Sergio Giuntini, Lo sport imbroglione
Portogruaro, Ediciclo Editore, 2022, pp. 336
Tommaso Begotti
Società Italiana di Storia dello Sport
Il doping è uno degli argomenti più controversi e dibattuti nel mondo dello sport. Del resto, la sua storia sembra procedere in parallelo a quella dello sport moderno: sin dalle origini della pratica sportiva si accompagnano ad essa i tentativi di incrementare le prestazioni oltre i limiti dati dalla preparazione e dalle capacità fisiche, innescando un continuo processo di evoluzione dei metodi dopanti che non accenna a rallentare ancora ai giorni nostri.
A fronte di una presenza così duratura e radicata del doping nella storia dello sport, poche sono state le opere che ne hanno trattato con la lente della ricerca storiografica e ancor meno sono state quelle che hanno dedicato particolare attenzione alla sua storia in Italia. Ha provato a sopperire a questa mancanza Sergio Giuntini, con il suo Lo sport imbroglione, uscito nel novembre 2022 per i tipi di Ediciclo Editore.
In questa opera, Giuntini ricostruisce la storia dello sviluppo non solamente delle pratiche dopanti, ma anche (e forse soprattutto) delle concezioni teoriche e ideologiche che hanno accompagnato l’utilizzo del doping nel corso dei decenni. Se l’associazione tra doping e ideologia evoca immediatamente ricordi legati alla Guerra fredda e alla contrapposizione sportiva tra i blocchi occidentale e orientale, Giuntini risale ben più indietro nel tempo per rintracciare le origini del complesso intreccio che lega l’uso (e l’abuso) di sostanze vietate con i sistemi di pensiero contemporanei. È infatti nel corso dell’Ottocento, come tratteggiato nel primo capitolo, che si definiscono le prime intersezioni tra lo sport, la filosofia positivista e il sistema socio-economico nato con lo sviluppo del capitalismo su scala mondiale. L’idea di perfezionamento del corpo, la fiducia nei progressi scientifici, la spasmodica ricerca della prestazione e con essa del possibile ritorno economico diventano in questi decenni le perfette leve per una propagazione a macchia d’olio delle pratiche dopanti, fatte proprie dagli sportivi più importanti come Dorando Pietri e rese patrimonio comune delle nascenti stelle del ciclismo, in un clima di grande accondiscendenza dei vertici sportivi.
Il secondo capitolo propone poi uno sguardo d’insieme sull’uso del doping fatto dai regimi totalitari del Novecento, passando dall’Italia fascista alla Germania nazista fino all’Unione Sovietica e agli stati del blocco orientale nel secondo dopoguerra, con particolare attenzione verso agli straordinari successi sportivi della Repubblica Democratica Tedesca e il suo «modo di produzione sportivo» (pp. 75-92). L’analisi si sposta qui sui legami tra le ideologie totalitarie e il doping, visto come mezzo non solo di affermazione sportiva nazionale, ma anche di costruzione di un uomo nuovo, plasmato attraverso l’intervento della scienza e plasticamente rappresentato nel corpo dell’atleta di alto livello, come avviene in Unione Sovietica (pp. 66-69). Si analizza quindi l’organizzazione dei programmi di “doping di stato”, progettati per massimizzare le prestazioni sportive e per sfuggire alle prime forme di controllo antidoping e inseriti nel quadro della complessa diplomazia sportiva della Guerra fredda.
Nei capitoli successivi l’esposizione si apre sempre più su traiettorie sincroniche, per seguire gli sviluppi della storia del doping in quei paesi occidentali spesso critici nei confronti dell’uso spregiudicato delle sostanze dopanti da parte del blocco orientale, ma i cui atleti non erano meno inclini a lasciarsi sedurre dalle sirene della chimica e delle pratiche mediche più estreme. Qui si configura un’immagine diversa di doping, maggiormente legata all’azione dei singoli ed alle logiche di guadagno, ma aperta anche ad esperienze non dissimili dai programmi di “doping di stato”. È il caso dell’Italia, che Giuntini approfondisce con dovizia di particolari attraverso una serie di vicende abilmente ricostruite, alternando sulla scena atleti, dottori e dirigenti, spesso animati da motivazioni contrastanti e impegnati in lotte di potere all’interno delle quali il doping diventa uno degli elementi più discussi e controversi. La lunga serie di scandali che colpiscono periodicamente sport di grande popolarità come il ciclismo e il calcio; il diretto coinvolgimento delle istituzioni sportive nei programmi di doping sistematico condotti da Francesco Conconi; la lotta solitaria e quasi donchisciottesca di dirigenti e allenatori come Alessandro Donati e Zdeněk Zeman contro l’abuso delle sostante dopanti e l’omertà dei vertici sportivi (p. 233) fino al recente caso Schwazer; sono solo alcuni tra gli oggetti d’indagine che Giuntini analizza nella seconda parte dell’opera.
La conclusione di questa lunga carrellata è quasi provocatoria quando, attraverso la ricostruzione del dibattito intellettuale contemporaneo, si giunge a chiedersi se non si stia imboccando la via della liberalizzazione delle pratiche dopanti, alla ricerca di un continuo aumento delle prestazioni e con esse dello spettacolo, mentre le istituzioni deputate a vigilare paiono incapaci di sfuggire alle logiche di opportunismo e di strumentalizzazione politica del fenomeno. Le ultime righe evocano infine la comparsa di una nuova “Guerra fredda” del doping, scoppiata con l’interdizione della Federazione Russa da parte del CIO e inquadrata in un clima di tensioni internazionali destinato ad avere ben più tragici sviluppi negli anni successivi. È la chiusura di un’opera di notevole interesse, che si muove su filoni d’indagine ancora poco battuti e che è capace di suscitare non solo l’interesse per i fatti, ma anche di trasmettere un punto di vista critico ed equilibrato nelle sue analisi d’insieme.