Intellettuali e pugilato in Italia

Una lunga storia

Sergio Giuntini

Società Italiana di Storia dello Sport



Indice

Boxe e Risorgimento

Guido Gozzano dalla “Signorina Felicita” alla boxe

D’Annunzio, il boxeur “superuomo”

Pugni futuristi

La boxe in camicia nera: l’“effetto boomerang” di Vergani e De Céspedes

Un pugilato neorealista: Testori & Pasolini

L’intellighenzia nemica di Benvenuti

Bianciardi versus il “ballerino” Benvenuti

L’abolizionista Carlo Cassola

Conclusioni



Abstract:The relationship between intellectuals and boxing has been always very strong in Italy. From Guido Gozzano to the Futurist movement and Fascist culture, many intellectuals and phenomena recognised many of the vitalist values and symbols of boxing. After the Second World War, the left-wing intelligentsia also began approach boxing, from Pier Paolo Pasolini to Luciano Bianciardi, who engaged in polemical quarrels with the boxer Nino Benvenuti, known for his ties to the neo-fascist right.

Keywords: Boxe, Intellettuali, Storia dello Sport

Sui sedici anni S. visse la sua breve stagione pugilistica ufficiale. Andò per qualche mese ad allenarsi in palestra, l’allenatore era un ometto alto così, che era stato pochi anni prima campione veneto dei mosca, e che nelle esibizioni si sceglieva un medio-massimo o un massimo, un po’ crudo s’intende, gliene dava un sacco e una sporta, tutte sul muso, alzandosi molto letteralmente in punta di piede per arrivarci […] Questo allenatore dichiarò subito che S. era ottimamente predisposto a boxare: età giusta, peso gallo, buona fattura delle spalle e della vita, scatto, agilità.1

Così Luigi Meneghello. Lo scrittore vicentino d’impronta anglosassone in un ricordo autobiografico sui suoi trascorsi giovanili da boxeur. D’altronde il pugilato nell’Italia del secolo scorso ha rappresentato uno degli sport più amati dalle masse, superato solo dagli egemoni calcio e ciclismo. Lungo questo arco temporale esso ha generato una ricca serie di campioni professionisti giunti ai vertici mondiali (Primo Carnera, Duilio Loi, Mario D’Agata, Nino Benvenuti, Sandro Mazzinghi, Carmelo Bossi, Salvatore Burruni, Bruno Arcari, Patrizio Oliva ecc.) e una lista altrettanto nutrita di pugili dilettanti, vincitori o piazzati nelle diverse edizioni dei Giochi olimpici. I combattimenti riempivano teatri, palazzi dello sport, velodromi e persino i grandi stadi calcistici. La radio e la televisione pubblica trasmettevano i principali match nazionali e internazionali, la stampa specializzata e non se ne occupava con continuità e ampiezza. Specie nel secondo dopoguerra dei “poveri ma belli” il pugilato ha dunque rappresentato un significativo fenomeno culturale, sociale e di costume, e le sue caratteristiche di sport epico e popolare, duro ma vero, produssero nei suoi confronti molteplici fascinazioni intellettuali. Questo breve saggio – prendendo a modello l’esemplare Boxing. A cultural history di Kasia Boddy (2009)2 – mira a recuperare i rapporti intrattenuti già nel XIX e lungo il XX secolo dalla cultura italiana con la cosiddetta noble art. Una vicenda densa di incontri e passioni, che vanno ben al di là di quanto si è indotti a credere, e che smentiscono gli stereotipi con cui è stata spesso ridotta a semplice brutalità e violenza. Certo, la nostra boxe non ha sortito le straordinarie ricadute determinate da questa disciplina sul cinema e la letteratura statunitensi3. Ma ciò non toglie che un simile tema meriti un adeguato approfondimento, uno scavo utile se non altro a porre le prime basi di una più ampia storia culturale dello sport italiano.

Boxe e Risorgimento

Ai suoi albori la boxe moderna costituì una sorta d’effetto indiretto e di risposta dal “basso” al classismo della scherma e dei duelli. Viktor G. Kiernan, nel suo monumentale saggio sulla duellistica nella storia europea, ha colto appieno questo aspetto sottolineando come

mentre il duello veniva minato poco a poco, cresceva il culto dello sport, nel senso nuovo e migliore del termine, che faceva riferimento alla gara piuttosto che alla caccia. La boxe trovò molti entusiasti sostenitori, come sport più tipicamente inglese e come attività meno immorale del duello […] Alle classi dirigenti la boxe dovette sembrare ancor più adatta per gli strati sociali inferiori, che in tal modo venivano allontanati da forme peggiori di violenza, che un giorno o l’altro avrebbero potuto usare contro i padroni4.

La nascita della boxe moderna si situa nella fase di progressivo imborghesimento del duello e della sua perdita di aura aristocratica. Gli alto-borghesi lo adottarono anch’essi e se ne fecero sempre più interpreti come un’attestazione di status.5 Difendere l’onore con la spada o la pistola per un borghese significava certificare la propria ascesa sociale, e i cimenti pugilistici, di cui pure la borghesia inglese si era fatta inizialmente paladina promuovendone lo sviluppo e la modalità “scientifica”, vennero lasciati ai ceti inferiori. La borghesia poteva organizzare, assistere e scommettere su un duello a pugni nudi o con guanti, ma mai, se non nel chiuso di qualche palestra e a puro scopo d’allenamento, salire su un ring con una borsa o qualche titolo in palio. Se dal piano inglese si passa all’italiano, le prime informazioni relative a questo sport apparvero sulla stampa a partire dal secondo decennio dell’Ottocento riferendo il rigoglio che aveva Oltremanica. La «Gazzetta di Firenze», il 21 maggio 1816, riferì di un combattimento tenuto a Londra il 24 aprile di quell’anno, e il 3 marzo 1817 era la «Gazzetta di Milano» a riportare i dettagli di un incontro londinese svoltosi il 14 febbraio6. Come in Inghilterra, anche in seno alla borghesia italiana non tutti però riconobbero alla boxe piena legittimità. L’essere sostanzialmente una forma di duello più democratica e popolare. E altresì interessante è osservare come nella penisola un dibattito sull’accettabilità del pugilato, ancor prima che vi potesse metter radici, coinvolse alcuni illustri protagonisti del Risorgimento. Un porsi di fronte alla boxe, da parte della nostra borghesia impegnata nella soluzione del problema nazionale, traducibile anche in una disputa tra idealisti e pragmatici sui mezzi – ideologici o corporali? – più utili a raggiungere l’indipendenza e l’unificazione del Paese. Non particolarmente favorevole a una sua diffusione fu il democratico e repubblicano Giuseppe Mazzini. In una lettera indirizzata dalla capitale britannica alla madre, il 29 maggio 1837 scriveva:

In questa Londra bisogna pensar due volte prima d’andar tra la folla. Il popolo, quand’ha un po’ bevuto, è un popolo di bestie: tutto gli fa ombra; e alla menoma cosa si mette in posizione per “boxer”, cioè dar de’ pugni. I pugni qui sono la pistola, la spada, la sciabola. Fanno i loro duelli a quel modo. È un’arte. Serbano certi patti, certe formalità come in ogni altro combattimento7.

Del resto, la ripulsa verso le pratiche di violenza popolari era largamente presente nel pensiero democratico, che semmai si poneva il compito di educare il popolo. Da qui questo Mazzini in qualche modo “aristocratico” e nostalgico del duello di antica impronta nobiliare, al quale fa da contrappunto Silvio Pellico, che, sul numero 96 del «Conciliatore», il primo agosto 1819, tessé le lodi del pugilato inglese. Ovviamente, ha notato Arturo Colombo, «può far sorridere pensare al trentenne Pellico, tutt’altro che aitante, atletico […] disquisire di boxing, di sparring e di corrette posizioni da combattimento, quando si tratta di tirar pugni… Eppure anche quella era un’occasione opportuna, o almeno un pretesto, per spalancare le finestre e lasciar intendere quanto di diverso, di più efficace e stimolante, avveniva fuori d’Italia»8. Scriveva dunque Pellico in Degli esercizj ginnastici e degli effetti che producono:

Il pugilato è un’arte in Inghilterra, come la scherma fra noi. Quando si fa assalto per giuoco, la mano è coperta da un grosso guanto imbottito di borra, e questo giuoco si chiama sparring; il vero combattimento è boxing. Spesso si vedono abilissimi professori esercitarsi nello sparring. I combattenti, nudi sino alla cintola, montano sopra un palco di 15 o 20 piedi in lunghezza e di 3 o 4 in altezza, situato nel centro della sala; ciascuno è seguito da un suo testimonio. Si pigliano la mano in segno di buona amicizia, come si fa il saluto tirando di spada; quindi si pongono in difesa, un piede innanzi, le ginocchia mezzo piegate, il corpo alquanto scorciato, le braccia parimenti scorciate, i pugni collocati all’altezza della faccia, e circa ad un piede di distanza. In questa attitudine i due emuli s’osservano occhio ad occhio; i colpi sono scagliati piuttosto che dati; il braccio piegato si stende tutto in un tratto quasi a molla, e porta innanzi il pugno dritto. È la prima falange che percuote: il colpo non è dato che a mezza forza; se è ben applicato, getta l’uomo a terra. Bisogna parare con un braccio o con una mano, e battere con l’altra, talora con ambedue alla volta, economizzare le proprie forze, non fare alcun movimento inutile, e sovra tutto non perdere lena, e ancor meno lasciarsi incollerire, ma bensì imparare ad essere impassibile sotto le più fiere percosse. Malgrado i guanti, vi si suole spargere sangue. I più famosi pugilatori non sono uomini di grande statura, ma di molta agilità, di grande freddezza di mente9.

Spiegata la tecnica, Pellico andava a concludere così il suo articolo: ciò che

riesce d’un vantaggio innegabile in simili esercizj di forza e di coraggio si è, che alimentano nell’uomo un dignitoso sentimento di sé stesso: sentimento che non è mai abbastanza generale nella società, giacché, dovunque esso manca, il debole innocente è vittima del provocatore malvagio, e il disonore di un pusillanime si rovescia spesso benché ingiustamente sulla patria a cui appartiene10.

Sostituisci a “provocatore malvagio” l’occupante austriaco, a “disonore del pusillanime” la passività degli italiani, e affiorano la modernità e il patriottismo di Silvio Pellico, capace di spaziare con pari dignità e competenza dalla politica all’economia, dalla letteratura al pugilato. L’Inghilterra, dove fioriva la boxe, doveva esser presa a modello per rigenerare fisicamente un popolo, non ancora una nazione, che doveva liberarsi dal giogo straniero: questo il vero senso da annettere allo scritto ospitato sul «Conciliatore». Nel contempo una delle prime fonti documentarie sulla “boxe scientifica” comparse in Italia.

