Massimo Cervelli, L’allenatore di calcio in Italia. Storia socioculturale di una professione

Milano, Biblion edizioni, 2024, pp. 352

Alberto Molinari

Società Italiana di Storia dello Sport



Nella fase pionieristica del calcio italiano, tra fine Ottocento e primo Novecento, non esistevano veri e propri allenatori. Nelle squadre era centrale la figura del capitano, il calciatore più esperto e carismatico che, insieme a qualche dirigente del club, decideva la formazione da schierare in campo. La guida della nazionale, che disputò la sua prima partita il 15 maggio 1910, veniva invece affidata a commissioni tecniche formate principalmente da arbitri, gli unici che avevano un’ampia conoscenza dei giocatori potendoli osservare durante le partite. In un calcio giocato ancora in modo piuttosto elementare, gli allenamenti erano approssimativi e non comprendevano una precisa preparazione tattica e fisica.

Da qui prende le mosse la ricerca di Massimo Cervelli – cultore di storia del calcio e coordinatore della commissione storia del Museo Fiorentino – che ricostruisce in modo approfondito e rigoroso il processo di formazione degli allenatori in Italia e del loro «strano mestiere» in un arco cronologico che si prolunga fino ai nostri giorni. Cervelli inquadra il tema nel contesto politico, sociale e culturale del Paese soffermandosi sulle tappe fondamentali di un percorso che, tra passi in avanti e battute di arresto, si dipana in stretta connessione con le trasformazioni del football, la storia della FIGC e i risultati ottenuti dalla nazionale.

Nella prima parte della ricerca l’autore delinea la nascita della figura dell’allenatore nel football italiano. Salvo qualche eccezione, come Vittorio Pozzo, i primi veri allenatori giunsero dall’estero. Negli anni Venti trainers inglesi e danubiani portarono le loro squadre ai vertici del football grazie alle competenze tecniche acquisite nei Paesi di provenienza. In un sistema ipocritamente dilettantistico, aggirato con vari strattagemmi dai club maggiori, gli allenatori stranieri introdussero di fatto il professionismo nell’universo calcistico nazionale. Anche la svolta autarchica e xenofoba impressa al calcio dal fascismo, che nel 1926 con la Carta di Viareggio vietò l’importazione di giocatori stranieri, non interruppe l’attività degli allenatori provenienti dall’estero.

Come rileva puntualmente Cervelli, il primo tentativo di formare allenatori italiani per eliminare la dipendenza dai tecnici stranieri risale all’epoca della FIGC di Leandro Arpinati. L’esperimento di una Scuola per allenatori, avviato nel 1933, si interruppe dopo pochi mesi in seguito all’emarginazione politica del presidente federale. L’idea venne ripresa nel 1940. Per difendere il primato del calcio italiano che aveva vinto due Mondiali e un’Olimpiade, la Federazione creò il Centro di Preparazione Tecnica che aveva anche il compito di formare gli allenatori ma i primi corsi, organizzati a Firenze nel 1943, furono sospesi con la caduta del fascismo.

In un quadro di sostanziale continuità della classe dirigente calcistica tra periodo fascista e Italia repubblicana, dopo la guerra la FIGC ripropose l’approccio maturato in precedenza ma, nota Cervelli, con un progetto meno ambizioso: accantonata l’idea di una Scuola, i corsi introdotti dalla Federazione si limitarono ad offrire le conoscenze di base per ottenere l’abilitazione al ruolo di allenatore.

L’autore dedica poi ampio spazio alla nascita del Centro Tecnico Federale di Coverciano divenuto dal 1958 il fulcro dell’attività tecnica della FIGC, compresa la formazione degli allenatori.

Gli anni del “miracolo economico” corrisposero ad una fase di decadenza del calcio italiano sul piano internazionale. La ricostruzione tecnica venne affidato a Walter Mandelli, dirigente industriale e vicepresidente della Juventus, che si pose l’obiettivo di dare una preparazione completa agli allenatori professionisti attraverso corsi residenziali estivi che comprendevano lezioni di tecnica calcistica, medicina sportiva, storia degli sport, regolamento di gioco, carte federali e preparazione atletica.

Negli anni Settanta furono ancora una volta le vicende della nazionale a condizionare le scelte federali. Dopo la deludente prestazione dell’Italia ai Mondiali del 1974, il presidente della FIGC Artemio Franchi assunse la guida del Settore Tecnico e affidò ad Italo Allodi, il dirigente sportivo più quotato del momento, il compito di varare un piano per istruire, abilitare e inquadrare gli allenatori aggiornandoli rispetto alle più recenti evoluzioni del calcio e dei sistemi di preparazione. Nel 1977 prese il via il primo Supercorso di Coverciano, di carattere parauniversitario, con un programma articolato che comprendeva anche materie inusuali come sociologia, psicopedagogia, sessuologia, alimentazione. La riforma promossa da Allodi pose Coverciano come “Università del calcio” al centro dell’attenzione internazionale e stimolò la nascita del primo corso per dirigenti di società calcistiche, nel contesto di una sempre più marcata industrializzazione del football italiano.

Dopo la vittoria della Coppa del Mondo nel 1982, l’incompatibilità tra Bearzot e Allodi portò all’esclusione di quest’ultimo dai vertici del Settore Tecnico e ad una restaurazione della vecchia impostazione dei corsi, sul piano organizzativo e nei programmi che includevano come materie primarie la tecnica e la tattica calcistica, seguite dalla preparazione fisica. Alla fine del decennio, con la nomina di Giancarlo Abete alla presidenza del Settore Tecnico i corsi conobbero un nuovo salto di qualità. La Scuola Allenatori fu profondamente rivista, con un mutamento di orizzonte nella didattica: maggiore spazio venne dato alla cultura, sportiva e scientifica, e agli scambi con le realtà calcistiche europee ed extra europee.

L’ultima parte del volume è dedicata alla più recente evoluzione tecnica del calcio. L’autore sottolinea la svolta “cognitivista” del gioco che implica un mutamento di ruolo dell’allenatore. Da un paio di decenni si sono moltiplicate le figure che ruotano attorno alla preparazione dei calciatori e l’allenatore è diventato il punto di riferimento di uno staff al suo servizio. Nello stesso tempo chi allena deve essere in grado di gestire un gioco sempre più variabile e complesso nel quale conta soprattutto la capacità, singola e collettiva, di dare risposte in tempo reale alle situazioni che si creano in campo. Tramontata l’idea di dare una comune identità tecnico-tattica e un medesimo stile di gioco a tutti, il paradigma formativo della Scuola di Coverciano è diventato la flessibilità. In un calcio che si rinnova continuamente, i corsi hanno abbandonato i libri di testo per dare spazio alle diverse letture di una disciplina in movimento che richiede un costante aggiornamento sulle nuove interpretazioni tattiche e filosofie del gioco. Come sostiene il direttore della Scuola Renzo Ulivieri, bisogna «essere meticci, imparare a mescolare le nostre culture».

Nel complesso, ripercorrendo le vicende degli allenatori in Italia in una prospettiva socioculturale, Cervelli propone una panoramica di notevole interesse su un segmento fondamentale del football italiano, fino ad ora trascurato dagli studi storici sul calcio. Il volume colma quindi una lacuna storiografica attraverso una ricerca ricca di documenti e spunti di riflessione utili per comprendere le tendenze di fondo dello sport più seguito dagli italiani e ragionare anche sui suoi possibili sviluppi futuri.