Gino Colaussi ed Ettore Valcareggi
Mito e “contromito” dell’italianizzazione sportiva a Trieste.

Di Nicolò Falchi

(Università di Bologna)

ABSTRACT

The tortuous history of Trieste during the 20th century through the stories of two players: Gino Colaussi and Ettore Valcareggi. The process of Italianisation in Trieste during the fascist period could be seen in the Triestina football player Colaussi’s tale. On the other hand, the story of Valcareggi is a symbol of the Amatori Ponziana affair: a time of tension in which both Italy and Yugoslavia were ‘locking horns’ for conquering the city of Trieste in the context of the Cold War

KEY WORDS: Trieste - coldwar - fascism

Eccellere nello sport non basta per essere un eroe sportivo. E non sempre un eroe sportivo coincide con l’essere il migliore nella propria disciplina. A determinare questo status concorrono diversi fattori: il contesto culturale in cui maturano le loro imprese, così come e quanto la personalità e le scelte di vita dell’atleta si interfacciano e dialogano con la realtà sociale e politica. L’eroe sportivo deve far appassionare, ma anche dividere; deve creare dibattito attorno alla sua figura che deve sopravvivere nella memoria collettiva ben oltre il termine dell’attività agonistica. Le sue gesta e le sue imprese devono, dunque, travalicare quel confine della mera statistica, il cui interesse è circoscritto solo a qualche appassionato di almanacchi1. Tali caratteristiche le troviamo nei calciatori Gino Colaussi ed Ettore Valcareggi, che in maniera differente – e per lunghi tratti antitetica – sono in grado di esprimere valori, ansie e aspirazioni di un contesto complesso quanto affascinante come quello triestino. Se la figura di Colaussi si inserisce perfettamente nel clima politico di italianizzazione e di fascistizzazione sportiva, diventando un riferimento per le aspirazioni della componente filo-italiana della città, quella di Valcareggi rappresenta il tormentato percorso che investe la realtà giuliana nell’immediato secondo dopoguerra. Una città in bilico, contesa fra lo stato jugoslavo e quello italiano, costantemente in balìa delle decisioni delle cancellerie delle potenze occidentali e immersa in uno scenario politico nel quale si dilata sempre di più l’ombra della guerra fredda.

Per portare a termine questo articolo sono state utilizzate diverse fonti: oltre ad una vasta bibliografia sul tema storico e sportivo, ci si è avvalsi della stampa dell’epoca nonché di materiale d’archivio e interviste.

