfitte di Benvenuti… e «una serie di fatali Coree»16!

Nonostante la ferma condanna del nazionalismo sportivo, la concezione dello sport di Pasolini prevede un contatto immersivo con il mondo dei tifosi, anzi è proprio questo contatto che rende il calcio uno spettacolo di massa molto più efficace del cinema e del teatro, in cui il pubblico è invece puramente passivo (si limita a contemplare, direbbe Moravia). Ed è porprio questo senso di unità creato con il pubblico e tra il pubblico ciò che fa del calcio «l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo»17.

L’articolo in cui forse emerge in maniera più evidente questo «doppio approccio al calcio, critico ed entusiasta allo stesso tempo»18 è il Reportage sul Dio, apparso su «Il Giorno» del 14 luglio 1963. Nel pezzo Pasolini simula di istruire un giornalista che deve cominciare a seguire la carriera di un giovane calciatore. Il poeta condanna con sottile ironia il moralismo e la vera e propria «disonestà» che la stampa sportiva mostra nell’esaltare un giovane ai primi successi, salvo poi farlo cadere nel dimenticatoio non appena la fortuna comincia a voltargli le spalle, dopo aver seguito attentamente la sua carriera, ma soprattutto i suoi amori e i possibili scandali. Pasolini dedica molto spazio a come l’ipotetico giornalista dovrebbe sottolineare le umili origini e il successo folgorante del «Dio», che incarna le aspirazioni di «milioni di giovani che sognano» i piaceri della vita e la cui divinità consiste nella «sproprorzione tra la sua normalità e l’anormalità del suo destino»19. Lo scritto evdenzia per contrasto come la visione del calcio quale ascensore sociale per i membri delle classi subalterne sia dovuta in larga parte a un’opera mistificatoria della stampa sportiva, mentre l’unico interesse della società di appartenenza nel promuovere l’ascesa del «Dio» consiste nell’aumentare il prezzo del suo cartellino e dunque il possibile profitto.

Nonostante questo, il calcio per Pasolini, a differenza di Moravia, non è soltanto mistificazione e strumento di manipolazione delle masse nelle mani della società borghese, ma anche qualcosa che coinvolge sentimenti profondi, sia che si tratti di calcio giocato sia quando bisogna supportare la propria squadra allo stadio. Per questo le frasi di Herrera che lo relegano a strumento per distogliere i giovani dall’impegno politico trovano la sua più profonda indignazione. Abbiamo già citato la famosa definizione in cui Pasolini definisce il calcio come «L’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo», ma non è l’unica.

In un altro famoso articolo, Pasolini descrive il calcio come un vero e proprio «linguaggio» con i suoi «poeti e prosatori». Un linguaggio che non è quello dei giornalisti sportivi, bensì quello “parlato” dai giocatori in campo: come l’alfabeto ha i sui “fonemi”, il linguaggio del calcio possiede ventidue «podemi» che possono comporre infinite combinazioni. Come nella lingua italiana possono esserci stili e generi diversi, così lo stile di gioco di ogni singolo calciatore può essere più prosastico o più poetico: il capitano del Bologna, Giacomo Bulgarelli, per esempio, è un «prosatore realista», Riva un «poeta realista» e Mazzola un «elzevirista»20. Ma il calcio è fatto anche di momenti e per Pasolini nel corso di ogni partita vi sono due momenti poetici per eccellenza: il gol e il dribbling. Una siffatta considerazione pone le basi per un’ulteriore riflessione sul legame tra lo stile di gioco di un paese e le abitudini sociali e politiche dei suoi abitanti. Il gioco della Nazionale italiana, basato sul catenaccio e sulle triangolazioni è certamente un calcio in prosa, che poco regala all’emozione e risulta in linea con la mentalità conservatrice dell’Italia democristiana. Una visione che qualche anno più tardi sarebbe stata ripresa in chiave polemica da Antonio Ghirelli – Giornalista e autore della prima storia del calcio italiano –, strenuo oppositore del catenaccio, che nel 1978 affermava: «si gioca per lo 0-0 come si vota per la DC, per vincere molto lavorando poco e rischiando ancora meno […] per conservare il proprio impiego, per lusingare l’opinione pubblica, per liberarsi delle proprie responsabilità morali e professionali»21. Un calcio prosastico che però, ricorda Pasolini, nella finale del mondiale del 1970 ha dovuto cedere al Brasile, che possiede «i migliori dribblatori al mondo»22 e dunque gioca il calcio più poetico, così com’è nella natura dei sudamericani.