Guido Gozzano dalla “Signorina Felicita” alla boxe

Entrati nel Novecento, fra i primi intellettuali italiani che mostrarono interesse per la boxe figura Guido Gozzano. Un Gozzano a cui, proprio questo tratto, conferisce una fisionomia assai diversa da quella che n’è stata quasi sempre proposta. Ovvero l’immagine crepuscolare del poeta delle “piccole cose di pessimo gusto”, debole e cagionevole di salute, morto a soli trentadue anni di “mal sottile”. A ben vedere le cose non stavano esattamente così. Fra le passioni di Gozzano vi era anche lo sport e, nella raccolta La via del rifugio (1907), si rinviene persino un sonetto (La Forza) dedicato alla lotta libera: «Bestialità divina, amico Mario, / quando affatichi i muscoli ben atti / e cingi e premi, ansando, e scuoti a tratti/ il torso dell’atletico avversario…»11. Dove però, in questo campo, diede il meglio di sé, fu quando indirizzò la propria curiosità verso il pugilato. Nello specifico fu autore d’una prosa in forma d’intervista (Boxing Club Torinese. L’Arte del pugno) apparsa sul «Momento» il 21 maggio 1911. Gozzano, attratto dalla novità e dal vitalismo che promanavano da un tale disciplina sportiva, volle conoscere di persona il pugile afroamericano James River che, fermatosi per qualche tempo a Torino, stava suscitando una inusitata passione nei confronti della boxe di cui teneva cattedra presso il locale “Boxing Club”. Questo l’abbrivio del suo brano:

- Come definireste la boxe, caro James Rivers? - La boxe – mi risponde il campione mondiale nel suo italiano franco-yankee - la boxe? Le plus court chemin d’un poing à un autre!... – E ride sonoramente, scoprendo i denti bianchissimi. È simpatico questo colosso di oltre mare; emana dal suo sguardo, dal suo sorriso, una dolcezza pacifica di fanciullo, che contrasta stranamente col suo corpo formidabile. Il professor James Rivers “corregge” da qualche tempo gli allievi del Boxing-Club torinese. - “Corregge?” E perché non insegna? – Perché la boxe non s’insegna. È un istinto innato che l’arte del professore deve modificare soltanto12.

Rapito dalla boxe Gozzano la contrappone al duello, considerandola più pratica, moderna e non classista:

Inutile ripetere ancora una volta l’illogicità della scherma, tradizione vana e convenzionale che abbandona, i due avversari al caso e p espone sovente ad una catastrofe irreparabile; la scherma non offre difesa personale […] Il pugno è ignobile, mi dirà taluno, e non ha gloria di passato; la spada è aristocratica e vanta una tradizione cavalleresca… Oh! Relativismo delle convenzioni estetiche e sociali13.

E insistendo nell’illustrarne l’efficacia proseguiva:

Oggi ammiravo lo scontro di due “boxeurs”; non parole, non rabbie convulse, non brutalità di percosse, ma la calma di due forze certe e consapevoli. Quanta nobile attitudine nella “guardia”, quale dignitosa semplicità nell’assalto! Tre colpi di un’esperienza secolare, annullano matematicamente i mille sperperi di energia, le mille possibilità inutili delle quali son vittime i profani. Il vinto è semplicemente ridotto all’impotenza o all’incoscienza durante il tempo sufficiente perché si calmi l’ira degli avversari; e quando si rialzerà non riporterà conseguenze gravi, perché la resistenza delle sue ossa è naturalmente proporzionale alla potenza dell’arma umana che l’ha colpito. La taccia di brutalità alla boxe è ingiusta14.

Infine, giungeva a questo bilancio complessivo: «Così è. Quando l’uomo è consapevole della sua forza, quando ha raggiunto con la robustezza del braccio la superiorità certa sul suo simile, allora diventa mite, indulgente, pacifico, buono»15. Con Gozzano la boxe stava allargando i suoi confini, facendo proseliti là dove era difficile immaginare potesse conquistarne. E ciò può dare un senso a qualcosa d’altrimenti pressoché inesplicabile. Il fatto che Pietro Boine, fratello del poeta Giovanni e primo campione d’Italia di tutte le categorie a Valenza Po il 10 luglio 1910, provenisse, giusto come il cantore della “signorina Felicita”, da una famiglia di poeti antiretorici, delicati e perciò apparentemente tanto più lontani da uno sport che della vigoria fisica faceva la sua cifra.

D’Annunzio, il boxeur “superuomo”

Gozzano a parte, l’intellettuale italiano che sdoganò compiutamente il pugilato dai pregiudizi violenti e volgari che lo connotavano, il primo a integrarlo nelle sue opere e a praticarlo seppur non agonisticamente, fu Gabriele D’Annunzio. Il solo vero poeta-sportsman del Paese, l’unico ad essersi servito dello sport nella costruzione della propria immagine mondana e guerriera.16 Nel suo dorato esilio francese ad Arcachon (1910-1915), essendo dovuto fuggire dall’Italia inseguito dai creditori, D’annunzio scoprì qualcosa di nuovo, rude, virile, muscolare: la boxe. E ne divenne subito un esteta alla Byron. Ovvero, non si limitò più soltanto a narrarlo come aveva fatto in un brano del romanzo (in cui si allude al mitico campione afroamericano Jack Johnson) Forse che sì forse che no (1910):

Sotto un portico violentemente illuminato udì un clamore di folla, uno scroscio di applausi. Alle mura e alle colonne pendevano immagini di pugilatori giganteschi in atto di combattere, seminudi, coi pugni armati di guanti enormi. Entrò in una vasta sala gremita, afosa di mille petti anelanti. Sopra un palco recinto di corde un bianco e un negro combattevano assistiti dall’arbitro. Ma non era un combattimento, era una carneficina disgustosa. Il bianco, già ridotto un cencio sanguinante, aveva le labbra lacere il naso pesto le palpebre gonfie tutto il ceffo disfatto; ma resisteva tuttavia con un coraggio inumano, sputando nel sangue ingiurie atroci contro il suo carnefice. Il negro ghignava dalla larga fauce piena di denti d’oro, e senza pietà scagliava contro la mascella dell’avversario il pugno infallibile. Facilmente egli avrebbe potuto con un urto dello stomaco abbatterlo in modo che non si rialzasse più; ma pareva ch’egli avesse un vecchio rancore da sfogare, una lunga vendetta da compiere. Il bianco era ormai stremato di forze; ed egli lo teneva in piedi, come se giocasse con un fantoccio, rimettendolo a piombo per la rapidità dei colpi alterni a destra e a sinistra. Tutto il palco era sparso di sangue. Le viscere della folla urlarono: - Basta! Basta! – I denti d’oro brillavano nel ghigno scimmiesco. Le guardie intervennero. Paolo Tarsis, che pure tante volte s’era appassionato a quegli spettacoli, uscì sconvolto, col cuore in gola. Si ricordava del giorno in cui egli e il compagno avevano assistito in Sidney, dai gradi d’un immenso stadio capace di ventimila spettatori, sotto la giovine luce, al pugilato supremo fra il negro Jack Johnson e Tommy Burns il canadese, finito in carneficina anche quello17.

Oltre a quelle di Johnson e Burns, a D’Annunzio erano note anche le gesta dello statunitense Sam McVea – tra i più forti pesi massimi degli inizi del XX secolo – oggetto come gli altri due di una citazione in Forse che sì forse che no: «Sai che perfino il re negro dei pugilatori Sam McVea si propone di volare?»18. Il passaggio dalla teoria alla prassi, dall’arte alla vita e viceversa, ossia dai pugni di carta del romanzo a quelli veri scagliati contro un punching-ball, ci viene invece attestata da un cronista del «Corriere della Sera» che, recatosi a intervistarlo ad Arcachon, lo scoprì ardente pugile e ne riportò i seguenti appunti:

Uno stranissimo oggetto accoglie il visitatore nel mezzo dell’anticamera. Nella penombra si direbbe una testa di Medusa sostenuta da un lungo stelo: per compiere l’illusione, il Poeta l’ha coperta di una fulva parrucca dalle trecce arruffate e ribelli. Edgardo Poe o Villiers de l’Isle-Adam sognarono forse uno strumento così fantastico. È semplicemente un “avversario” per la boxe: un pallone, dal gambo duttile infisso in un piede d’acciajo, contro cui si esercita la furia dei pugni, pronto a restituire un cozzo da caprone meccanico se il pugilatore non si schermisce rapidamente. Anche D’Annunzio è un seguace della boxe, l’unico esercizio fisico completo cui si possono dedicare i prigionieri delle celle urbane19.

Così avvinto dalla boxe, nel 1914 D’Annunzio accorse a Parigi richiamatovi dall’incontro che opponeva Georges Carpentier all’americano di colore Joe Janette. Un confronto dagli alti contenuti spettacolari, che indusse il pescarese a inondare il suo taccuino impressionistico di particolari, colori, suoni, emozioni tratti dal ring e dal suo animato contorno. Questo sì, un bell’esempio di letteratura sportiva ancor più che di giornalismo sportivo. Un testo di D’Annunzio che per lo stile essenziale, continuamente franto e depurato dai consueti barocchismi, verrebbe da dire “antidannunziano”:

Luna Park – Match Carpentier-Jeanette – 21 marzo 1914 – Equinozio di primavera – Luce rossa bianca e verde sul ring – Luce fantastica […] La carne giallastra dei boxeurs arrossata dai colpi – Il sangue che cola dalle ammaccature. Il massaggio ai deltoidi, alle costole, alle cosce. Il sudore che cola. Le costellazioni nella volta della sala. La spugna sul viso del boxeurs – Gli asciugamani che p sventolano – e che nell’ondeggiare si tingono del riflesso dei lumi […] Carpentier biondo, capelli lisci. Joe in una veste da camera verdastra – è color di bronzo nuovo – con una testa imperatoria. Prende fra i denti l’estremità della bandelette per fasciar la mano prima di mettere il guanto. Gli entraineur intorno guardano l’operazione diligente. Boxeur dalle orecchie deformate e schiacciate, dal naso rotto, dalle labbra fesse. Joe un poco calvo alla sommità del capo – Gli spettatori che masticano i sigari – Carp prendendo nei pugni le corde del ring fa flessioni su le gambe forti e snelle. Il fondo della luce è violetto. Prendono qualche sorso e lo rigettano. Al primo round Joe cade, si rialza. L’urlo della folla. Carpentier è disteso, quando lo massaggiano. Il mulatto è seduto come il pugile – alla fine d’un round, avendo dato l’ultimo colpo Carp sorride all’avversario – poi va – L’acqua cola su di lui – lo sventolio. Carp – quando gli danno l’acqua da bere, rigetta il sorso come una maschera di fontana – il corpo a corpo – i colpi sotto il mento – il rumore sordo – i corpi lucidi. All’uscita – Carpentier insanguinato – che passa a traverso la folla urlante20.

