Alberto Molinari, Gioacchino Toni,
I migranti del pallone. I calciatori stranieri in Italia. Un secolo di storia

Firenze, Le Monnier, 2023, 302 pp.

Edoardo Molinelli

Università per Stranieri di Perugia


«Rimane il fatto nudo e crudo che le società vogliono gli stranieri dal gran nome a scopo pubblicitario, per dare spettacolo, cioè. E così per quella che dovrebbe essere l’officina di produzione delle energie nostre, l’interesse nazionale passa in seconda linea. […] La nazionale è ritenuta un perditempo dannoso». Se non fosse per l’utilizzo di una lingua dal sapore vagamente rétro, parole del genere potrebbero benissimo essere attribuite a Luciano Spalletti, l’attuale commissario tecnico della nazionale italiana di calcio, mentre in realtà furono scritte nel novembre 1951 da Vittorio Pozzo. L’articolo dell’allenatore azzurro più vincente della storia, dall’eloquente titolo Stranieri e nazionale problemi da risolvere, è solo uno dei numerosissimi documenti originali presenti nel saggio di Alberto Molinari e Gioacchino Toni I migranti del pallone, uscito per Le Monnier nel 2023.

Il tema centrale del libro, come suggerisce il titolo, è il rapporto tra il calcio italiano e gli “stranieri”, mutato nel corso degli anni al variare del contesto economico e sociale del Paese (e, più prosaicamente, a seconda del rendimento e dei risultati della nazionale). La ricerca «ripercorre le vicende delle migrazioni calcistiche verso l’Italia sul versante sportivo e nei loro risvolti sociali, politici, economici, culturali, di costume, delineando le traiettorie geografiche dei flussi migratori e i profili delle più significative figure del calcio straniero in Italia» (p. 2); in tal modo, gli autori dipingono un quadro che, dal mondo del pallone, si estende all’intera società italiana, finendo per ampliare lo sguardo agli intrecci tra sport, politica ed economia, al razzismo diffuso, all’ingerenza delle istituzioni. Elementi che hanno contribuito alla genesi contraddittoria e talora paradossale di quelle decisioni (una su tutte, il celebre “veto Andreotti” del 1953) che hanno creato un’alternanza senza soluzione di continuità tra periodi di apertura e periodi di totale chiusura del calcio nostrano.

Il saggio, inoltre, ricostruisce in modo chiaro la storia del rapporto ambiguo dei massimi organismi sportivi (e non solo) con i giocatori stranieri, sottolineandone la funzione di capro espiatorio invocato ogniqualvolta si è reso necessario giustificare i rovesci della nazionale, a prescindere dal fatto che si trattasse di oriundi (colpevoli di scarso attaccamento alla maglia azzurra) o di giocatori migranti (accusati di “rubare” il posto ai giovani talenti nostrani, un esercizio retorico nient’affatto passato di moda).

I cinque capitoli del libro attraversano un arco che va dalle origini del gioco in Italia alla cosiddetta “sentenza Bosman” del 15 dicembre 1995, approfondendo una notevole molteplicità di argomenti.

Tra i tanti aspetti trattati, di particolare interesse risulta l’analisi del tentativo di nazionalizzare il football e di rivendicarne l’origine italiana, un’opera di vera e propria appropriazione culturale basata su una «ricostruzione priva di fondamento storico […] che assimilava il calcio inglese a quello rinascimentale giocato a Firenze» (p. 28) e addirittura sulla presunta derivazione dall’harpastum di epoca romana.

Ben tratteggiato è anche l’eterno dibattito sull’utilizzo degli oriundi, uno dei grandi classici del calcio italiano, iniziato immediatamente dopo che i club, a fronte della chiusura delle frontiere imposta dalla Carta di Viareggio del 1926, decisero di tesserare in modo sempre più massiccio figli e nipoti di emigranti. L’evidente ipocrisia del fascismo spinse a considerare i cosiddetti “rimpatriati” come degli italiani all’estero, che potevano tornare alla loro vera casa grazie ai miglioramenti economici portati dal regime; una narrazione totalmente di comodo e che mostrò più volte la propria inconsistenza, ma che contribuì a radicare la legittimità del ricorso agli oriundi, ripreso nel dopoguerra e, nonostante alterne fortune, in voga ancora oggi (Emerson Palmieri, Jorginho e Rafael Tolói, tutti di origine brasiliana, si sono laureasti campioni d’Europa nel 2021).

Vari sono anche i luoghi comuni sfatati dai due autori. I più noti riguardano il ruolo di primo piano degli inglesi nello sviluppo del calcio italiano, da ridimensionare di fronte al superiore apporto degli svizzeri (più vicini geograficamente e culturalmente all’Italia), e l’importanza epocale della sentenza Bosman, riguardo alla quale i dati mostrano in realtà che «cinque anni dopo […] la mobilità interna all’Unione Europea risultava in diminuzione, mentre cresceva il numero di calciatori provenienti da Paesi extraeuropei, non interessati dal provvedimento» (p. 218).

Per scrivere I migranti del pallone Molinari e Toni hanno fatto ricorso a un ampio e dettagliato apparato di fonti, utilizzando in maggioranza giornali d’epoca, non solo sportivi, e integrando la ricerca con documenti d’archivio. Il risultato finale è un saggio solido e storiograficamente rigoroso, che riesce a restituire perfettamente il percorso temporale della vicenda senza dimenticare di inserirla in una prospettiva contemporanea e proponendo riflessioni che, a partire dal tema degli stranieri, arrivano a riconoscere nel «mercato calcistico […] un caso esemplare delle disuguaglianze più generali che caratterizzano il funzionamento dell’economia globale» (p. 222).