Su un versante decisamente opposto rispetto a Pasolini si posiziona Helenio Herrera, che ha l’idea di un calcio slegato dalla politica, ma tutt’altro che privo di sovrastrutture. Per capire come il Mago vivesse il suo rapporto col proprio lavoro possiamo scorrere le pagine della sua autobiografia, La mia vita. Se come biografia va presa con le pinze, può essere comunque utile per interpretare alcuni pensieri del famoso allenatore.

Già dalle prime pagine emerge come il trittico che fa da filo conduttore all’intera narrazione – molto romanzata – della vita dell’allenatore, dalla nascita fino alla prima Coppa dei Campioni vinta con l’Inter, sia «Foot-ball… Gloria… Denaro»23. Herrera dichiara infatti di aver capito fin da giovane che il calcio da solo non bastava e che servivano i soldi per allontanare tutte quelle preoccupazioni che possono anche impedire ai ragazzi di giocarlo, come malattie, mancanza di mezzi di trasporto e necessità familiari.

Relativamente alla pratica del mestiere di allenatore emergono l’importanza del lavoro e dei risultati, due cose che vanno di pari passo. Rammentando come avesse ottenuto per la prima volta l’appellativo di “Mago”, in seguito ai buoni risultati ottenuti alla guida dello Stade Français, Herrera ricorda: «in realtà il mio potere magico consisteva esclusivamente in un profondo attaccamento al lavoro» e aggiunge, difendendosi da un’accusa che gli veniva rivolta di frequente, «non “brucio” i giocatori»24. Herrera poneva la massima cura nella preparazione fisica, come ci ricorda lui stesso al momento di descrivere i cambiamenti che aveva dovuto apportare in materia di lavoro atletico al suo arrivo in Spagna e successivamente anche in Italia all’Inter. Proprio l’impatto che egli riesce ad avere su squadre che prima del suo arrivo versavano in condizioni di difficoltà viene portato dal Mago a testimonianza dell’importanza della figura dell’allenatore che, se non ostacolato da intromissioni esterne, «d’una buona squadra può fare una squadra campione e trasformare una squadra mediocre in una buona squadra»25.

Se quest’ultima affermazione non fosse sufficiente, Herrera precisa più volte che ciò che conta davvero nel lavoro di un allenatore sono i risultati26 e a questo sono volti i suoi metodi che vengono spesso definiti di stampo dittatoriale. Passando a descrivere la sua prima avventura sulla panchina di una grande squadra, l’Atletico Madrid, Herrera afferma che per raggiungere il successo la prima cosa che aveva dovuto fare era stata «lottare contro l’indisciplina» e imporre ai giocatori «l’indispensabile regime alimentare e un ragionevole metodo di vita»27. Tutti ingredienti che concorrevano a creare un clima di reciproca fiducia e affiatamento imprescindibile per dar vita a una squadra vincente, insieme a un lavoro tecnico che permettesse di portare in campo «un football più moderno basato su corsa e velocità»28 per contrastare anche avversari di maggior qualità.

Un ultimo aspetto da curare da parte dell’allenatore è quello della comunicazione, sia quella atta a motivare i propri giocatori, sia quella nei confronti della stampa e dei tifosi. Per quanto riguarda i primi, Herrera era maestro nel dar loro la giusta carica psicologica, come farà all’Inter con i suoi famosi slogan – definiti «mussoliniani» da Gianni Brera – e sfruttando le superstizioni dei propri calciatori. Il Mago rimase famoso per i suoi “riti” pre partita, ma a tal proposito il suo punto di vista è particolarmente interessante. «Per contrarrestare i loro timori – afferma – inventavo superstizioni anticipandole alle loro […] altre volte inventavo superstizioni con l’esclusivo proposito di rinforzare il morale di vittoria dei miei giocatori»29. L’allenatore argentino dunque aveva imparato a strumentalizzare le scaramanzie dei suoi e ad utilizzare altri «trucchi» ancora meno ortodossi per fomentarne la grinta, come riportare false dichiarazioni degli avversari – per non parlare delle misteriose «bustine di zucchero» che diedero adito alle accuse di doping, altro tema di dibattito che sale agli onori delle cronache in quegli anni30.