1. Gino Colaussi: il campione dell’italianizzazione sportiva

Il 19 giugno 1938 è una data importante per il regime fascista. Quel giorno la nazionale Italiana di calcio, dopo aver battuto l’Ungheria per 4-2, diventa campione del mondo per la seconda volta ­consecutiva. È un trionfo che gli organi di stampa, sportivi e non, celebrano come un successo di grande portata, che in breve tempo si impone come uno dei fiori all’occhiello della politica sportiva fascista. È noto l’interesse del regime per l’intero settore sportivo, ampiamente fascistizzato per tutto il corso del ventennio e divenuto uno dei tasselli fondamentali del processo di nazionalizzazione delle masse. Ne è prova la costituzione di organizzazioni quali l’Opera Nazionale del Dopolavoro (OND) e l’Opera Nazionale Balilla (ONB) che diventano, nel corso del periodo mussoliniano, delle imponenti organizzazioni in cui il fascismo riesce a costruirsi solide aree di consenso2. Ma è il CONI, sotto la guida di Lando Ferretti, ad assumere una posizione dominante all’interno del sistema sportivo italiano. La sua funzione totalitaria e accentratrice, a partire dal 1932, agisce, di fatto, in simbiosi con il Partito Nazionale Fascista (PNF), rendendo praticamente inutile la creazione di un Ministero dello Sport3. Il regime, dunque, dopo aver messo “la camicia nera” allo sport, si mostra sin da subito reattivo nello strumentalizzare i trionfi calcistici a fini politici, utilizzandoli da un lato come una sorta di termometro per mostrare il vigore dello stato italiano all’estero, dall’altro per cementare l’unità nazionale «esaltando negli italiani un orgoglio nazionalista e rinsaldando un senso di appartenenza al regime»4. Se il mondiale del 1934 è la prima tappa di un percorso che porta l’Italia al vertice del calcio internazionale, quello francese del 1938 rappresenta, di fatto, lo zenit sportivo della nazionale di italiana: un’impresa che entra nella mitologia sportiva degli anni’30 assieme ai successi del ciclista Learco Guerra, del pugile friulano Primo Carnera e di Gino Bartali che, sempre nel 1938, conquista la maglia gialla al giro d’Italia5. È un periodo di svolta per il regime, soprattutto sul fronte della politica estera: l’anno prima l’Italia era uscita dalla Società delle nazioni e, nel settembre del 1938, le leggi razziali vengono annunciate a Trieste6 (la scelta della città giuliana non fu assolutamente casuale). Infine, nel maggio 1939, l’Italia sigla il patto d’acciaio con la Germania nazista. Il trionfo mondiale diventa dunque un’importante occasione sfruttata dal regime per celebrare la propria dimensione internazionale – in un panorama mondiale sempre più agguerrito e competitivo – e per alimentare il mito dell’uomo nuovo fascista, la cui costruzione comincia ad occupare un ruolo chiave all’interno della propaganda. Così scrive il generale Vaccaro nel «Corriere della Sera», il 21 giugno 1938:

Tutti i componenti sono d’accordo nel riconoscere che nei calciatori italiani erano palesi una prestanza e una autorità fisico – morale quali solamente il Fascismo sa forgiare negli individui: ciò che li ha sostenuti in un crescendo sicuro negli incontri più difficili, anche in mezzo all’ostilità del pubblico. E abbiamo anche provato che la nostra organizzazione calcistica è una realtà assai salda. Ripeto come siamo fieri, dirigenti e atleti del calcio, di poter attestare al Duce che nel suo nome ancora una volta abbiamo vinto7.

Grande protagonista del trionfo è un atleta di confine, proveniente dalla Triestina: il suo nome è Luigi Colaussi. Nel corso della competizione – dove mette a segno ben quattro reti – si fa notare come una delle più forti ali dell’epoca. È il classico giocatore di grande corsa e grinta, con l’aggiunta di una spiccata propensione in fase realizzativa. Alle spalle ha una storia diversa dalla maggior parte dei propri compagni. In primis è un ex cittadino dell’impero austroungarico: nasce infatti a Gradisca d’Isonzo, piccolo borgo sottoposto fino al 1918 alla sovranità austriaca8. Inoltre, porta un cognome non italiano: all’anagrafe è infatti registrato come Luigi Colàusig. In ultimo, milita nella Triestina, squadra che acquisisce nel tempo un particolare status all’interno del regime. La Triestina nasce infatti nell’inverno del 1918, pochi mesi dopo l’annessione di Trieste all’Italia. L’intenzione dei suoi fondatori è quella di costituire, sin da subito, un’entità calcistica espressione dell’italianità sportiva di Trieste. Le parole d’ordine dell’allora presidente del club giuliano non lasciano dubbi: «integrale fede patriottica all’Italia e rettitudine sportiva»9. Nel corso del periodo fascista, come dimostrano diversi fattori, questa caratteristica si accentua: la Triestina viene definita più volte come squadra modello dell’estetica fascista10, mentre il regime intraprende la costruzione di una serie di impianti sportivi a Trieste, tra cui lo stadio Littorio nel 1932. Soprattutto, nel corso del 1929, la FIGC decide – tramite un provvedimento ad hoc – di inserire, per finalità patriottiche, la selezione nel massimo campionato11. Per tutto il periodo fascista, dunque, la squadra entra in pianta stabile nella massima serie italiana, diventando, nel tempo, una cerniera fra lo Stato e Trieste. Un vero e proprio vessillo identitario nel confine orientale. Per gran parte degli atleti triestini, infatti, la partecipazione alle competizioni sportive nazionali diventa il veicolo principale attraverso cui cominciano a scoprire il territorio italiano e a percepirlo come proprio. È in questo contesto che Colaussi diventa uno dei più importanti giocatori della squadra giuliana, arrivando a vestire la maglia della nazionale italiana di calcio. Il percorso sportivo dell’atleta gradiscano incarna dunque uno dei maggiori successi di questo processo di integrazione e diventa, nel tempo, uno strumento dell’italianizzazione all’interno delle terre del confine orientale. Un altro importante fattore è l’origine di Colaussi, nello specifico il fatto di possedere un cognome non italiano nella Trieste – assieme a tutta una serie di territori acquisiti dopo la Grande Guerra –sottoposta al cosiddetto processo di italianizzazione forzata. Tale processo, che prende avvio nel periodo immediatamente successivo la prima guerra mondiale dalle forze politiche del Regno d’Italia, viene portato avanti con grande impeto dal regime fascista. Esso porta alla distruzione politica, culturale e sociale di tutte quelle componenti non italiane che vivevano in quei territori; in modo particolare rivelandosi piuttosto brutale nei confronti delle comunità slovene e croate, ritenute una minaccia all’italianità di Trieste e della Venezia Giulia12. Tale sentimento anti-slavo risulta assai radicato già prima dello scoppio della prima guerra mondiale: lo dimostrano le parole di Ruggero Timeus – esponente di spicco dell’irredentismo triestino – le cui idee ottengono un grande seguito nel contesto politico di Trieste:

A noi che la lotta abbia un carattere civile o anticivile non importa nulla […] Se una volta avremo la fortuna che il governo sia quello della patria italiana, faremo presto a sbarazzarci di tutti questi bifolchi sloveni e croati13.

Le autorità fasciste locali, sotto la guida di Francesco Giunta, agiscono dunque sulla spinta di un meccanismo già ben collaudato dalle forze politiche del Regno d’Italia14. In tale teatro l’area della Venezia Giulia diventa uno dei terreni di sperimentazione di pratiche squadriste e di provvedimenti xenofobi che anticiperanno, di fatto, un certo clima politico che culminerà con la promulgazione delle leggi razziali, annunciate da Mussolini proprio a Trieste15. Si comincia da un lato con la chiusura delle principali istituzioni politiche ed economiche slave; contemporaneamente vengono fatte chiudere le sedi dei principali giornali, cui segue la soppressione di moltissime bande musicali, associazioni culturali e società sportive16. Altresì, Tutte le pubblicazioni in sloveno e croato vengono bandite dal territorio, arrivando addirittura a proibire i libri di favole per bambini prodotti in lingua non italiana. Si può parlare solo la lingua dei dominatori17. Contestualmente si procede all’italianizzazione dei toponimi, dei nomi e dei cognomi espressi in lingua slovena e croata. Le modifiche vengono effettuate con grande superficialità, arbitrariamente e senza alcun fondamento scientifico. A tal proposito si riportano i seguenti esempi:

Ricmanjie diviene San Giovanni della Chiesa
Rakitovec diviene Acquaviva della Vena
Dolinam, invece, San Dorlingo della Valle18.

A questo processo non può sottrarsi nemmeno un importante sportivo come Luigi Colàusig. Sebbene nel 1932 fosse ancora possibile trovarlo menzionato nella stampa sportiva con il nome originario, a partire dall’anno successivo, parallelamente al suo affermarsi come uno dei più forti giocatori del panorama nazionale, il suo cognome assume una forma italianizzata. Da quel momento è per tutti gli italiani Colaussi ed è infatti con questo nome che arriva alla notorietà, il cui apice coincide con i mondiali francesi del 1938.