Il Gabriele D’Annunzio che stravede per il pugilato in Francia è già pronto per le “radiose giornate di maggio”. A scendere in campo, salire sul “ring” della Grande Guerra trasformandosi nel “poeta-soldato”. Anche a Fiume, tuttavia, non mancò di dar rilievo alla boxe inserendola nella “Carta del Carnaro” (8 settembre 1920), che imponeva ai suoi legionari d’addestrarsi «nel correre, nello spiccare salti; nello scagliar pietre; nel levare i pesi; nel fare i pugni»21.

Pugni futuristi

La passione per il pugilato non rimase una prerogativa del “Vate” D’Annunzio. Ammaliò anche la corrente futurista capitanata da Filippo Tommaso Marinetti. Fu il Futurismo a introdurre nell’orizzonte culturale italiano i concetti di velocità, record, agonismo, e densa di riferimenti all’energia, alla forza, alla potenza della boxe, simboli della modernità glorificata da Marinetti fu pertanto la febbrile esperienza del movimento. Già nel loro primo manifesto apparso a Parigi, su “Le Figaro”, il 20 febbraio 1909, la boxe, il “pugno”, trovavano una puntuale menzione: «La letteratura esaltò fino ad oggi l’immobilità pensosa, l’estasi e il sogno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno»22. Nel manifesto del “Teatro di varietà” (1913) si proclamava che questa forma di spettacolo offrisse «tutti i records raggiunti finora: massima velocità e massimo equilibrismo e acrobatismo dei giapponesi, massima frenesia muscolare dei negri […] massima forza comparata delle diverse razze (lotta e boxe), massima mostruosità anatomica».23 Il manifesto del “Teatro Futurista Sintetico”, apparso l’11 gennaio 1915, lanciava questo appello:

Aspettando la nostra guerra tanto invocata, noi Futuristi alterniamo la nostra vastissima azione anti-neutrale nelle piazze e nelle università colla nostra azione artistica sulla sensibilità italiana, che vogliamo preparare alla grande ora del massimo pericolo. L’Italia dovrà essere impavida, accanitissima, elastica e veloce come uno schermidore, indifferente ai colpi come un boxeur24.

Giunti all’11 maggio 1916, Marinetti pubblicò il manifesto su La nuova religione-morale della velocità e, al suo interno, tra i «luoghi abitati dal divino» inseriva «le città modernissime come Milano, che secondo gli americani ha il punch (colpo netto e preciso col quale il boxeur mette il suo avversario knock-out)»25. Una noble art a cui Marinetti, nelle sue provocatorie performance artistiche e poi nel suo interventismo duro e puro, aveva fatto sovente ricorso. Al riguardo, nel luglio 1915, scriveva la rivista «Lo Sport Illustrato e la Guerra»:

Nessuno scrittore italiano può, di certo, vantare un’attività sportiva pari a quella di F. T. Marinetti. Capo del piccolo ma ben agguerrito e forte stato maggiore futurista, ha sperimentato con assai frequenza, con grande audacia e anche buoni risultati, le virtù del pugilatore ed insieme di lottatore eccellente e temibile. Il ring era sempre una platea, un atrio di teatro, un caffè o una piazza e gli avventori erano i passatisti26.

Sempre Marinetti, con Bruno Corra, Emilio Settimelli, Giacomo Balla e Arnaldo Ginna figura tra gli sceneggiatori del film Vita futurista (1916). Pellicola che nel suo svolgimento contemplava delle sequenze imperniate sul pugilato, e in specie una “Discussione coi guantoni” fra Paolo Ungari e Marinetti27. Del novembre 1919 è infine il “Manifesto dell’ardito futurista”. Manifesto che al quinto paragrafo del suo “Programma lirico” recitava: «Imporre a pugni e pugnalate la bellezza di un’immagine originale»28.

La boxe in camicia nera: l’“effetto boomerang” di Vergani e De Céspedes

Benito Mussolini aspirava a creare «un popolo di cazzottatori», riteneva che il «pugno di Carpentier» procurasse «a milioni di francesi la stessa esaltazione gioiosa della vittoria della Marna»29, e quello di Erminio Spalla valesse più di «cento discorsi parlamentari»30. In conclusione, considerava il pugilato «un mezzo d’espressione squisitamente fascista»31. Retorica, slogan propagandistici, non v’è dubbio, ma pure metafore d’un disegno più studiato nel quale attraverso una disciplina come la boxe, nella quale Mussolini s’esercitava saltuariamente con un istruttore privato, si esaltavano alcuni elementi tipici del vitalismo e della cultura fasciste: la forza, l’audacia, il coraggio, il sacrificio32. Categorie che riassumevano le virtù fisiche e morali richieste al pugilatore, e le stesse con le quali il Partito Nazionale Fascista (PNF) vagheggiava di forgiare l’“uomo nuovo”. La boxe si coniugava al meglio con le concezioni “eroiche” del fascismo volte a valorizzare i culti del corpo, dell’ardimento, della disciplina: era uno sport “maschio” per definizione, di lotta e combattimento, che esprimeva appieno la volontà del regime di creare una “nazione sportiva” per farne una “nazione guerriera”. Una simile ideologia traspare in diverse opere letterarie d’ambientazione pugilistica apparse in quegli anni (Il cuore in pugno di Emilio De Martino, 1930; Pugilatore di paese di Marcello Gallian, 1932; Il campione della razza di Raffaele Romano, 1935)33, e tra queste le più ambiziose, ma dagli esiti controversi, al punto da venire in pratica ripudiate dai due autori, furono certamente Io, povero negro di Orio Vergani (inviato e firma di punta del «Corriere della Sera», famoso per i suoi reportage da inviato al Giro e al Tour, scrittore e commediografo d’indubbio talento), e Io, suo padre di Alba De Céspedes. Intellettuali di spessore, che cimentadosi con la boxe ne trassero però una sorta di effetto “boomerang”. Io, povero negro, pervaso da un sottile e ambiguo razzismo coloniale, apparve a puntate su «La Lettura» per poi esser dato alle stampe (e mai più ripubblicato nel secondo dopoguerra probabilmente proprio per questi accenti razzisti) nel 1928. Al centro della narrazione vi è il pugile senegalese Geo Byokin, pronto a vendersi al miglior offerente. Il classico “materasso” da immolare secondo una precisa messinscena. Un personaggio che sarebbe stato suggerito all’autore dalla vicenda di Battling Siki: il boxeur africano che, il 25 settembre 1922, a Parigi, avrebbe dovuto farsi facilmente abbattere – ma le cose andarono diversamente – dal beniamino di casa Georges Carpentier. Il ribaltamento di quel copione già scritto, con Geo Byokin nei panni di Battling Siki, induce Vergani a risalire alle origini del pugile venuto dall’Africa; lo spinge a calarsi nel sottobosco torbido della boxe. Nei termini suddetti egli scrive due storie in una. La prima, assolutamente suggestiva, è ovviamente quella sulla boxe tout court di cui merita offrire un assaggio:

Vivono i boxeurs in un mondo forsennato e paziente, come i pionieri di una nuova razza che un giorno invaderà il mondo, e stabilirà in mezzo ai crocicchi i rings, innanzi ai quali si farà la coda per poter salire. Ignorando del mondo ogni altra cosa che non sia la boxe, questo giro di pugni che ricorda le girandole di cucchiai segnalatori del vento sulle torri degli osservatori metereologici. Come gli uomini dall’udito finissimo incontrati nel barone di Munchausen, sdraiati sui prati primaverili, ascoltavano l’erba crescere, così ascoltano silenziosamente come i pugni crescano, nell’ombra calda del guantone, e passano le giornate a fasciarsi strette le mani col nastro gommato, come le piante alle quali è stato operato un innesto. Tutti gli altri problemi della vita sociale sono ignoti nel periodo di dieci anni della loro esistenza pubblica. Tutte le teorie del mondo civile non fanno presa sulla stoffa gommata degli impermeabili. Vivono un’esistenza immemore e innocente, e continuano vigorosamente gli allenamenti, anche se per le strade si scatenano le rivoluzioni34.

Il pugilato, quindi, come universo a sé. Non «metafora della vita» bensì «luogo unico, autoreferenziale» e mitico: un contenitore di quell’autoreferenzialità maschile e maschilista, così acutamente scavata dalla scrittrice americana Joyce Carol Oates35. La seconda storia è quella del percorso, fatto di cesure violente con le proprie radici e di spaesamento, compiuto da Geo Byokin dal Senegal all’Europa: un viaggio che Vergani conosceva bene, forte delle esperienze maturate da corrispondente dalle terre africane de «L’idea nazionale». Africa che, nelle sue pagine, trasuda di imperialismo colonialista, di “fardello dell’uomo bianco”. Byokin è, come dice il titolo, il “povero negro”, il “buon selvaggio”. Tutto muscoli e poco altro. Vergani giustifica senza rimorsi il diritto del fascismo “al posto al sole”, quel colonialismo civilizzatore che, di lì a sette anni, avrebbe condotto il regime all’invasione dell’Etiopia. C’è chi ha sostenuto che con questo romanzo un pugile dalla pelle nera entri per la prima volta nella letteratura italiana. Sì, è vero, ma come? L’atteggiamento di Vergani nei confronti degli uomini di colore è affine a quello che Antonio Gramsci imputò ad Alessandro Manzoni nei confronti del popolo: di tipo meramente benevolo. D’un paternalismo proprio di «una cattolica società di protezione degli animali»36. Un paternalismo che talvolta diventa pregiudizio e stereotipo razziale vero e proprio, come emerge esplicitamente in questo altro passo del romanzo:

Nel suo angolo, i tacchi appoggiati nei pioli della sedia, fingeva di guardare sul giornale. Misurava invece le spalle e le braccia del negro. Niente di eccezionale. Gli anni? Non si poteva indovinarli. Una statura da peso leggero, una delle solite teste rotonde da negro. Però, niente sangue incrociato: niente caffellatte. Nero assoluto. Un colore da sagoma di bersaglio. Per tutto il resto, come si fa a indovinare? Metà di questi ragazzi sono tisici, o diventano tisici in Europa. Soltanto il negro americano resiste a tutto, come le viti. Cosà potrà tirar fuori Tommy Burns, da questo pezzo di carbone? Quando è nudo deve tirar fuori tutte le costole. Deve essere un negro da farsi fischiare appena si presenta: da toccarlo col dito bagnato di saliva per veder se lascia il colore37.