Più burrascoso il rapporto con la stampa, specialmente al suo arrivo in Italia, in cui il numero di pubblicazioni sportive era decisamente più alto che in altri paesi. Tuttavia, ben prima di approdare sulla panchina nerazzurra Herrera aveva imparato a far tesoro dell’attenzione mediatica, al di là dei toni usati dai giornali: l’allenatore delle Grande Inter ammette che a inizio carriera soffriva maggiormente gli attacchi dei giornalisti, mentre al picco del successo può dire: «Ora so che quando si parla bene di me o male, più se ne dicono e meglio è, non si fa altro che accrescere la mia fama»31.

Successo e fama che ovviamente mettono tutta la sua carriera sotto la lente di ingrandimento e lo espongono a critiche e accuse di diverso tenore, due delle quali egli tiene in particolar modo a confutare nella propria biografia.

La prima riguarda la critica più comune verso i protagonisti del mondo del calcio, quella di guadagnare troppo, che proprio con i contratti faraonici strappati da Herrera cominciò a riguardare sempre di più anche gli allenatori. Ebbene, a questo capo d’imputazione Herrera risponde seccamente dicendo che è vero che lui guadagna molto, ma innanzitutto, come ha cercato di dimostrare, «un buon allenatore non è mai troppo caro»32. In secondo luogo afferma che tutte le squadre da lui allenate hanno visto crescere in maniera decisa i propri tifosi e i propri introiti. D’altra parte Herrera si mostra perfettamente conscio dell’importanza del fattore economico anche in termini di risultati sportivi quando parla del suo periodo alla guida del Barcellona, in cui lottava contro un Real Madrid che aveva degli evidenti «vantaggi economici, e conseguentemente anche sportivi, difficili da annullare»33.

Subito dopo il Mago ribatte anche a chi lo accusa di essere un dittatore, rispondendo innanzitutto che «non è il caso di paragonare la direzione di una squadra a una qualunque forma di governo», riaffermando ancora una volta l’idea della separazione tra sport e politica. Passando invece sull’aspetto tecnico, Herrera ribadisce di non chiedere ai suoi nient’altro che disciplina, una disciplina che anzi sono i giocatori stessi ad autoimporsi una volta capito che essa è l’unica via per raggiungere il successo. Tuttavia, una tendenza di stampo latamente “dittatoriale” da parte dell’allenatore argentino emerge nel momento in cui si lamenta delle eccessive attenzioni che i giornali scandalistici dedicano ai calciatori italiani e si dice a tal riguardo favorevole alla censura attuata dal regime franchista34, affermazione in linea con quelle sulla corrida che rilascerà qualche anno dopo al «Corriere» (cfr. supra).

Nelle ultime pagine, inoltre, Herrera si prende spazio per parlare del suo tanto discusso schema di gioco, ritenuto eccessivamente speculativo da una parte della stampa, mettendo in chiaro l’inopportunità di chi lo accusa di praticare un calcio “distruttivo”:

Quelli che distruggono il calcio – replica Herrera – sono quelli che praticano un cattivo football o che elogiano, dalle colonne dei loro giornali, un calcio già decaduto. Per il resto non c’è football distruttivo. Se si gioca per ottenere un risultato e si ottiene, si è praticato un football adeguato. A ogni partita un nuovo rivale che richiede un’impostazione diversa35.

Insomma il calcio migliore è quello che ottiene i risultati migliori, senza poesia o prosa che tengano.

Conclusione

Mettendo a confronto Herrera e Pasolini abbiamo di fronte due modi completamente diversi di vivere il calcio, pur nella comune consapevolezza che ormai non si possano ignorare le connessioni tra lo sport e il mondo politico-economico. Un dibattito che va avanti da quando i primi i gruppi di tifosi si sono radunati attorno a un campo da calcio e che ancora oggi risulta estremamente attuale, ricostruito attraverso gli scritti di due figure diversissime ma capaci entrambe di mostrarci come la storia del calcio vada sempre studiata alla luce dei diversi e a volte contrapposti mondi di senso che lo sport nazionale è in grado di stimolare e da cui è a sua volta influenzato.

