Recensione

Sergio GIUNTINI, Storia agonistica, sociale e politica dell’atletica leggera italiana , Roma, Aracne, 2017, 382 pp.

Erminio Fonzo

(Università degli Studi di Salerno)

Il recente volume di Sergio Giuntini sulla storia dell’atletica leggera italiana riempie un vuoto: nonostante esistano numerosi studi dedicati a singoli campioni o eventi della “regina degli sport” e vi siano stati anche tentativi di ricostruzione storica di carattere generale – lo stesso Giuntini ha fatto il punto sullo stato dell’arte nel Quaderno della Società Italiana di Storia dello Sport (SISS) del 2014, Storiografia dello sport in Italia. Stato dell’arte, indagini, riflessioni,  a cura di Marco Impiglia e Maria Mercedes Palandri – mancava un libro che ricostruisse le vicende dell’atletica italiana dalle origini a oggi e le mettesse in connessione con la più generale evoluzione della società. È uno studio necessario anche perché, nella storia dello sport italiano, l’atletica leggera ha avuto un’importanza significativa: pur non essendo mai stata tra le discipline più popolari, da circa un secolo è considerata la base della preparazione fisica per gli altri sport e per l’addestramento militare; inoltre, ha prodotto campioni capaci di imporsi sul piano internazionale e in determinate occasioni ha suscitato l’interesse e l’entusiasmo del pubblico.

Il volume di Giuntini prende le mosse dalle origini dell’atletica nel mondo antico e ripercorre le tappe significative del suo sviluppo: le corse dei lacchè e degli uomini-cavallo tra Sette e Ottocento, la difficile nascita dell’atletica leggera moderna in età giolittiana, il punto di svolta rappresentato dalla Prima guerra mondiale, la crescita della disciplina durante il fascismo, la ripresa postbellica, l’ascesa seguita alle Olimpiadi di Roma, l’“atletica-spettacolo” di Primo Nebiolo, i successi nelle gare di marcia, fondo e mezzofondo conseguiti dagli atleti italiani negli anni ‘80, gli scandali legati al doping e ad altre manipolazioni, l’attuale crisi della disciplina.

Dalle pagine della Storia agonistica, sociale e politica dell’atletica leggera italiana  emerge come essa sia stata sempre collegata alle più generali dinamiche sociali. Si consideri, per esempio, la svolta rappresentata dalla Prima guerra mondiale, quando l’atletica subentrò alla ginnastica come base della preparazione militare: il cambiamento era un aspetto della modernizzazione imposta, in maniera tragica, dalla guerra alla società italiana; si pensi, inoltre, alla più recente affermazione dell’“atletica-spettacolo”, che è conseguenza dello sviluppo dell’Italia postindustriale, nella quale lo sport è sempre più fenomeno mediatico. Anche nella storia dell’atletica leggera, inoltre, esiste una “questione meridionale”, come dimostra la prevalenza degli atleti e degli impianti nelle regioni del Centro-Nord, che solo in parte è stata temperata dalla presenza di campioni famosi originari del Mezzogiorno, in primis  Pietro Mennea.

Nel leggere il volume di Giuntini, si è colpiti anche dalla mole dei dati agonistici e della pubblicistica consultata. Centinaia e centinaia di atleti popolano le pagine del libro. Tra i protagonisti vi sono anche donne come Ondina Valla e Paola Pigni, che, con le loro prestazioni, hanno contribuito a far accettare lo sport femminile a una società che, per decenni, ha frapposto resistenze e barriere: la Valla, con la vittoria olimpica del 1936, contribuì a far scemare i dubbi sulla partecipazione delle donne alle competizioni agonistiche; la Pigni, con i suoi risultati nel mezzofondo degli anni Settanta, smentì la tesi secondo la quale le donne potevano cimentarsi solo nelle specialità meno faticose. Più in generale le atlete, incarnando un modello diverso da quello della mentalità tradizionale, che le voleva relegate tra le mura domestiche, hanno dato un significativo contributo all’emancipazione femminile.

Protagonisti del volume sono anche i cronisti sportivi, alle cui pagine l’autore ha attinto per ricostruire la storia dell’atletica: anzitutto Gianni Brera, che proprio nel campo della “regina degli sport” iniziò la sua felice carriera di giornalista, ma anche cronisti come Bruno Bonomelli e Roberto Quercetani e intellettuali come Pier Paolo Pasolini.

Il volume si chiude con la “crisi di identità” dell’atletica italiana, che oggi non dispone di atleti capaci di primeggiare in campo internazionale, nemmeno nelle specialità, come la marcia, che in passato hanno garantito le vittorie più numerose. Basti pensare che gli atleti italiani non conquistano un titolo olimpico dal 2008 e uno mondiale dal 2003.

Come il resto dello sport, l’atletica leggera si trova di fronte alle opportunità rappresentate dalla società multiculturale, giacché i giovani di origine straniera (spesso nati in Italia da genitori immigrati) che si cimentano nelle competizioni sono in aumento costante. Già negli anni scorsi si sono affermati alcuni atleti dalla pelle nera, in primis  Fiona May e Andrew Howe, ma non si trattava di migranti o loro figli, bensì di cittadini del Regno Unito e degli Stati Uniti che avevano acquisito la cittadinanza italiana per ragioni familiari. Nonostante i due – e soprattutto la May – abbiano contributo alla propagazione di un messaggio antirazzista, la loro situazione è diversa da quella dei figli dei migranti provenienti dal Sud del mondo, che devono fronteggiare resistenze e ostacoli, anche di carattere burocratico, per partecipare alle attività sportive. La recente vicenda di Great Nnachi, una giovane torinese figlia di genitori immigrati dalla Nigeria, ne è una testimonianza: nonostante l’atleta, nel maggio del 2019, abbia superato il primato italiano under 16 nel salto con l’asta e sia considerata una delle promesse mondiali della specialità, la sua prestazione non è stata omologata perché la legge prevede che i figli degli immigrati acquisiscano la cittadinanza italiana solo al compimento del diciottesimo anno di età. Per lo Stato, Great Nnachi, nonostante sia nata e cresciuta a Torino, è una straniera e non può stabilire un record nazionale.

Tuttavia, proprio dall’inclusione dei figli dei migranti e dalla società multiculturale potrebbe venire la soluzione (o, almeno, una delle soluzioni) alla crisi che colpisce l’atletica leggera italiana: è giocoforza che lo sport segua le dinamiche più generali della società e sarebbe logico che, in un contesto sempre più multiculturale, i “nuovi italiani” si affianchino ai “vecchi italiani” sulle piste e sulle pedane della “regina degli sport”, senza le barriere che rendono più difficoltosa la loro partecipazione.