Nel 1935, per l’editore Carabba, uscì Io, suo padre (con un palese ammiccare, perlomeno nel titolo, al volume di Vergani) della De Céspedes. Una “pioniera” nello scrivere di pugilato al femminile, che in questo romanzo d’esordio raccontava d’un padre-allenatore, Romolo, alle prese con il figlio Masetto, su cui egli proietta tutte le frustrazioni di ex pugile fallito. Masetto che, giunto ad aggiudicarsi il titolo dei medi, incappa in una femme fatale (Eva) che rischia di rubarlo alla boxe. Un canovaccio classico, quello della donna tentatrice, così come classica per Domenico De Maria è la rappresentazione del “femminile” resa dall’autrice. Ossia, apparendo anch’essa fortemente influenzata dallo «stereotipo culturale fascista», e con Eva che, «più volte nel testo, viene definita quale nudo corpo, bambolona poiché è la donna bella che pregiudizialmente appare perduta e ambigua». E la focalizzazione «del personaggio è talmente esterna» – aggiunge De Maria – che di lei «vengono caratterizzati solamente la bellezza e il corpo»38. Commercialmente il libro non andò bene. Tuttavia, rientrò tra le opere che il duce, stanziando 10.000 lire, decise di far acquistare dallo stato donandone numerose copie al sanatorio San Luigi di Torino. Inoltre, il fascismo lo selezionò per partecipare alle Olimpiadi dell’Arte di Berlino del 1936. La De Céspedes, non essendone stata informata, non poté neppure esprimere il proprio parere in merito, e in seguito rinnegò Io, suo padre. Che a sua volta negli anni a venire fu praticamente rimosso dagli studi condotti sulla sua produzione letteraria. La qual cosa è forse da collegare alle posizioni assunte dalla De Céspedes, perseguitata dal regime per le posizioni critiche assunte nei confronti della guerra d’Etiopia, che tese perciò a considerarlo un errore di gioventù. Una compromissione col fascismo su cui far calare il silenzio. Di Io, suo padre nel 1939 si ebbe una riduzione cinematografica diretta da Mario Bonnard, e la pellicola riscosse più fortuna del libro potendo contare nel suo cast anche su due autentici e noti pugili quali Erminio Spalla ed Enrico Urbinati39.

Un pugilato neorealista: Testori & Pasolini

Ora non c’è più che lo sport! La Guerra d’Africa, e lo sport! Non si pensa ad altro. Ma che cos’è poi questo sport? – Il Capitano cercò la parata. – Carnera, – rispose, – è campione del mondo. Il mercante si mise a ridere facendo tremare i bicchieri sul tavolo. – Il vostro Carnera, – disse, – è come Garibaldi […] Sono tutti trucchi. Carnera ha vinto perché era d’accordo prima. È proprio una specie di Garibaldi: la storia non cambia. Sui vostri libri di storia vi insegnano un mucchio di frottole, ma la verità è un’altra.40

Il brano è tratto da Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi. Un romanzo autobiografico uscito nel 1945 che chiudeva con un pezzo di storia: quella falsa scritta dal fascismo come le vittorie, spesso comprate, del campione del mondo dei massimi Primo Carnera41. Con questa metafora Levi demoliva un mito dello sport italiano gonfiato dalla propaganda mussoliniana. Era un cambio radicale di fase e il ritorno alla libertà e alla democrazia coincise con l’affermarsi nella cultura italiana della corrente neorealista. Il neorealismo si caratterizzò per una poetica tesa a rappresentare con sensibilità i travagli della società post-bellica. Le sue opere si soffermavano sulla complessa situazione morale, economica e sociale del Paese, riflettendo le trasformazioni avvenute nelle condizioni di vita e nei sentimenti, ma anche gli aneliti di speranza, riscatto, voglia di lasciarsi alle spalle l’esperienza del Ventennio. Ebbe un grande rilievo, soprattutto in campo cinematografico, trovando però delle ostilità nel potere politico e in particolare in Giulio Andreotti42. Per l’esponente democristiano il neorealismo offriva una rappresentazione troppo cruda, disfattista della realtà italiana. Ripensando a queste polemiche e al loro provincialismo, si fa strada l’idea che il pugilato d’allora, più del ciclismo di Coppi e Bartali, abbia raffigurato efficacemente nello sport quell’Italia neorealista. Un pugilato di eroi proletari dal viso semplice, genuino, segnato dai pugni. Campioni di periferia d’una disciplina che doveva redimerli dalle ristrettezze e dalla marginalità. Fu questo humus a fare della boxe uno sport d’estrema popolarità. Popolare in un senso duplice. Per il grado di grande passione e interesse che suscitava nell’Italia uscita dalla guerra; e popolare per il tratto sociologico di chi aspirava a diventarne un protagonista. I due intellettuali che seppero rendere magistralmente questa stagione della boxe italiana furono Giovanni Testori e Pier Paolo Pasolini. Scrittori e critici apparentemente vicini e allo stesso tempo assai lontani con in comune una grande passione per il pugilato43. Fulvio Panzeri, ricostruendo l’universo antropologico della commedia umana testoriana, l’ha così ben tratteggiato: la sua Milano era «quella terra di nessuno che si estende appena fuori dalle officine di Sesto, di Niguarda e della Bovisa», fatta di «palestre, ring, campioni, boxeur, boy del “Fabbricone” e delinquenti, prostitute e donne deluse, sogni infranti e piccole gelosie, storie da “Crimen” o interni di “Box e Atletica Aurora”, rabbie strette fra i denti o crudelmente vendicate nella notte nera»44. E a sua volta Testori, in un intervento su «Epoca» nel 1989, offrì questi elementi utili a comprendere il suo approccio alla letteratura:

Giravo per le strade, per i marciapiedi, nei giardinetti tra la Stazione Nord e il Castello. Parlavo con i poveri disperati, le prostitute, gli omosessuali che vagabondavano lì attorno. Sentivo i loro discorsi, poi andavo al bar e p mettevo giù su quadernetti. Anche Pasolini faceva la stessa cosa, prendeva il materiale dalla gente disperata […] Andavo nelle palestre di boxe. Seguivo le corse ciclistiche. Mi innamoravo, vivevo come i miei personaggi45.

I puntuali riferimenti agli “strumenti del mestiere” di Pasolini simili ai suoi; l’identica fascinazione per le estreme periferie urbane (Milano – Roma), per la loro vitale sensualità popolana; l’omosessualità differentemente vissuta e sofferta, portano d’acchito a un confronto tra il letterato milanese (Testori) e il poeta-cineasta furlan-bolognese trapiantato nella capitale (Pasolini), anch’egli assai sensibile al richiamo dello sport. Due intellettuali estremamente attenti alla “poetica delle passioni” e allo sperimentalismo linguistico-dialettale: per la peculiare cifra stilistica che p contraddistingueva vennero definiti, in compagnia di Alberto Arbasino, i “nipotini di Carlo Emilio Gadda”. Entrambi elessero a proprio maestro Roberto Longhi, e sulla sua rivista, «Paragone», a cui collaborarono intensamente, Pasolini pubblicò col titolo di Ferrobedò un’anticipazione di Ragazzi di vita (1955). Un romanzo accostabile a Il dio di Roserio (1954), l’opera prima di Testori ambientata nel mondo del ciclismo di provincia. E alla morte violenta di Pasolini (1975), sarà Testori a subentrargli al «Corriere della Sera» portando avanti su quelle colonne, con grande afflato morale e religioso, l’impegno civile e laico che il primo gli aveva conferito con le sue Lettere luterane e gli Scritti corsari. Con ciò, all’interno di biografie tanto ricche e complesse, lo sport apparve ad ambedue una delle modalità attraverso cui volgere uno sguardo nuovo sulle realtà di confine. Sull’umanità che vive ai margini. E se Testori scelse dapprima come riferimento il ciclismo e Pasolini amò/pratico sempre visceralmente il calcio, a metterli d’accordo fu la boxe. Il suo milieu proletario, torbido e malandrino. Nel caso di Testori la consonanza col pugilato (ravvisabile oltre che nelle molteplici atmosfere confluite nel film di Luchino Visconti Rocco e i suoi fratelli, anche in diverse opere pittoriche, precorrendo Renato Guttuso46, dedicate a questo sport ed esposte alla Galleria “Galatea” di Torino nel 1971)47 la si ricava dal racconto Il ras (parte prima) della sua raccolta Il Ponte della Ghisolfa (1958):

“Ha inizio la sesta ripresa”. Non s’è sbagliato: la viltà di Duilio procedeva nel suo piano delittuoso. L’accanimento con cui cercava di scoprir la sua guardia e di colpirlo alla testa, sempre nel punto della ferita, non lasciava dubbi. E quando alla fine, dopo una serie di tentativi andati a vuoto, c’era riuscito lacerandogliela di nuovo gli aveva fatto: “Hai visto come si fa? Hai visto? E adesso molla. Molla”. Non aveva ceduto nemmeno al crescere del dolore, e delle difficoltà. Dopo un secondo d’esitazione, di cui il Morini aveva approfittato per metterlo alle corde, s’era ripreso e accecato dal dolore del corpo e dell’anima com’era accecato dai fiotti di sangue, l’aveva assalito con un forcing esatto ed inesorabile: una tempesta di pugni nel quale la forza del pugile pareva comandata dallo sdegno del sangue. Su quel forcing in cui il Morini aveva cominciato a vacillare, il pubblico, cambiando senza nessuna esitazione di parte, s’era scatenato in un urlo orrendo e gioioso: “Dai! Giù! Giù!, che il ras comincia a tremare! Giù che il signorino morde la terra! Giù!” da quel momento non gli aveva lasciato respiro. E quando alla fine la giuria era stata costretta per evitare il peggio a emettere un giudizio di parità e perciò a dichiarare il match nullo, un sibilo di fischi s’era scatenato nella sala, così violento che gli applausi per quanto forti eran rimasti sommersi. “aveva resistito”, s’era detto mentre gli mettevan addosso la vestaglia e sul ring tra giudici, presidenti e secondi, l’atmosfera tentava di farsi da ostile e rabbiosa, falsamente ammirata. “Questo era quello che importava. E aver resistito in quelle condizioni contava più d’una vittoria. Il resto l’avrebbe fatto vedere alla ripetizione dell’incontro”. Ma l’incontro non era stato ripetuto48.

