La storia dello sport e le altre storie
Stefano Pivato
Università di Urbino
Abstract: The history of sport in Italy has developed considerably in the last few years. And yet, whenever a historian is called upon to comment on the subject, the first thing he or she does is to preface it by pointing out that Italy is lagging behind. A delay that is also the result of the scant attention paid to the reflections that other disciplines have made on the subject.
Keywords: Storia della Storiografia, Storia dello Sport, Storia delle emozioni, Eroe sportivo
Solitamente il tono prevalente di interventi di carattere metodologico è costituito dalla lamentatio sul fatto che gli storici hanno iniziato tardi a occuparsi di storia dello sport. Ma perché gli storici, anziché continuare in questa denuncia non hanno allargato lo sguardo ad altre discipline? Se non altro per constatare che la letteratura, la sociologia, la linguistica, l’antropologia e altri campi del sapere da almeno un cinquantennio si occupano dello sport e della sua storia nelle sue innumerevoli espressioni.
Nel 1973 Stefano Jacomuzzi, storico della letteratura, scrive un saggio per la Storia d’Italia Einaudi: Gli sport. Quell’intervento, accanto a contributi come quelli di Renato Zangheri sui catasti, di Stefano Somogy sulla Alimentazione nell’Italia unita, di Roberto Leidy sulla canzone popolare, di Italo Calvino sulle fiabe stava a significare che la storia dello sport era riconosciuta come uno degli elementi per comprendere l’evoluzione della storia italiana1. Un decennio più tardi è sempre Jacomuzzi che a Torino promuove un convegno i cui atti sono poi confluiti nel volume Sapere di sport2.
La ricchezza degli apporti disciplinari di quel libro è davvero notevole: un caposcuola della linguistica come Tullio De Mauro indaga il rapporto fra il linguaggio e lo sport, antropologi come Ida Magli si soffermano sugli aspetti simbolici della pratica sportiva, filosofi come Gianni Vattimo dissertano sulla filosofia del corpo da Nietzsche a Marcuse, un musicologo come Massimo Mila scrive di storia dell’alpinismo. Particolarmente affollata la schiera dei letterati: per cominciare con Stefano Jacomuzzi e proseguire con un americanista come Claudio Gorlier. E poi ancora critici letterari come Folco Portinari e Franco Contorbia.
Siamo dunque di fronte ad alcuni dei nomi più autorevoli della cultura accademica italiana e ciò che stupisce ancora non è solo l’assenza di un cultore della scienza di Clio a parlare di sport ma anche il fatto che questi contributi non siano mai citati allorché si parla di primogeniture: come se la storia godesse di uno statuto di autosufficienza che non necessita del confronto con altre discipline.
Proviamo a volgere la costatazione in positivo e a chiederci perché è così ampio l’interesse alla storia dello sport da parte di quanti si occupano di letteratura partendo da una citazione di Stefano Jacomuzzi che risale all’inizio degli anni Ottanta:
Il bisogno del mito, della costruzione, degli eroi che la letteratura di fine secolo ha deluso o sconvolto, proprio con la morte dell’eroe viene invece accolto e accontentato dalla mitologia sportiva, che sforna nuovi tipi di eroi e all’uomo inetto, all’uomo senza qualità oppone un tipo schietto e patetico di eroe, semplice e bello3.
La filiazione di questa affermazione va individuata in quello che è considerato, assieme alla Recherche di Proust o all’Ulisse di Joyce, uno dei romanzi più importanti del Novecento: L’uomo senza qualità di Robert Musil.
E quale è una delle tesi di fondo di quel capolavoro letterario? A partire dai primi decenni del Novecento, sostiene Musil, sono proprio le figure dei campioni sportivi che sostituiscono il logoro mito letterario dell’eroe romantico ottocentesco. L’uomo romantico è un uomo «fallito»: proviamo a pensare al melodramma affollato di eroi sconfitti, spesso suicidi o mandati a morte o comunque incapaci di realizzare i loro progetti. L’impossibilità di diventare qualcuno – che Musil descrive in L’uomo senza qualità – viene nel Novecento sostituita dalla figura positiva dell’eroe sportivo con i suoi successi e i traguardi raggiunti. Secondo Musil lo sport redime l’uomo senza qualità e la figura dello sportivo viene a soddisfare quel bisogno antropologico dell’eroe che percorre una società competitiva come quella del Novecento4. All’uomo senza qualità di Kakania, Paese immaginario e fantastico i cui abitanti vivono all’insegna della mediocrità subentra l’atleta vincente dei ring, dei velodromi e degli stadi.
