Giorgio Simonelli, Quasi gol. Storia sentimentale del calcio in tv

Roma, Manni Editori, 2024, 160 pp.

Gioacchino Toni

Ricercatore indipendente



Di quanto e come la rappresentazione televisiva abbia modificato il gioco del calcio e la sua fruizione si occupa il recente saggio di Giorgio Simonelli, docente di Teoria e tecnica del linguaggio giornalistico e studioso di storia della radio e della televisione. L’autore ricostruisce il rapporto tra calcio e televisione attraverso una suddivisione per blocchi temporali segnati da momenti di svolta dettati da innovazioni tecnologiche, cambiamenti culturali e di costume, oltre che da scelte economiche e politico-sportive, avendo cura di mostrare come la narrazione mediatica abbia avuto ricadute sul gioco stesso.

Dopo un primo incontro tra calcio e televisione occorso attorno alla metà degli anni Trenta in Germania ed in Gran Bretagna, bisogna attendere la fine del secondo conflitto mondiale affinché tale sport conquisti un suo spazio all’interno della televisione anche alla luce del fatto che questa negli anni Quaranta e Cinquanta ha necessità di trasmettere in diretta non potendo avvalersi di sistemi di registrazione se non ricorrendo alle tecnologie cinematografiche richiedenti tempi di produzione dilatati.

Durante la fase pionieristica, in ambito italiano la programmazione del calcio ha carattere di eccezionalità, non godendo ancora di uno spazio fisso e regolare nel palinsesto. Sarà l’avvento dell’RVM (Registrazione Video Metagenetica), sul finire degli anni Cinquanta, a permettere alla Rai di superare i limiti tecnici che consentivano sino ad allora esclusivamente la copertura delle partite giocate nelle vicinanze delle sue sedi milanese e romana.

Un momento di svolta per il calcio in tv è dato dall’entrata in scena della moviola sul finire degli anni Sessanta, tecnologia a cui la Rai, spiega Simonelli, affida un ruolo soprattutto spettacolare che, nell’esaltazione delle potenzialità televisive, apre discussioni che dallo studio si espandono velocemente ai quotidiani e ai bar. A modificare la narrazione del calcio in tv contribuiscono nei primi anni Settanta trasmissioni settimanali come 90° minuto (dal 1970), capace di dare visibilità alle squadre provinciali attraverso giornalisti che ne diventano “portavoce”, e Dribbling (dal 1973), che propone uno sguardo sul calcio più allargato rispetto alla semplice cronaca.

Altro momento di svolta per la narrazione calcistica televisiva è dato dall’avvento della “neotelevisione” negli anni Ottanta. Le emittenti private introducono infatti un tipo di telecronaca sempre più partecipata e iperbolica votata alla conquista dell’audience. Ad un calcio che si sta orientando a divenire uno “spettacolo generalista” da prima serata televisiva risulterà del tutto funzionale la riapertura delle frontiere ai calciatori stranieri: la svolta spettacolare ha infatti bisogno di nuove mitologie e nuovi interpreti. Le riprese abbandonano «l’atteggiamento referenziale per cui la televisione era semplice testimone dell’evento che doveva trasferire al destinatario senza alterarne le caratteristiche» (p. 94). Allontanandosi dalla visione dal vivo della partita, la fruizione televisiva diviene sempre più autoreferenziale ed ubiqua mentre il commento verbale abbandona il tradizionale tono compassato in favore di un linguaggio sempre più esuberante, passionale, ricco di formule ad effetto che diventano la cifra stilistica dei diversi giornalisti.

Il processo di spettacolarizzazione, oltre a cambiare la narrativa del calcio in tv, comporta anche alcune modifiche al regolamento del gioco, come ad esempio il ricorso ai calci di rigore in caso di parità nelle partite a eliminazione al posto della ripetizione della gara o del sorteggio, il divieto di passaggio con i piedi al proprio portiere, l’introduzione dei tre punti per le vittorie così da incentivare le squadre a non accontentarsi del pareggio ecc. Si tenta, inoltre, di eliminare tutti quei tempi morti che mal si conciliano con il calcio televisivo. Le stesse società di calcio, sempre più dipendenti dagli introiti televisivi, si adeguano alle esigenze dei palinsesti accettando orari di gioco differenziati e spalmati su diverse giornate.

A partire dagli anni Ottanta, trasmissioni come il Processo del Lunedì affidano al talk in studio una dimensione contrappositiva in cui si scontrano in maniera sempre più sguaiata appartenenti a vario titolo dell’universo calcistico, così come perfetti sconosciuti o ospiti illustri estranei a tale mondo, anticipando per certi versi la stagione dei talk show televisivi che si occuperanno di attualità e politica con le medesime modalità. A partire dagli anni Ottanta il calcio in televisione non ha più quel carattere di eccezionalità proprio della fase pionieristica, ma è diventato, sottolinea Simonelli, «un materiale di consumo come tanti altri, un consumo quotidiano, e ha perso il ruolo più discreto e affascinante di luogo e tempo di celebrazione della festa» (p. 108).

Con gli anni Novanta si apre l’era calcio delle pay tv e se tale svolta poteva far pensare ad una narrazione più tecnica e sobria, rivolta non più a un pubblico generalista ma a una platea selezionata di appassionati di calcio, in realtà si assiste ad uno sviluppo di quel processo di spettacolarizzazione e teatralizzazione che aveva preso il via il decennio precedente. La narrazione calcistica all’epoca delle pay tv si presenta decisamente variegata. A fronte della frammentazione, del consumo impressionistico ed effimero delle immagini sportive, con anche canali che dilatano gli eventi in un loop in costante aggiornamento lungo le ventiquattrore, si sono ritagliati visibilità anche programmi di approfondimento dal taglio documentaristico, volti ad approfondire anche questioni di carattere culturale legate ai personaggi ed agli eventi sportivi.

A mostrare quanto il rapporto tra calcio e televisione si sia fatto sempre più stretto, è la recente introduzione del VAR. «L’immagine televisiva non è più solo il testimone maggiormente attendibile di ciò che è avvenuto in campo, capace di ristabilire la verità in astratto, ma un concreto attore dell’avvenimento agonistico, un “quinto uomo” che assiste i quattro giudici con potere decisionale, un’immagine che scende in campo» (pp. 149-150).