Per i pugili di Testori calzano a pennello le medesime argomentazioni di cui si servì Elio Vittorini nel redigere il risvolto di copertina de Il dio di Roserio: essi esprimevano la «grande carica di vitalità animale» degli «uomini, indipendentemente da ogni scopo»; facevano avvertire che «razza di calore animale, di afrore animale, possano ancora mettere fuori»49. Un vitalismo realistico che, riprendendo quasi da dove si era interrotto ne Il Ponte della Ghisolfa, riaffiora ne La Gilda del Mac Mahon (1959) nella parte intitolata Dopo il match:

Che il Morini fosse seduto lì, appena, appena oltre il ring, il Cornelio s’accorse nell’intervallo tra il terzo e il quarto round, più che vederlo ne sentì gli occhi cadergli addosso con la stessa, cupa, ostinata violenza della sera ormai lontana in cui era entrato per la prima volta nel “Box e Atletica Aurora”; allora assieme a una vampata di rabbia, sentì subito un bisogno furioso d’esacerbar la vittoria verso cui era stato avviato. Malgrado, in obbedienza agli accordi prestabiliti, i secondi gli consigliassero di non incrudelir troppo sul rivale e di lasciarlo arrivar in piedi alla fine del combattimento, il Cornelio proprio in quel momento decise di cercar il colpo definitivo. Fu così che combatté nelle riprese successive e con una ferocia di cui la sua classe, superiore di troppo a quella del rivale, gli permise di godere come d’una vendetta che andava via via infliggendo, non al pugile che gli stava di fronte, ma dell’ex amico e protettore che gli stava di lato. Quando però il destro, portato da brevissima distanza, giunse a segno e lo sfidante crollò a terra e a terra, nell’urlo tra gioioso e orrendo della folla, rimase ben oltre il conteggio dell’arbitro, il Cornelio provò una sensazione improvvisa di spavento e di paura; spavento e paura che crebbero e si dilatarono quando, subito dopo, nel voltarsi per andar all’angolo, farsi levar i guanti e mettersi la vestaglia, i suoi occhi s’incontrarono con quelli di Morini50.

Pasolini si calò nel pugilato con un racconto, Storia burina, pubblicato nel 1965 in Alì dagli occhi azzurri. La storia si sviluppa a Roma, al Testaccio, dove si pratica la macellazione clandestina (“L’ammazzatore”). Il protagonista, Romano, inizia a lavorarvi per poi venire avviato alla boxe, e a lui, nella vita, nelle relazioni, s’oppone un altro giovane che si chiama anch’egli Romano, già da tempo pugile con buoni risultati. L’omonimia rischia di confondere, tanto che è necessaria una distinzione: «Chiameremo per chiarezza Romano il Burino il primo, Romano il Paino il secondo» spiega Pasolini51. Parte di un sottoproletariato che sopravvive d’espedienti, piccoli furti, la loro esistenza scorre parallela, pronti a sopraffarsi reciprocamente. In breve Romano il Burino, che viene da fuori, da delle periferie ancora più estreme, prende ad allenarsi con impegno: «La palestra è giusto dall’altra parte dei casoni della soluzione finale, una casetta sull’antichissima strada del ‘600 o dell’800 miserabile, che stringe in un anello di baracche e muriccioli sbrecciati il monte dei Cocci, lungo l’Ammazzatore. Da lì sono usciti i campioni di Roma. A Romano la stella del campione brilla in fronte». Sono i luoghi che Pasolini conosceva bene e su cui si era già soffermato con Ragazzi di vita e Una vita violenta; e in queste realtà abbandonate anche le vite pugilistiche dei due Romano, sbrecciate come quelle in cui agiscono quotidianamente, prendono a incrociarsi:

Vanno sempre in palestra. Il primo è ai suoi primi incontri, che sono tutte vittorie. Il secondo che di vittorie vecchie è pieno come di ricci, sta per portarsi via il campionato laziale, ma si sa che chi non ha carità non ha né fede né speranza; e chi non ha né fede né speranza non ha vittoria (ma le vittorie con la fede passano, le vittorie senza fede restano, e costituiscono l’intera vita)52.

Finché una notte il Paino, dopo essersi visto portar via la fidanzata (Nadia) dal Burino ed esser stato licenziato dal padrone, per vendetta deruba il Burino scippandogli anche la motocicletta che si è comprato faticando al macello. Tutto così si complica tremendamente: «e il bello è che da lì a qualche giorno Romano il Burino e Romano il Paino avrebbero dovuto incontrarsi alla Romana Gas, in un match decisivo, in fondo, per tutti e due: perderlo, per il Burino, voleva dire addio al diritto di considerarsi un vero Dio, per il Paino voleva dire compromettere i campionati, screditarsi come Dio». Un “Dio” che rimanda, come sottrarsi a questa suggestione, a quello testoriano di Roserio. Tuttavia, «contrariamente alla violenza del combattimento, che è il combattimento di due nemici che si odiano per ragioni che sanno loro due, la vittoria è ai punti. Questi punti sono per Romano il Paino, che si batte con una eleganza che fa rabbia: il serpente vince il toro. Tiene alta la sua stella, offusca quella dell’avversario nascente»53. Che siano boxeur o ciclisti si tratta sempre di vittime. E mentre la resa dei conti s’avvicina, Pasolini concede catarticamente una rivincita al Burino. Un secondo combattimento col Paino, al macello, in cui la borsa in palio è Nadia. Fuori dal ring, senza regole: «L’incontro non era finito la sera prima! Il sangue di Romano il Paino, quello del naso e delle gengive, e del sopracciglio, brilla fresco sul sangue vecchio delle bestie, una goccia di sangue rosso, su una bandiera di sangue nero, senza guantoni, senza gong, è il Burino che fa la rapina, come Caino»54. Infine, proponendo una sua spietata “morale” provvisoria, Pasolini conclude così il suo apologo pugilistico:

Ora lì, all’Ammazzatore, ormai il più forte è lui; ormai del burino non ha più niente. Ha imparato veramente tutto quello che doveva imparare, è diventato un ragazzo del Testaccio. Come il Paino, che è stato il modello del mondo che ha conquistato come in un romanzo, è incosciente, sprezzante, ironico, crudele, allegro, pigro, spietato, spiritoso, carogna, cattivo. Si è aggiunto al Paino, l’ha ripetuto e l’ha sostituito, come un figlio il padre […] sa fare il balordo e l’umano55.

Testori e Pasolini, due voci d’intellettuali fuori dal coro, furono come poli che si attraggono e respingono in continuazione. E giusto nel pugilato dei vinti e dei marginali trovarono un terreno comune in cui poter esprimere la propria forte, personale, idea di letteratura.

L’intellighenzia nemica di Benvenuti

Nel suo momento migliore, quello dei tre leggendari incontri mondiali con l’afroamericano Emile Griffith (1967-’68), a fronte di una folta schiera di apologeti, Nino Benvenuti annoverò anche una selezionata schiera di critici, alcuni dei quali insospettabili appartenendo al Gotha culturale italiano. Su tutti svettano Eugenio Montale e Pier Paolo Pasolini. Un premio Nobel della letteratura e uno degli intellettuali più noti e scomodi del secondo dopoguerra. Montale amava il pugilato e in un’intervista concessa a Lamberto Artioli, che sul «Corriere della Sera» conduceva un’inchiesta sui rapporti tra cultura e sport, il 2 dicembre 1975 si produsse in questo elogio di Muhammad Ali: «È un grande atleta che sa anche danzare sul ring. Ma non vorrei prendere un suo pugno», aggiungeva scherzandoci sopra. Con ciò, per Benvenuti non nutriva altrettanta simpatia. Membro della Giuria di un premio letterario tenuto a Campione d’Italia, nel marzo 1968 chiese all’hotel di cui era ospite di poter avere una camera con apparecchio televisivo. La sua richiesta era dettata dal desiderio di assistere al mondiale tra Benvenuti e Griffith. Non voleva assolutamente perderselo e durante l’incontro «sembrava che desse pugni a Nino Benvenuti. Lui, ebbe a ricordare Cesare Rimini, non teneva per il grande italiano, ma per il pugile di colore Griffith, perché nato più povero e sfortunato»56. Una nobile faziosità, per chi gli appariva se non più debole – e non era certo il caso di Griffith – perlomeno portatore di una condizione sociale di partenza sfavorita. Anche Pasolini era profondamente attratto dal pugilato: l’aveva dimostrato con la sua Storia burina e si era preso persino la briga di provarlo. Ettore Garofolo, uno degli interpreti del suo film Mamma Roma (1962), affermò in proposito: «Ricordo che praticava la boxe. Lo so perché io già combattevo quando recitai in “Mamma Roma”: sono l’ultimo figlio di una famiglia di due sorelle e cinque fratelli, tutti pugili. Più tardi, all’età di diciotto anni diventai campione italiano dei pesi welter. Pasolini veniva spesso a mangiare da mio padre, “da Guerrino” a via della Lungaretta, sì, fu anche pugile»57. Così, in occasione delle Olimpiadi romane del 1960, avendogli il settimanale comunista «Vie Nuove» proposto di tenere una rubrica sui quei Giochi, egli si occupò ripetutamente di boxe, rese onore al campione olimpico Francesco Musso senza però concedere nemmeno un rigo a Benvenuti. Un’omissione inspiegabile, per il momento. Che diventa invece trasparente quando la polemica e il suo tifo anti-Benvenuti si paleseranno essere di natura ideologica. Siamo nel gennaio 1969, e sul «Tempo» Pasolini rese apertamente pubblici i motivi della sua avversione che in parte coincidevano con quelli di Montale:

Non riuscivo a spiegarmelo. Nei giorni dell’incontro tra Nino Benvenuti ed Emile Griffith, io tenevo per Griffith; e fin qui è tutto normale. Sono naturalmente per i negri contro i bianchi (anche se tra i bianchi ci sono tanti negri). Ma come spiegarmi quella certa, misteriosa antipatia per Benvenuti, che mi facilitava il mio tenere per Griffith? Appena Benvenuti ci è apparso sulla scena della notorietà, quella sua testa nera con la nuca a punta, quella scriminatura malandrina, quella cert’aria, nel viso, tra bebè e gagliardamente gaglioffa, non potevano che essere gradevoli. Poi piano piano si è fatta luce in me quella certa misteriosa antipatia, che si è trasformata in una sorta di fastidio, di ripugnanza: quella che si prova contro la volgarità. Anche nel match con Don Fullmer, è stata la stessa cosa. Tenevo per il mormone contro il cattolico. E anche qui la volgarità (non ancora divenuta in me cosciente) di Benvenuti mi facilitava il tradimento nazionale […] Ma ora tutto si spiega. Leggo su l’ultimo numero de “L’Espresso” che il ritratto di Benvenuti è apparso alla parete nelle sezioni del Movimento Sociale Italiano, e che egli stesso è stato consigliere missino nella sua città. C’è un destino nelle ideologie58.