Pensandoci bene, era inevitabile che i due protagonisti di questa storia fossero destinati a scontrarsi. Herrera è stato per molto tempo l’emblema dell’allenatore-dittatore, mentre il Pasolini giocatore era una di quelle ali estrose e votate al dribbling, uno di quei giocatori che sicuramente sarebbe venuto immediatamente ai ferri corti con il Mago, un’ala destra in campo che voleva essere intellettualmente un’ala sinistra. Ed è proprio verso la “fascia sinistra” della politica e della società italiana, per usare una metafora calcistica, che Pasolini si rivolge per la mancata risposta alle affermazioni del Mago che vogliono dipingere un calcio sterilizzato da ogni tipo di valore e sentimento. Non ad Herrera, che è «ingenuo» e «innocente», ma alla sinistra che non reagendo a quelle dichiarazioni dimostra di essere ancora in grave ritardo sulle concezioni sportive. Proprio per questo si sente in diritto di indignarsi nel momento in cui gli giunge dalla bocca di Herrera, un uomo votato in primo luogo al raggiungimento del risultato (sportivo ed e economico) a qualunque prezzo, la visione di un «calcio valium»36, mero strumento per distrarre i giovani «che se non facessero il tifo farebbero la rivoluzione»37.


1 Le prime storie del calcio italiano appaiano proprio negli anni Settanta, scritte da due grandi giornalisti che avevano seguito da vicino gli avvenimenti dell’epoca: Gianni Brera (G. Brera, Storia critica del calcio italiano, Milano, Baldini e Castoldi, 1998) e Antonio Ghirelli (A. Ghirelli, Storia del Calcio in Italia, Torino, Einaudi, 1972). Per una ricostruzione storiografica delle vicende cfr. J. Foot, Calcio. 1898-2010. Storia dello sport che ha fatto l’Italia, Milano, Rizzoli, 2015.

2 Proprio al 1967 risale un’inchiesta di Kino Marzullo significativamente intitolata I Robot del Calcio, apparsa a puntate sulle edizioni de «l’Unità» edizioni del 13, 20 marzo, 3, 10, aprile, 1 maggio di quell’anno. Nel 1976 sarebbe uscita l’autobiografia di Paolo Sollier Calci, sputi e colpi di testa. Riflessioni autobiografiche di un calciatore per caso, Milano, Gammalibri, 1976.

3 Vedi S. Pivato, P. Dietschy, Storia dello Sport in Italia, Bologna, il Mulino, 2019, pp. 134-136 e A. Papa-G. Panico, Storia sociale del calcio in Italia, Bologna, il Mulino, 2002, pp. 297-304.

4 Sull’uso politico dello sport cfr. anche N. Sbetti, Giochi di potere. Olimpiadi e politica da Atene a Londra 1896-2012, Firenze, Le Monnier, 2012. Per una trattazione più completa del panorama sportivo-sociale del 1968 si vedano invece S. Giuntini, Pugni chiusi e cerchi olimpici. Il lungo ’68 dello sport italiano, Roma, Odradek, 2008 e A. Molinari, G. Toni, Storie di sport e politica. Una stagione di conflitti 1968-1978, Milano-Udine, Mimesis Edizioni, 2018. Per una lettura del Sessantotto italiano e internazionale M. Flores, G. Gozzini, 1968. Un anno spartiacque, Bologna, il Mulino, 2018.

5 Papa, Panico, Op. cit., p. 326. Per una ricostruzione più precisa degli eventi e del dibattito su di essi si vedano Ivi, pp. 324-328 e Molinari, Toni, Op. cit., pp. 255-261.

6 La vicenda è ricostruita in N. Dalla Chiesa, La partita del secolo. Italia Germania 4-3, Milano, Solferino, 2020, mentre l’analisi delle reazioni della stampa si trova in Papa-Panico, Op. cit., pp. 324-328.

7 Il 2 ottobre 1968, 10 giorni prima dell’apertura delle Olimpiadi, i granaderos messicani aprirono il fuoco contro gli studenti riunitisi per protestare contro le spese eccessive del governo di Gustavo Diaz Ordaz per organizzare l’evento mentre il paese era morso dalla crisi economica. Le autorità affermarono che i morti erano solo 29, ma secondo alcuni testimoni il computo totale era di alcune centinaia. Le Olimpiadi si tennero lo stesso e alla fine della gara dei 200m il pubblico dell’Atzeca poté assistere alla protesta dei pugni chiusi dei corridori afroamericani Tommie Smith e John Carlos. Sbetti, Op. cit., pp. 145 ss.