Dopo la vittoria della competizione, sicuramente il punto più alto della carriera del giocatore della Triestina, inizia per lui una lenta parabola discendente. Sportivamente non riesce più ad esprimersi ad alti livelli: dopo un’esperienza fallimentare come calciatore alla Juventus, lascia il calcio giocato per sperimentare la carriera di allenatore, assumendo la guida tecnica di diverse squadre delle serie minori del calcio italiano. Non trovando però particolare fortuna nel campionato nazionale, parte per la Libia, dove assume nel 1969 l’incarico di istruttore di una squadra dilettantistica locale. Ma l’esperienza durerà pochi mesi. L’arrivo al potere di Mu’ammar Gheddafi – proprio nel medesimo anno – determina una svolta sia sul piano istituzionale sia nei confronti delle comunità di italiani, costrette a lasciare il territorio libico in massa19. Tra gli esodati c’è anche Gino Colaussi, che, dopo l’esperienza nordafricana, abbandona definitivamente il mondo del calcio. Da quel momento le cose peggiorano: alcuni investimenti sbagliati lo portano alla soglia della povertà, costringendolo persino a dare in pegno la sua medaglia d’oro dei mondiali francesi. Trascorre gli ultimi anni lontano dalle luci dei riflettori, sostenuto da un vitalizio assegnatoli dalla legge Bacchelli fino al 1991, anno della sua morte20. Tuttavia, l’atleta gradiscano non viene dimenticato, soprattutto nei luoghi simbolo della sua vita e della sua carriera. Le imprese del giocatore persistono infatti nella memoria sportiva di Trieste, come attesta la dedica di una tribuna dello stadio degli alabardati – in concomitanza con l’inaugurazione nel 1992 – e dello stadio Comunale di Gradisca d’Isonzo, suo paese di origine.

Fig. 1: «Il Littoriale: quotidiano sportivo», lunedì 13 giugno 1932.

La figura di Colaussi, dunque, entra nella mitologia sportiva di Trieste: utilizzato da un lato come simbolo dell’italianizzazione sportiva sotto il regime fascista, dall’altro come veicolo per rafforzare il fronte filo-italiano della città giuliana. Il suo percorso sportivo e i trionfi con la nazionale dell’atleta gradiscano sono stati funzionali ad alimentare i sogni e le speranze di quella parte di Trieste ansiosa di stringere il suo legame con l’Italia. Per la componente filo-italiana della città vedere un’atleta del proprio territorio contribuire ai successi dell’Italia rappresenta, infatti, un aspetto rilevante di quel processo di rafforzamento del legame – politico sociale e identitario – fra la città giuliana e l’Italia.

2. Ettore Valcareggi e l’Amatori Ponziana: l’assalto all’italianità
sportiva di Trieste

Questo legame fra Trieste e l’Italia è tuttavia messo in discussione dopo la seconda guerra mondiale. Mentre gran parte del Paese viene liberata, sul confine orientale si scatena la corsa per Trieste21. Con questa espressione – utilizzata dal giornalista Geoffrey Cox – si va ad indicare quel momento in cui da un lato la IV Armata dell’esercito jugoslavo, dall’altro le forze alleate – comandate dal generale neozelandese Bernard C. Freyberg – si contesero il possesso della città. Trieste, a partire dal maggio del 1945, piomba in un periodo di forte incertezza politica e viene investita da una spirale di violenza che darà luogo alle cosiddette foibe giuliane22. Con l’accordo di Belgrado del 9 giugno 1945, le truppe jugoslave sono costrette a lasciare la città, mentre le forze alleate consolidano la propria presenza militare nelle zone del porto e sul litorale triestino23. La situazione fra le parti però rimane tesa: lo stato jugoslavo non sembra disposto a rinunciare alle proprie pretese e l’ipotesi di uno scontro armato non pare irrealistico. Tuttavia, nel febbraio del 1947, a seguito del trattato di Parigi, si cerca di mettere ordine a questa situazione di «sovrapposizione non concordata di zone d’occupazione»24. In base a tale accordo si decide di dividere il territorio corrispondente alla Venezia Giulia in due parti: la Zona A – relativa a Trieste e la sua fascia costiera – sotto l’autorità anglo-americana, e la Zona B – comprendente grossomodo l’Istria nordoccidentale – governata dalla Jugoslavia25. Inizia ufficialmente l’era del TLT, il Territorio Libero di Trieste. In questo periodo la “questione di Trieste” diventa un tema caldo all’interno delle cancellerie delle potenze del blocco occidentale – Stati Uniti e Gran Bretagna in primis –, e in quella dell’Unione Sovietica, andando a configurarsi come uno dei primi epicentri della guerra fredda26. Contemporaneamente comincia a montare il desiderio del nuovo governo italiano di rientrare in possesso della città, ma questa è profondamente divisa. Trieste diventa infatti teatro sia di continue manifestazioni del fronte filo-italiano che si batte per la riannessione del territorio, sia della componente comunista che rivendica la consegna della città alla Jugoslavia.