Da inconscia, l’antipatia di Pasolini si era materializzata in qualcosa per lui d’estremamente concreto: mai e poi mai avrebbe potuto riconoscersi in un simbolo del MSI, il partito neofascista che rappresentava nel Consiglio comunale di Trieste. La sua presa di posizione scatenò una serie di reazioni piccate, tra cui molte lettere di protesta, costringendolo a una replica sul «Tempo». Replica che si concludeva così:

L’Italia oggi non esprime una sua cultura. Essa è provincia. Una lontana provincia europea, intenta al suo nascente benessere, e macinante vecchie beghe […] Non è questione dunque del buon nome dell’Italia, ma della realtà. La ragazza che mi ha scritto la qui trascritta lettera è una ragazza intelligente. Può dunque capire come ci si debba augurare che Benvenuti perda il prossimo incontro e tutti gli incontri futuri, che la Nazionale italiana si imbatta in una serie di fatali Coree, e così via: in modo che non ci si aspettino più, una volta per sempre, delle false consolazioni a bassi salari59.

La misura era colma e in difesa di Benvenuti salì sul “ring dell’Arcadia” lo scrittore Giovanni Arpino che, inaugurando la sua rubrica “Specchio della domenica” sul quotidiano «La Stampa», lo attaccò duramente:

Le parole di Pasolini, patetiche e paradossali, appartengono a un vocabolario che di volta in volta scarica sullo sport tonnellate di interpretazioni capziose, quasi che lo sport fosse soltanto un ingannevole evasione, spregevole diversivo, il solito oppio dei popoli, e non una attività, non un crocevia di tecniche diverse e importanti, talora quasi una scienza. Usare lo sport come bersaglio è arma vecchia, e argomentazione qualunquistica, tipica presso certa sociologia avventata60.

Tacciato di qualunquismo, un’accusa indigeribile per Pasolini, egli pose fine al botta e risposta scaturito dalla sua avversione per Benvenuti con queste secche battute mutuate dall’Umberto Eco di apocalittici e integrati: «Arpino mi dice che lo sport è lo specchio di una società: come tale rispecchia una realtà, che va accettata; ma io, sia pure con tutta la dolcezza del mio carattere, sono un apocalittico, caro Arpino! Una realtà del genere non l’accetto, e tanto meno dentro lo specchio»61. Sempre Pasolini, avrebbe voluto inserire Carlos Monzon, il “giustiziere” di Benvenuti, nel cast del suo film Il fiore delle mille e una notte (1974). A colpirlo era stato il suo volto da indio:

Sfogliavo, molto rapidamente, come ho l’abitudine di fare, i quotidiani, quando mi fermai di colpo - confesserà -. Tornai a voltare i fogli all’indietro, qualcosa mi aveva colpito: un viso. Uno di quei visi, quelle facce che mi interessano, che metto nei film. Non sapevo chi fosse. Lessi: un pugilatore, il prossimo avversario di Benvenuti. Allora Monzon era ancora uno sconosciuto. Così è avvenuta la mia scelta62.

Monzon avviò una trattativa commerciale: pretendeva per recitare nella pellicola pasoliniana 15.000 dollari più 500 di diaria. Sembrava possibile trovare un accordo, ma al dunque non se ne fece niente. Per quanto riguarda Benvenuti, nell’autobiografia data alle stampe nel 2001 non negò la sua adesione al MSI rendendo la seguente testimonianza:

Nel 1964 ebbi la mia prima e unica esperienza politica. Trieste votava per cambiare l’amministrazione comunale [..] Alfio Morelli e altri amici mi chiesero di accettare la candidatura con il Movimento Sociale Italiano. Conoscevano la mia storia di profugo istriano e le mie simpatie per quel partito. Per me quella fazione rappresentava la voce più attiva e solidale a favore di coloro che, come me, avevano lasciato l’Istria e rinunciato alle proprie radici […] Non feci campagna elettorale: il mio nome compariva solo nella lista dei candidati […] Risultai il primo nella lista dei non eletti. Fui ugualmente soddisfatto. Avevo in ogni caso fatto qualcosa per indirizzare gli elettori verso il mio schieramento e questo mi bastava. Il risultato raggiunto mi permise di entrare in Consiglio Comunale in seguito alla defezione di un candidato63.

In un altro frangente si aprì con Goffredo Buccini del «Corriere della Sera» dichiarando:

Ricordo di quando andai in America con Griffith e mi raggiunse Arturo Michelini…Mi disse, Nino, vinci per te e per l’Italia! […] Michelini era un grande sportivo, adorabile, mi voleva bene, ma pur standomi così vicino non ha mai cercato di usarmi per il partito… Almirante l’ho conosciuto poco64.

Per inciso, Michelini e Giorgio Almirante furono i due segretari del MSI a cavallo degli anni ’60 e ’70. Dal governo “Tambroni” (1960) alle bombe di Piazza Fontana a Milano (1969). Un tale schierarsi politicamente gli costò numerose contestazioni. La più clamorosa in occasione del mondiale con Don Fullmer. A Sanremo i giovani del “Movimento Studentesco” di Mario Capanna replicarono le proteste inscenate alla prima del Teatro alla “Scala” di Milano il 7 dicembre 1968. Da un lato presero di mira lo spreco vistoso delle signore-bene impellicciate, colpite da un lancio nutrito di verdure e uova di marce65. Dall’altro Benvenuti, noto per il suo orientamento destrorso e per gli alti guadagni: «”Cinquantamila lire è il salario di un operaio”, recitava uno dei cartelli esposti dai manifestanti»66 in cui si denunciava il prezzo esorbitante dei biglietti d’ingresso all’. “Ariston”; e «l’Unità», sfruttando l’accaduto, enfatizzò così gli scontri seguiti alla protesta: «Poi improvvisamente la carica. I sacramentali squilli di tromba hanno in realtà sancito il pestaggio al quale gli agenti hanno dato inizio con violenza inaudita […] i poliziotti si sono scatenati senza pietà»67. Qualche anno dopo fu il giornale «Lotta Continua» a fare di Benvenuti un proprio bersaglio. «Monzon gli ha fatto una faccia da schiaffi – scriveva ironicamente – e lui ha dichiarato che smette con la boxe anche perché “ci sono cose più importanti da fare”. Niente di più facile che l’MSI gli offra qualche posto di responsabilità in una squadra di picchiatori»68. Sempre nel caldo 1968, a settembre, divampò un’altra polemica che non vedeva direttamente protagonista Benvenuti ma che confermava quanto il pugilato appartenesse all’immaginario neofascista. Il MSI fece un’interpellanza parlamentare contro la RAI, colpevole di denigrare il pugilato con la fiction Il mestiere di vincere che aveva per principale interprete Nino Castelnuovo. La cosa stava assumendo una brutta piega, e con un atto censorio dello stesso direttore generale della RAI, il democristiano Ettore Bernabei, furono imposti dei tagli al regista Gianfranco Bettetini e allo sceneggiatore Giorgio Cesarano, che in gioventù era stato un volonteroso boxeur69.

Bianciardi versus il “ballerino” Benvenuti

L’ostilità della cultura di sinistra nei confronti di Nino Benvenuti si percepisce anche, se non soprattutto, dagli interventi tutt’altro che benevoli dedicati al suo modo di far pugilato da Luciano Bianciardi. Il quale, già il 23 maggio 1952, su «La Gazzetta di Livorno», aveva mostrato il proprio interesse per la boxe firmando il brano Mosca, piuma, gallo70. Bianciardi, l’anarco-individualista dalle idee sempre controcorrente, dal settembre 1970 al novembre 1971 collaborò al «Guerin Sportivo» sostituendo Gianni Brera – divenutone il direttore – nella rubrica delle lettere, e in questo ruolo, da antibenvenutiano più umorale che politico, si distinse per i colpi anche “sotto la cintura” portati al boxeur istriano. Il 26 ottobre 1970, rispondendo a Tullio Del Vivo di Anzio, esordiva con la seguente invettiva: «Benvenuti non mi piace, come pugile. Mi va benissimo come attore e magari anche come ballerino»71. Concetti ribaditi il successivo 2 novembre al lettore catanzarese Pietro Carella: «Nino Benvenuti è un ballerino di Trieste che fa il pugilato»72. Par di comprendere che l’insistenza su quel “ballerino” discendesse dall’attribuirgli un atteggiamento pugilistico poco virile. Che, cioè, gli rimproverasse una scarsa combattività mascherata dalle qualità schermistiche. Nodi, secondo Bianciardi, venuti al pettine nel primo terribile incontro con Monzon da cui trasse queste riflessioni:

Egregio signor Jaeger, no, non rido, ma riconosco che Benvenuti si meritava ampiamente di cadere, come dicono al mio paese “sur un monticino di cazzotti”. Era troppa la sufficienza del giovane ballerino di Trieste. Prima o poi avrebbe trovato un mestizo disposto a picchiarlo, no? Ma non me ne rallegro, e fanno male quelli che se ne rallegrano. Oltre tutto, a Trieste sono nati alcuni grandi scrittori73.

Ormai noto agli affezionati del “Guerino” per questa idiosincrasia, il 15 marzo 1971, ribattendo a Marcello Turrini che lo accusava di odiare «Benvenuti, il più grande pugile che ha avuto l’italia», l’autore della Vita agra (1962) continuava a non smentirsi affermando senza peli sulla lingua che «Nino Benvenuti non è il più grande pugile che abbia avuto l’Italia. Mazzinghi era superiore. Loi l’avrebbe battuto alla seconda ripresa. Non le dico che cosa avrebbero fatto, di lui, Spoldi e Tamagnini. Benvenuti ha il merito di essere bello, fotogenico, adatto ai film western, capace di mettere in fila venti parole connesse, elegante fra le corde»74. Un giudizio severo ma in tutto e per tutto in linea con la sua proverbiale vis polemica. E stimolato da Licio Angarotti, il 3 maggio 1971 Bianciardi s’espresse pure in relazione al Benvenuti politico, dimostrando nell’occasione l’onestà del prioprio pensiero e di aver chiaramente intuito la china che aveva ormai preso la carriera del pugile allenato da Libero Golinelli:

Carissimo lettore, ti rispondo molto volentieri, anche perché tu mi permetti indirettamente, di replicare a diversa gente (di solito anonima) che mi accusa d’essere contrario a Nino Benvenuti per le idee politiche che professa. Ti assicuro che ignoro per quale partito voti Benvenuti, e non mi interessa di saperlo, perché sono fatti suoi. Continuo però a dire che Nino è un pugile mediocre, anche se elegantissimo, affascinante, loquace. Ma mandarlo di nuovo allo sbaraglio contro Monzon mi sembra di sicuro una grave irresponsabilità. Non so fino a che punto il CONI e la Federboxe abbiano l’autorità per intervenire contro allenatori, amministratori, e contro Benvenuti stesso75.