Consideriamo per un attimo il palcoscenico della forma teatrale più popolare dell’Ottocento: il melodramma. A Nabucodonosor la Divinità fa precipitare un fulmine che lo fa cadere nella pazzia; Mario Cavaradossi viene condannato a morte e la sua amata, Tosca, si getta dagli spalti di Castel Sant’Angelo. E, ancora, le opere di Vincenzo Bellini e Gaetano Donizetti sono affollate di personaggi in preda alla follia. Insomma, nel melodramma, come nella letteratura romantica, gli epigoni del giovane Werther sono irrimediabilmente votati alla sconfitta.
Se per Goethe il corpo del giovane Werther è destinato a frantumarsi e a distruggersi, per Musil pratiche come la boxe e il tennis elevano la vitalità a qualità suprema del campione. Certo, la figura dell’atleta conosce a partire dall’inizio del Novecento varie declinazioni: il superuomo nietzschiano pone al centro della propria esistenza la volontà di potenza e il superamento del nichilismo. Del pari D’Annunzio rompe i canoni del decadentismo per delineare un tipo umano caratterizzato da un vitalismo puro che gli conferisce una energia sconfinata. Pur nelle varie declinazioni il comune denominatore del nuovo uomo novecentesco va colta nella sua la sua essenza di eroicità: lo sportivo finisce per infondere nel senso comune l’idea di un tipo umano vincente profondamente distante dalle sofferenze e dai patimenti dell’idealtipo romantico. In questa cornice lo sportivo incarna la nuova figura dell’eroe novecentesco. Eroe è definito il primo atleta italiano noto sul piano internazionale, Dorando Pietri. Ma la galleria degli eroi, singoli e collettivi, si allarga a dismisura durante il fascismo. Nel dopoguerra «Eroi» definisce Dino Buzzati nel 1954 i conquistatori italiani del K2; Negli anni Cinquanta Roland Barthes assimila i ciclisti agli «eroi del circo nella antica Grecia»5; Dino Buzzati attribuisce a Bartali il nome omerico di Ettore e a Coppi quello di Achille6. Allo stesso richiamo omerico ricorre Peter Sloterdijk, uno dei massimi filosofi contemporanei nella sua descrizione dei calciatori.
La letteratura, la filosofia, la semiologia hanno dunque fin dall’origine indagato il fenomeno sportivo. La storia è rimasta curiosamente assente da questo dibattito pluridisciplinare fino agli anni recenti. Logico chiedersi la causa. Negli anni Quaranta Marc Bloch in quel prezioso volumetto sul quale si sono formati schiere di storici, Il mestiere di storico, asseriva categoricamente che «la storia non ammette autarchia», il che stava a significare che le ricostruzioni storiche si devono nutrire del confronto con le altre discipline. Alla luce di quella costatazione dello storico francese vien da dire che la storiografia italiana si è nutrita di una autarchia che l’ha portata a privilegiare in maniera ossessivamente univoca l’aspetto politico-istituzionale. Una caratteristica che viene appena mitigata, fra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, dalla effimera affermazione della storia sociale.
Nel 1981 esce da Rosenberg e Sellier un volumetto curato da Franco Ramella, Dieci interventi sulla storia sociale, nel quale la sfida lanciata dall’idea di una «nuova storia» viene declinata in una varietà di interessi e direzioni il cui comune denominatore sembra essere dettato dal bisogno primario di esplorare territori nuovi.
Si tratta di una stagione breve, anzi troppo breve che non lascia che una debole traccia nella storiografia italiana. A partire dall’inizio degli anni Novanta si assiste, nel senso comune, negli interessi degli editori e delle cattedre universitarie a una rivincita dell’histoire bataille. Dopo quello che gli storici tradizionalisti avevano bollato come il «vento dell’eversione» (alludendo alla storia sociale e mettendo sul banco degli imputati un libro come Il formaggio e i vermi considerato il capostipite della storia sociale in Italia), la storiografia sembra diventare metafora e rappresentazione di quel clima di normalizzazione che percorre la società italiana a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta.
Con la stessa rapidità con la quale era sorta alla fine degli anni Settanta, la storia sociale, a partire dagli anni Novanta scompare. Di qui il mancato confronto con settori della storia sociale che possono far uscire la storia dello sport dal mero dato di cronaca. Da questo punto di vista è d’obbligo lamentare il mancato confronto fra la storia dello sport e la storia sociale. Consideriamo per esempio la storia delle emozioni come uno dei settori più innovativi e originali dell’ultimo ventennio.