Fig. 2: «Il Lavoratore», 26 luglio 1946.

È in questo contesto di incertezza e tensione che emerge la vicenda dell’Amatori Ponziana. La società sportiva – nata da una costola dello storico sodalizio triestino Circolo Sportivo Ponziana 1912 – viene integrata nel nuovo massimo campionato nazionale Jugoslavo, la Prva Liga27. Ponziana è nota per essere il quartiere operaio di Trieste: è composto in maggioranza da sloveni e da filocomunisti, molti dei quali avevano militato nelle file dell’esercito jugoslavo durante la resistenza28. È il quartiere delle osterie, dei vicoli stretti e delle piccole botteghe, ma anche dell’Arsenale, dei cantieri operai, delle dimostrazioni antifasciste degli anni ‘20 e di quelle comuniste dell’immediato dopoguerra. Da quelle parti i vessilli e l’inno italiano non scaldano il cuore, sono visti come l’oppressione fascista, l’erosione dei diritti dei lavoratori e del potere dei sindacati29. L’annessione alla Jugoslavia viene percepita, in quel periodo, come la via di accesso più semplice verso “il mondo socialista” rispetto ad un Italia ancora a forte rischio reazionario. Altresì, il mito del successo della Resistenza partigiana – che aveva portato a termine la liberazione e la rivoluzione autonomamente – esercita grande attrazione tra le masse popolari triestine e non solo. Come ha affermato Pavone:

La Jugoslavia è l’unico paese europeo in cui la Resistenza si sia svolta come riuscita rivoluzione politica e sociale30.

Molti triestini avevano combattuto fra le fila della Resistenza jugoslava – la cui egemonia sulla Venezia Giulia era evidente –assorbendone, col tempo, aspirazioni e rivendicazioni nazionali. La “via jugoslava” rappresenta un mito in quel periodo, per molti un ponte ideale verso l’Unione Sovietica:

Questi italiani avevano scelto di abbracciare l’opzione jugoslava poiché, anche sotto l’influenza della propaganda, erano convinti di venir annessi ad uno stato che faceva parte della grande famiglia socialista con a capo l’Unione Sovietica31.

Nel Ponziana Amatori vengono coinvolti numerosi giocatori professionisti italiani, tra i quali Euro Giannini (che in seguito fece un’ottima carriera nella Triestina) ed Ettore Valcareggi (fratello del più noto ex allenatore della Nazionale italiana dal 1967 al 1974), attirati, a quanto raccontano, dai copiosi stipendi elargiti dalla federazione jugoslava. Non ci è dato sapere fino a che punto si tratti di adesione ideologica o desidero di aumentare il proprio tenore di vita, ma, almeno nel caso di Valcareggi, è lo stesso atleta ad attestare che fosse la questione economica quella preminente:

Il campionato è già iniziato. Valcareggi riceve una telefonata. Dall’altra parte del filo, un dirigente dell’Amatori Ponziani. L’offerta che gli viene fatta ha dell’incredibile: un milione di ingaggio. «A Legnano – racconta Valcareggi – stavo bene, ma un milione di ingaggio, di fronte alle 300.000 lire che ricevevo, era un’occasione troppo ghiotta32.