Coerente sino in fondo, Bianciardi esternò nuovamente la sua opinione su Benvenuti il 21 maggio 1971 quando tal Egisto Facchi gli chiese di stilare una classifica dei migliori boxeur italiani d’ogni epoca. Graduatoria, molto soggettiva e ovviamente opinabile, nella quale mise così in fila i suoi pugili preferiti: «1) Spoldi, 2) Loi, 3) Locatelli, 4) Bernasconi, 5) Venturi, 6) Proietti, 7) Arcari, 8) Urbinati, 9) Bosisio, 10) Mazzinghi, 11) Orlandi, 12) Jacovacci, 13) Mitri, 14) Carnera, 15) Burruni e finalmente – concludeva – il nostro beneamato Benvenuti»76. L’ergersi a “Bastian contrario” del toscano era stato stavolta irrefrenabile, lasciando francamente interdetti. Relegare Benvenuti addirittura in sedicesima posizione non poteva esser interpretato se non come una solenne provocazione. Ne consegue, che Bianciardi gradisse in particolare i pugili dalla mano pesante (alla Monzon, appunto). E una tale propensione trova conferma nella sua dichiarata simpatia per il duro, ma perdente, Sandro Mazzinghi:

Per la faccenda di Benvenuti – rispondeva all’attore Gastone Moschin – non siamo però d’accordo, e cercherò di spiegarglielo con la poca pratica che ho di pugilato. Io non sono campanilista, anche se sono toscano […] Non mi tocchi però Sandro Mazzinghi: lo so quel giorno ne prese di brutto, ma io rammento quel che mi disse alla fine, ed era sincero: “Io perdo perché non sono un birbone”. Lei sa cosa vuol dire? Lei vide l’incontro? I colpi di Benvenuti erano sempre al limite estremo della correttezza, e qualche volta la valicavano. Benvenuti era elegante, Mazzinghi eroe. L’uno combatteva danzando, l’altro a guardia scoperta, picchiando duro e beccando duro. Io sto dalla parte di chi picchia, anche se perde77.

Bianciardì era così, prendere o lasciare. Mazzinghi, pur non capendo per sua stessa ammissione granchè di boxe, gli era entrato nel cuore perchè lo considerava «il più strenuo (mi permetto l’aggettivo), il più gladiatorio»78. Ossia l’esatto opposto di Benvenuti, troppo tecnico, troppo bello e neoborghese per i suoi gusti da ruvido “buttero” maremmano.

L’abolizionista Carlo Cassola

Negli anni ’70 sulla boxe italiana si addensarono dei nuvoloni minacciosi. Il rischio della morte aveva sempre fatto parte delle sue possibilità, e fin dalle origini si discuteva della sua liceità proprio in ragione di questo rischio. Molte tragedie, da Piero Boine – deceduto il 28 gennaio 1914 a seguito dei colpi ricevuti da Eugenio Pilotta – in avanti, si erano succedute anche in Italia. Nel “tricolore” dei pesi welter tra Pietro Mascioni e Romolo Parboni, tenuto a Genova il 19 maggio 1923, Mascioni battendo pesantemente la testa sul tavolato andò in coma senza più uscirne. Il 6 ottobre 1928, a Firenze, nel corso del campionato italiano dei pesi mosca Enzo Cecchi perse la vita nella battaglia sostenuta con Giovanni Sili. Lo stesso anno, a Milano, fu il peso medio Olivieri a morire nell’incontro con Vittorio Livan. Il 21 aprile 1943, a Roma, il welter Emor Perticaroli non sopravvisse al match con Domenico Di Stefano. Il 22 febbraio 1947, a Ginevra, il piuma Federico Cortonesi affrontando Georges Vignes subì una commozione cerebrale, e perì il 23 dicembre 1947. Nella capitale, l’11 marzo 1948, al welters Franco Loy riusci fatale il match con Ferdinando Jannilli. A Lisbona, il 19 settembre 1948, finì i suoi giorni l’altro welters Gino Verdinelli, impegnato col campione europeo Robert Villemain. Nel 1949, quando sul tema si pronunciò anche il presidente del CONI Giulio Onesti con un articolo sulla «Rivista di Diritto Sportivo»79, fu la volta di Enrico Bertola, spentosi combattendo negli Stati Uniti. Grande commozione suscitò il decesso a Colonia, il 12 giugno 1968, di Jupp Elze, ucciso dai pugni di Carlos Duran nella difesa del titolo europeo. La Chiesa per prima aveva demonizzato la boxe80 (e pure don Lorenzo Milani non si sottrarrà a questa damnatio: «Ho saputo che in una parrocchia vicina un parrocco ha assistito con tutti i suoi giovani a un incontro di pugilato trasmesso dalla TV. Ma il peggio è che non se ne pente e che nessuno lo denunzia ai superiori e che, se qualcuno lo denunziasse, i superiori non gli direbbero nulla» scriveva nel 1957 in Esperienze pastoriali)81 per il pericolo in essa incombente della morte, ma pure nella società civile si diffusero progressivamente delle tendenze proibizioniste. La mentalità collettiva, nel secondo dopoguerra, stava mutando. Si diffuse un rifiuto della violenza cui ci si era assuefatti nel corso dei due conflitti mondiali. E tantomeno giustificabile appariva l’eventualità della morte connessa allo sport. A scuotere le coscienze fu dapprima il decesso, il 25 novembre 1970, del dilettante Umberto Torcolacci sul ring di Piombino. Esso apparve scandaloso anche a un “libero pensatore” quale Luciano Bianciardi, talvolta estremamente cinico nelle sue argomentazioni, e sempre contrario a ogni forma di censura. Sul «Guerin Sportivo» non fece pertanto mancare una ferma presa di posizione al riguardo, invitando gli spettatori a ribellarsi e a disertare le platee della boxe:

Lo so, qualcuno mi dirà che in Italia, ogni anno, muoiono diecimila persone in incidenti stradali, e altrettanto per l’inquinamento dell’acqua e dell’aria. Perché dunque sdegnarsi se un giovane è morto sul ring, dove era salito per sua libera scelta? Ma c’è una differenza: nessuno paga il biglietto per vedere un incidente stradale o per assistere alla morte avvelenata di un concittadino. Il grave è lì: che si vada a uno spettacolo sapendo che uno degli attori potrebbe lasciarci la pelle. In questo caso lo spettacolo diventa immorale, anzi osceno. Mi creda, non è oscena una donna nuda, è oscena la morte di un ragazzo al suo terzo combattimento, ventenne. Bisogna farla finita, certo. Ma non con una legge dall’alto, bensì con una decisione dal basso, che parta dal cuore e dalla coscienza dello spettatore82.

È in questo contesto che s’inscrive la tragedia, assai più eclatante, di Angelo Jacopucci: un boxeur professionista di valore con una buona carriera alle spalle83. Laureatosi campione italiano dei medi battendo, il 16 agosto 1975, Luciano Sarti a Tarquinia, il 4 giugno 1976 fece sua la corona europea ai danni di Bunny Sterling. Perso il titolo, cercò di riconquistarlo a Bellaria, il 19 luglio 1978, contro l’inglese Alan Minter. Finito K.O. al dodicesimo round e ricoverato a Bologna, cessò di vivere il 21 luglio 1978. Una morte sconvolgente che turbò profondamente il Paese. Dopo il caso di Torcolacci il pugilato tornava sul banco degli imputati, costringendo a interrogarsi sul come prevenire e impedire simili tragedie. Una campagna ostile alla boxe che coinvolse anche il mondo della cultura. E lo scrittore Carlo Cassola, sul «Corriere della Sera», il 12 settembre 1978 ne chiese la proibizione insieme a caccia e automobilismo sportivo. Questo il filo del suo ragionamento, che chiamava anzitutto in causa le responsabilità della classe politica:

In Italia, ci sono milioni di cacciatori e di sostenitori delle corse automobilistiche o della boxe: quale partito è disposto a perdere una fetta così rilevante dell’elettorato? Ogni partito è bloccato da questi meschini calcoli elettoralistici. Nessuno è disposto a rischiare l’impopolarità […] In queste condizioni è impossibile sperare in un cambiamento. Si verificherà al più qualche piccola riforma che lascerà le cose come stanno: come quella di proibire le partenze tumultuose nei circuiti automobilistici. Allo stesso modo dopo la morte di Jacopucci fu prospettata la visita medica per i pugili che fossero andati al tappeto. È evidente che né la visita medica ai pugili che sono andati al tappeto, né la proibizione delle partenze tumultuose nei circuiti automobilistici, farebbero fare un passo avanti al problema della sicurezza nelle piste e sul ring. La sicurezza la si potrebbe ottenere in un solo modo: proibendo le corse automobilistiche e gli incontri di pugilato84.

Rispetto poi, a cosa generasse tanto interesse pubblico attorno ai mortali pugilato e automobilismo, Cassola prospettava questa curiosa tesi:

Quella che va contestata e messa sotto accusa è proprio l’attuale legge dello sviluppo, che domina in tutti i campi e in tutti i campi esige sacrifici umani. Solo, bisogna domandarsi: chi impone questa legge di sviluppo? E chi la sostiene, se non il mito della virilità diffuso a piene mani nelle coscienze della gente? Senza questo mito, non ci sarebbero né automobilisti né pugilatori né fautori dell’automobilismo e della boxe […] È proprio perché questo mito è ben radicato nella mente degli uomini (e purtroppo anche in quella di molte donne) che ci sono individui che si mettono al volante di una macchina da corsa o vanno sul ring o vanno a caccia. E questo mito chi lo mette in giro se non la caserma? Questa legge di sviluppo chi l’impone, se non il militarismo?85

È evidente come Cassola si esprimesse per paradossi. E il suo antimilitarismo fosse l’altra faccia di quell’ecologismo (in questo senso si comprende meglio la richiesta impellente di abolizione della caccia) di cui fu uno degli antesignani in Italia. Egli conduceva una polemica che non andava oltre certe “torri d’avorio”, tuttavia la sua querelle indicava come anche per il pugilato fosse finita l’“età dell’innocenza”. Il ciclismo l’aveva persa il 13 luglio 1967, con la morte di Tom Simpson al Tour de France, adesso era la volta della boxe italiana con quella di Angelo Jacopucci a Bellaria. Fino ad allora morire sul ring costituiva un’eventualità compresa – per dirla alla Cassola – nel suo codice virile, dopo il 21 luglio 1978 nulla sarebbe stato più come prima.

