Luigi Meneghello, Spor. Raccontare lo sport, tra il limite e l’assoluto

Milano, Rizzoli, 2022, 216 pp.

Elvis Lucchese

Società Italiana di Storia dello Sport



È stato affermato che il fascismo «ha fatto giocare gli italiani». Il dato è certo: durante il ventennio mussoliniano si amplia in modo netto la partecipazione alla pratica sportiva nel paese. Rimane invece questione di assoluto interesse per gli storici definire quanto l’impegno del regime sia da considerare decisivo in questa espansione (in atto allora comunque in tutto l’occidente) e al contempo in che misura lo sforzo pedagogico delle organizzazioni giovanili abbia contributo al consenso rispetto alle intenzioni della propaganda. Si tratta insomma di riflettere su quanto il cosiddetto “sport fascista” sia stato tale nella sua essenza. Anche interrogando testimoni diretti, come Luigi Meneghello del quale nel 2022, a quindici anni dalla scomparsa, Rizzoli ha pubblicato postumo un volume specifico sul tema. Composto di testi in larga parte inediti attinti dalle carte depositate presso lUniversità di Pavia, con la cura di Francesca Caputo, Spor era un progetto che l’autore vicentino aveva concepito senza avere avuto il tempo di realizzare. Per i molti lettori appassionati di Libera nos a malo e I piccoli maestri una gradita “bonus track”.

Con sguardo lucido e ironico Meneghello, nato nel 1922, restituisce nel gioco della memoria l’esperienza di una generazione che diviene adulta durante il fascismo e per la quale il cimentarsi negli sport è codice fondamentale. Non più solo il calcio delloratorio e il ciclismo ma sotto legida di Guf, Gil e Ond latletica con le corse, i salti, i lanci, la pallacanestro, lo sci, lalpinismo. Fra le persistenze della cultura cattolica, un’adolescenza agonistica che traduce il primato dellazione (cioè del corpo) di cui è intrisa lideologia dominante. «Alle più intense esperienze sportive di S. era sottesa una dottrina della volontà, ispirata in parte da Gabriele dAnnunzio e dal Duce e un po’ da Padre Fasano, esempio di ciò che si può ottenere con lo studio prolungato e asprissimo» (p.60), e quindi «darsi da fare, addestrarsi» (p. 70). Tutto ciò mentre nella scuola resiste il pregiudizio intellettuale dell’Italia liberale. «La scuola era estranea allo sport, salvo lomaggio formale, tutto esteriore, al presunto ideale del corpo sano: di fatto cera un sostanziale rigetto. La sola attività corporea riconosciuta era quella che si chiamava ufficialmente educazione fisica, in pratica ginnastica: una serie di esercizi da tutti sentiti come insulsi, e alcune odiose prove di forza».

Quanto alla questione del fascismo nello sport, nella narrazione di Meneghello l’ideologia sembra trovare spazio solo formalmente. Dal continuo richiamo a raduni e competizioni non sembra derivare, verso il ragazzo della provincia veneta e i suoi compagni in campi e palestre, particolare presa ideologica. Un’atmosfera che richiama quanto scritto da Giorgio Bocca, cuneese di due anni più vecchio, buon sciatore. «Fu uno sport per la prima volta relativamente di massa, per la prima volta aperto a ceti sociali piccolo borghesi, popolari, che ne erano stati esclusi; e fu uno sport pochissimo fascistizzato. Le cerimonie erano vissute come una faccenda barbosa. Lo sport del ventennio non era fascista; era soltanto uno sport di massa che per combinazione nasceva assieme al fascismo» (Bocca, 1983).

Al di là della “dottrina della volontà” con echi dannunziani e mussoliniani, l’avvento degli sport e il loro fascino sembra collocarsi in continuità con un certo virilismo contadino attorno al saper fare nel lavoro artigiano, e saper fare meglio degli altri: «il criterio sulla base del quale vengono valutate le persone è da una parte il paradigma del work, la capacità di realizzare degli oggetti ben fatti, dall’altro quello dell’impresa atletica, del riuscire a condurre ai limiti, valorizzare al meglio la propria “dotazione fisica”: eccellenza del prodotto e eccezionalità della prestazione. A cui concorrono talento, estro, esercizio, forza di volontà, costanza» (p.37). Ecco, quindi, che tutto è “spor” (forma spuria dialettale, come altrove tennica”) perché «gareggiare, misurarsi, istituire primati, vincere prove: il sale del mondo era quello». Ecco che «tutto era materia di gara»: «c’erano forme arcaiche, il contadinesco e osteriale (ma piuttosto affascinante) bracio di fero o il semi-scherzoso pissare-distante. Anche tenere il respiro. Si gareggiava, a cronometro, immergendo la faccia in un catino d’acqua» (p. 70). Anzi «il giovane S. pensava che l’uomo senza sport è nella stessa condizione di quello a cui non piacciono i radicchi con la pancetta; non è neanche un uomo» (p. 59).

Nel filtro del ricordo la competizione e la fantasia del trionfo rimangono cifra della più incantata delle stagioni dell’esistenza, come nell’amore per l’atletica di Eugenio Montale. Dirà Meneghello: «Da bambino avevo una sola aspirazione, partecipare alle Olimpiadi del 1940 e vincere tre gare da niente, i 100 metri, la maratona e il salto con lasta. C’è stata di mezzo una guerra e non ho potuto realizzare il mio sogno».