Nel 1884 William James, padre della psicologia americana, sosteneva che una emozione è la percezione del cambiamento corporeo come un colorito vivo e un sorriso di felicità, un cuore che palpita d’ansia, un pugno serrato di rabbia. L’interrogativo di James è oggi ripreso da quanti da almeno un ventennio si occupano di storia delle emozioni. Nessun dubbio che se James avesse posto il suo interrogativo un trentennio più tardi, all’inizio del Novecento, avrebbe dato una risposta parlando del clima che si respira in uno stadio, in un velodromo o ai bordi del ring di un incontro di pugilato, tutte occasioni che moltiplicano le percezioni del cambiamento corporeo7. Oppure poniamo mente a un settore come quello della storia della sessualità in Italia poco praticato8 ma che, non è il caso di spiegarlo, intreccia la sua evoluzione con la storia dello sport. Paradossalmente anche la storia di genere non ha richiamato che uno scarso interesse per lo sport femminile9.
Lo sport, fenomeno fra i più caratteristici della modernità del Ventesimo secolo, si situa all’incrocio fra una serie di discipline che vanno dalla storia alla filosofia, dalla letteratura alla antropologia, dalla pedagogia alla presentazione di scenari veicolati da una nuova figura di «eroe», il campione, che nell’immaginario del Ventesimo secolo viene a sostituire uno dei simboli più caratteristici della cultura classica.
Senza avere la pretesa di dettare statuti epistemologici io credo che la storia dello sport possa rivelarsi come una chiave d’accesso e comprensione alle dinamiche del Novecento. A patto che abdichi a vetuste consuetudini come – prima di ogni altra – a quella che un tempo si definiva storia degli sport, intesa come elencazione di tecniche e primati. Se ci si attesta su questo filone è come pretendere di fare storia della alimentazione attraverso le ricette di cucine o storia della sanità evocando i sintomi della pellagra o dello scorbuto.
Al tempo stesso occorre abdicare a una narrazione tutta interna alla storia dello sport. Altrimenti, prendendo a prestito l’efficace espressione di uno dei massimi storici italiani, la storia dello sport rischia di essere confinata in una «frigida storia delle istituzioni»10.
La storia dello sport rappresenta una delle manifestazioni più significative della società di massa. E, come tale, coinvolge campi del sapere che spaziano dalla filosofia, alla letteratura, dalla scienza alo cinema, dalla linguistica alla religione.
Da qualche anno la storia dello sport ha compiuto passi notevoli. Credo però che solo dal confronto e dall’incrocio con altre discipline essa possa definitivamente acquisire quei quarti di nobiltà sufficienti a non «giustificare» ogni volta all’inizio di una conferenza o all’apertura di un saggio una scelta (quella di fare storia dello sport) per anticipare le obiezioni di quanti la considerano una opzione eccentrica. Se non altro perché, come sosteneva Ortega Y Gasset già negli anni Trenta del Novecento, lo sport non solo era diventato una delle occupazioni centrali della vita ma si era trasformato in uno dei tratti più specifici dell’uomo-massa del Ventesimo secolo.
1 Storia d’Italia. v. 5, I documenti, Torino, Einaudi, 1973.
2 Sapere di sport. Le parole le finzioni le culture dello sport, a cura di S. Jacomuzzi, Milano, Guanda, 1983.
3 S. Jacomuzzi, Incontri e scontri, in Sapere di sport, a cura di S. Jacomuzzi, Milano, Guanda, 1983, p. 156. Sulla figura dell’eroe sportivo cfr. D. Marchesini, Eroi dello sport. Storie di atleti, vittorie, sconfitte, il Mulino, Bologna, 2016.
4 Walter Moser, Robert Musil: la mise a l’essai du roman, Paris, Maison de sciences de l’homme, 2019.
5 R. Barthes, Miti d’oggi, Torino, Einaudi, 1957, p. 66.
6 Dino Buzzati al Giro d’Italia, a cura di C. Marabini, Milano, Mondadori, 1981.
7 K. Oatley, Breve storia delle emozioni, Bologna, il Mulino, 2004, p. 19; Jan Plamper, Storia delle emozioni, Bologna, il Mulino, 2018.
8 S. Bellassai, L’invenzione della virilità. Politica e immaginario maschile nell’Italia contemporanea, Carocci, Roma 2011. Si veda anche il numero monografico di «Genesis», Mascolinità, n. 2, 2003.
9 Su questo argomento, si veda S. Giuntini, La rivoluzione del corpo. Le italiane e lo sport dalla “Signorina Pedani” a Ondina Valla, Canterano, Aracne, 2019; F. Tacchi, Calciatrici malgrado tutto. L’altra metà del pallone nell’Italia repubblicana, in «Passato e presente», (2020), n. 111.
10 G. Ricuperati, La scuola nell’Italia unita, in Storia d’Italia, vol. 5, t. 2, I documenti, Torino, Einaudi, 1973, p. 1732.