Conclusioni

La boxe italiana è entrata in una grave crisi di identità a datare dalla fine degli anni ’80. La fatidica caduta del Muro di Berlino è quasi sembrata metter metaforicamente K.O. anche la noble art. Il suo interesse si è rarefatto tra le grandi masse e anche fra gli intellettuali italiani non ha più suscitato i dibattiti prodotti ad esempio dal “divo” di destra Nino Benvenuti. Con tutto ciò il pugilato continua a regalare emozioni (dai dilettanti, soprattutto, sono giunte con Roberto Cammarelle e Clemente Russo delle convincenti risposte olimpiche: oro nel 2008, argento nel 2012, bronzo nel 2004 il primo; due argenti nel 2008 e 2012 il secondo; e pure l’apertura alle donne ha prodotto qualche buon talento: su tutte Irma Testa, terza classificata nei Giochi posticipati a Tokio nel 2021), e altre ancora comunque ce ne regalerà. Quella che è andata irrimediabilmente perduta è la sua anima popolare, semplice e genuina, che pur nei retroscena spesso poco edificanti, la rendevano uno degli ultimi “angoli” di umana autenticità in una società progressivamente avvinta dalla smania dei consumi. Pier Paolo Pasolini e Giovanni Testori l’avevano capito con lungimiranza e l’amavano per questo. Le lucciole, ammoniva Pasolini in un celebre articolo apparso sul «Corriere della Sera» il primo febbraio 1975, stavano scomparendo, e anche un certo tipo di boxe stava purtroppo seguendo lo stesso destino.


1 L. Meneghello, Spor. Raccontare lo sport, tra il limite e l’assoluto a cura di F. Caputo, Milano, Rizzoli, 2022, p. 99.

2 K. Boddy, Storia della boxe. Dall’antica Grecia a Mike Tyson, Bologna, Odoya, 2011.

3 S. Giuntini, Quelle notti di whisky e cazzotti. Il pugilato nella letteratura americana dal primo ‘900 ai giorni nostri, in «Lancillotto e Nausica», (2008), nn. 1-2, pp. 6-17.

4 V. G. Kiernan, Il duello. Onore e aristocrazia nella storia europea, Venezia, Marsilio, 1991, pp. 271-272.

5 S. Giuntini, Scherma, duello e politica in Italia dopo l’Unità, Torino, Bradipolibri, 2021.

6 Cfr. G. Biancardi, Note sul pugilato nell’età della Restaurazione, in “Scritture e linguaggi dello sport”, n. 3, 2024, pp. 23-34.

7 G. Mazzini, Un popolo di boxers, in «Lancillotto e Nausica», (2010), n. 3, p. 43.

8 A. Colombo, Sparring for boxing, ivi, (1987), n. 3, p. 75.

9 S. Pellico, I guanti del “Conciliatore”, ivi, (1987) n. 3, pp. 74-75.

10 Ivi, p. 76.

11 G. Tesio, Letteratura e sport a Torino tra Gran “Cuore” e “Grande Show”, in Aa.Vv., Letteratura e sport. Per una storia delle Olimpiadi a cura di G. Ioli, Novara, Interlinea, 2006, p. 149.

12 G. Gozzano, Boxing-Club Torinese. L’arte del pugno, in Aa.Vv., Le parole e lo sport. Letteratura sportiva del Novecento a cura di U. Colombo, Brunello, Edizioni Otto/Novecento, 1979, p. 120.

13 Ivi, pp. 120-121.

14 Ivi, p. 122.

15 Ibidem.

16 S. Giuntini, Gabriele D’Annunzio l’inimitabile atleta. Sport e super-omismo, Torino, Bradipolibri, 2012.

17 G. D’Annunzio, Forse che sì forse che no a cura di R. Castagnola, Milano, Mondadori, 1998, pp. 322-323.

18 Ivi, p. 56.

19 Il piacere del corpo. D’Annunzio e lo sport a cura di M. Pancera, G. Vergani, Milano, Electa, 1999 p. 92.

20 G. D’Annunzio, Luce rossa bianca e verde sul ring, in Aa.Vv., Momenti di gloria. Un’antologia di sport e letteratura a cura di A. D’Orrico, Milano, Leonardo, 1992, pp. 390-391.

21 A. Spinosa, D’Annunzio il poeta armato, Milano, Mondadori, 1987, p. 241.

22 Aa.Vv., Futurismo e futurismi a cura di P. Hulten, Milano, Bompiani, 1986, pp. 511-512.

23 F. T. Marinetti, Teoria e invenzione futurista a cura di L. Di Maria, Milano, Mondadori, 1983, p. 87.

24 Aa. Vv. Futurismo e futurismi, cit., p. 594.

25 Ivi, p. 603

26 S. Giuntini, Lo sport e la Grande Guerra. Forze armate e movimento sportivo in Italia di fronte al primo conflitto mondiale, Roma, Stato Maggiore Esercito - Ufficio Storico, 2001, p. 65.

27 F. Petrocchi, Atleti ed eroi nel cinema e nella letteratura sportiva in Italia (1900-35), in Aa.Vv., Letteratura e sport a cura di N. Bottiglieri, Arezzo, Limina, 2003, p. 279.

28 G. Bertone, I figli d’Italia si chiaman balilla. Come e cosa insegnava la scuola fascista, Rimini-Firenze, Guaraldi Editore, 1975, p. 129.

29 B. Mussolini, Vecchie usanze, in «Il Popolo d’Italia», 12 dicembre 1919.

30 S. Giuntini, Storia dello sport a Milano, Milano, Edi-Ermes, 1991, p. 41.

31 M. Impiglia, Mussolini sportivo, in Sport e fascismo, a cura di M. Canella, S. Giuntini, Milano, FrancoAngeli, 2009, p. 42.

32 S. Giuntini, Pugilato e fascismo, in Sport e società nell’Italia del ’900 a cura di S. Battente, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2012, pp. 144-157.

33 Id., Storie di pugni. Il romanzo pugilistico in Italia negli anni di Primo Carnera, «Lancillotto e Nausica», (2007), n. 1, pp. 20-29.

34 O. Vergani, Io, povero negro, Milano, Treves, 1928, pp. 190-191.

35 J.C. Oates, Sulla boxe, Roma, Edizioni e/o, 1988, p. 18.

36 A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Torino, Einaudi, 1950, p. 73.

37 O. Vergani, Io, povero negro, cit., p. 116.

38 D. Di Maria, Alba De Céspedes: un romanzo fascista? Una storia da ricostruire, in «Avanguardia. Rivista di letteratura contemporanea», (2006), n. 33, p. 150.

39 C. Bertieri, U. Casiraghi, Filmario dello sport, Genova, Prima Cooperativa Grafica Genovese, 1988, Vol. I, p. 262.

40 C. Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Torino, Einaudi, 1970, p. 150.

41 D. Marchesini, Carnera, Bologna, il Mulino, 2006.

42 G. Andreotti, Piaghe sociali e necessità di redenzione, in «Libertas», 28 febbraio 1952.

43 F. Panzeri, Testori e Pasolini: così vicini, così lontani, in «Avvenire», 15 marzo 1996.

44 Id., Vita di Testori, Milano, Longanesi, 2003, p. 89.

45 A. Borsani, M. G. Minetti, In principio fu il Verbo, in «Epoca», 19 giugno 1989.

46 R. Guttuso, Elogio allo sport, Milano, Nuove Edizioni Gabriele Mazzotta, 1984, pp. 60-75.

47 Giovanni Testori i segreti di Milano a cura di A. Toubas, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2003, p. 208.

48 G. Testori, Il Ponte della Ghisolfa, Milano, Feltrinelli, 1958, pp. 201-202.

49 E. Vittorini, Risvolto per la prima edizione del dio di Roserio, in G. Testori, Il dio di Roserio, Milano, Mondadori, 2002, p. 151.

50 G. Testori, La Gilda del Mac Mahon, in Id., Opere 1943-1961 a cura di F. Panzeri, Milano, Bompiani, 1996, pp. 696-697.

51 P. Pasolini, Alì dagli occhi azzurri, Milano, Garzanti, 1976, p. 136.

52 Ivi, p. 138.

53 Ivi, pp. 139-142.

54 Ivi, pp. 142-143.

55 Ivi, p. 143.

56 C. Rimini, Montale tifoso e quell’incontro di boxe in tv, in «Corriere della Sera», 24 settembre 2021.

57 V. Piccioni, Quando giocava Pasolini. Calci, corse e parole di un poeta, Arezzo, Limina, 1996, p. 86.

58 P. P. Pasolini, perché Nino non mi è simpatico, in «Tempo», 4 gennaio 1969.

59 Id., Benvenuti non serve a nulla, ivi, 25 gennaio 1969.

60 G. Arpino, Specchio della domenica, in «La Stampa», 2 febbraio 1969.

61 P. P. Pasolini, Arpino, Benvenuti e lo sport, in «Tempo», 22 febbraio 1969.

62 Piccioni, Op. cit., p. 86.

63 N. Benvenuti, Il mondo in pugno. Una vita a modo mio, Milano, Sperling & Kupfer, 2001, p. 91.

64 G. Buccini, Nino Benvenuti esulta: finalmente libero di gridare la mia fede per la destra, in «Corriere della Sera», 30 gennaio 1995.

65 M. Capanna, Formidabili quegli anni, Milano, Rizzoli, 1988, p. 41.

66 N. Benvenuti, Il mondo in pugno, cit., p. 182.

67 A. Molinari, G. Toni, Storie di sport e politica. Una stagione di conflitti 1968-1978, Milano-Udine, Mimesis, 2018, p. 169.

68 L. Caminiti, Nino Benvenuti, il gladiatore gentile, in “Il Dubbio”, 26 aprile 2018.

69 T. Kezich, Quella volta che Bernabei mise al tappeto Nino Castelnuovo, in “7 Corriere della Sera”, 13 aprile 2000.

70 L. Bianciardi, L’antimeridiano. Opere complete a cura di L. Bianciardi, M. Coppola, A. Piccinini, Milano, Isbn, 2008, Vol. II, pp. 51-53.

71 Id., Il fuorigioco mi sta antipatico, Viterbo, Stampa Alternativa, 2006, p. 59.

72 Ivi, p. 63.

73 Ivi, pp. 78-79.

74 Ivi, p. 190.

75 Ivi, p. 235.

76 Ivi, p. 256.

77 Ivi, pp. 355-356.

78 Ivi, p. 320.

79 G. Onesti, Osservazioni sulle responsabilità per la morte e le lesioni prodotte in un incontro di pugilato, in «Rivista di Diritto Sportivo», (1949), nn. 1-2, pp. 58-68.

80 A. Stelitano, A. M. Dieguez, «Un’arte nella quale l’intelligenza trionfa sulla forza». Il dibattito sulla moralità della boxe da Pio XI a Pio XII, in «Quaderni della Società Italiana di Storia dello Sport», (2016), n. 6, pp. 37-46.

81 C. Galeotti, Don Milani la ricreazione è finita. Invettive contro la televisione, il ballo, il divertimento, Roma, Stampa Alternativa, 1999, p. 36.

82 Bianciardi, Il fuorigioco mi è antipatico, cit., p. 92.

83 A. Bacci, L’ultimo volo dell’Angelo biondo. Angelo Jacopucci, pugile, Arezzo, Limina, 2006.

84 C. Cassola, Proibiamo boxe, caccia e automobilismo sportivo, in «Corriere della Sera», 20 settembre 2019.

85 Ibidem.