8 Derby Moravia-Herrera, «Corriere della Sera», 1 novembre 1969.

9 Ibidem.

10 Ibidem.

11 P. P. Pasolini, Sport e Canzonette, «Il Caos», «Tempo», 29 novembre 1969, cit. da V. Piccioni, Quando giocava Pasolini. Calci, corse e parole di un poeta, Arezzo, Limina, 1996, p. 115.

12 Ibidem.

13 P. P. Pasolini, Dramma sul filo, «Vie nuove», 17 settembre 1960, cit. da Piccioni, Op. cit., p. 59.

14 P. P. Pasolini, La faccia di Merckx, «Il Caos», «Tempo», 10 maggio 1969, cit. da, Piccioni, Op. cit., p. 94.

15 P. P. Pasolini, Benvenuti non serve a nulla, «Il Caos», «Tempo», 25 gennaio 1969, citato in Piccioni, Op. cit., pp. 90.

16 Ibidem.

17 Intervista di Guido Gerosa a P. P. Pasolini, «L’Europeo», 31 dicembre 1970, cit. da Piccioni, Op. cit., p. 118.

18 Piccioni, Op. cit. p. 100.

19 P. P. Pasolini, Reportage sul Dio, «Il Giorno», 14 luglio 1963, cit. da Piccioni, Op. cit., pp. 107-113.

20 P. P. Pasolini, Un linguaggio di poeti e prosatori, «Il Giorno», 3 gennaio 1971, cit. da Piccioni, Op. cit., pp. 119-122.

21 M. Barendson-A. Ghirelli, Intervista sul Calcio Napoli, Bari, Laterza, 1978, cit. da F. Archambault, Le contrôle du ballon. Les catholiques, les communistes et le football en Italie de 1943 au tournat des années 1980, Roma, École Française de Rome, 2012, pp. 335-336.

22 P. P. Pasolini, Un linguaggio di poeti e prosatori, «Il Giorno», 3 gennaio 1971, cit. da Piccioni, Op. cit., pp. 119-122.

23 H. Herrera, La mia vita, Milano, Mondo Sport, 1964, p. 25.

24 Ivi, p. 62.

25 Ivi, p. 64.

26 Ibidem.

27 Ivi, p. 70.

28 Ivi, p. 88.

29 Ivi, pp. 92-93 e cfr. Brera, Op. cit., p. 301-304. «In spogliatoio, riti selvaggi, e non solo scaramantici. Tutti con le mani sulle mani intorno a lui. “Che facciamo oggi, Masiero?” “Vinciamo di sicuro!” “E tu, Bolchi, che dici?” “Tutti per uno e uno per tutti!” “Molto bene.” Naturalmente chi ride è perduto. […] Il tono della voce era jeratico, di tutta testa, un po’ isterico pure. E quando era avvenuto il reciproco giuramento, a uno a uno il mago chiamava in disparte i suoi prodi e gli ficcava in bocca qualcosa che pareva contenuto in una bustina dello zucchero. Anche di questo non si doveva chiedere nulla: o credergli o restare fuori. Il dottor Clerle, che presiedeva al servizio medico della squadra, ha preteso di sapere ed è stato tolto di mezzo. L’Inter ha preso a correre in settembre ed ha trattenuto l’anima fra i denti fino a marzo, quando ha incominciato a lasciare spenzolare la lingua».

30 Nel 1962 in Italia venne fondato il primo laboratorio di controllo antidoping al mondo. Per l’approfondimento della storia dei rapporti politici nel mondo del calcio in Italia si consiglia N. De Ianni, Il calcio italiano 1898-1981. Economia e potere, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2015.

31 Herrera, Op. cit., p. 80.

32 Ivi, p. 98.

33 Ivi, p. 105.

34 Ivi, p. 179.

35 Ivi, p. 207.

36 Piccioni, Op. cit., p. 101.

37 Derby Moravia-Herrera, «Corriere della Sera», 1 novembre 1969.