Ciò dimostra l’intenzione di Tito di investire in questo progetto, diretto ad accattivare per la causa jugoslava fasce sempre più consistenti di popolazione triestina. L’attività sportiva dell’Amatori Ponziana comincia con una tournée di presentazione in Jugoslavia, dove affronta una delle migliori compagini jugoslave, la Stella Rossa di Belgrado. Seguono altre amichevoli col Partizan, col Metalac, nel corso delle quali la squadra triestina viene accolta da manifestazioni di entusiasmo e da «discorsi di amicizia e fratellanza»33. L’esordio dell’A. Ponziana nel primo campionato jugoslavo del dopoguerra, la Prva Liga, (fermo dal 1940) è il 2 novembre a Zagabria contro la Lokomotiva e si conclude con pareggio: è l’inizio ufficiale di un percorso calcistico che sarebbe durato tre anni. Trieste diventa il luogo in cui partecipano due squadre nel massimo campionato di due nazioni differenti. La situazione nello specifico è la seguente: la Triestina – sebbene Trieste non fosse più sotto la sovranità italiana praticamente dal 1943 – viene inserita nella riunificata Serie A del 1946, mentre l’Amatori Ponziana va a competere all’interno della Prva Liga. In quel momento l’Amatori Ponziana rappresenta, pertanto, uno dei “cavalli di troia” infiltrato con successo all’interno del tessuto sociale e sportivo della città giuliana: una seria minaccia avvertita da coloro che appoggiano la causa italiana. La scelta di Ettore Valcareggi e dei suoi compagni ripropone in toto le divisioni delle città giuliana: per il blocco filo-comunista egli diventa una sorte di eroe, “quello che stava dalla parte giusta”. Di contro, per il fronte filo-italiano viene definito come un traditore, un corresponsabile – sul piano sportivo – di quella frattura che affligge Trieste in quel momento:

Il “Piccolo” ci disegnava come traditori e venduti al nemico. Alle volte, entrando in qualche locale a Trieste in quegli anni, mi additavano con disprezzo «Guarda Valcareggi dell’Amatori Ponziana!» […] Provavo amarezza, noi giocatori non abbiamo mai mischiato il calcio con la politica. Io non so una parola di slavo, ma giocavo34.

È interessante osservare come nel corso di quel triennio che vede l’Amatori militare nel campionato jugoslavo, si giochi a Trieste una vera competizione extra-sportiva e propagandistica, che vede schierate da una parte la stampa italiana, ovviamente a favore della Triestina, e dall’altra la stampa filo-slovena-comunista che difende la causa e le istanze dell’Amatori Ponziana. In maniera particolare è la Dc – nella persona di Giulio Andreotti – che si mostra particolarmente attiva nel sostenere le cause del sodalizio giuliano. Dall’archivio della Triestina è infatti possibile risalire ad alcune lettere nelle quali l’allora Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri si impegna a sostenere finanziariamente la società alabardata35.

Fig. 3: L’Unione Sportiva Triestina ad Andreotti, 12 agosto 1947.

A S.E. On. Andreotti - Roma
Come vede la richiesta di un aumento dell’aiuto è giustificata dall’evidenza delle cifre. Al riguardo ritengo le abbia telefonato anche l’ing. Bartoli.
La prego voler gradire Eccellenza il rinnovato ringraziamento per quanto ha fatto e potrà fare a favore nostro e della Libertas.

p. Unione Sportiva Triestina
(T. D’Errico)

Che la questione diventi sempre più importante è evidente da ciò che succede alla fine della stagione sportiva 1946-1947. Nel corso di quel campionato sia la Triestina sia l’Amatori Ponziana retrocedono sul campo nei rispettivi campionati. Tuttavia, grazie all’intervento della stampa e dei rispettivi governi – è assai vigoroso il sostegno della Dc a favore della squadra giuliana – vengono salvate attraverso una norma ad hoc36. In questa guerra fredda del calcio nessuno dei due governi nazionali voleva privarsi della presenza della squadra triestina nel proprio campionato37. L’estate del 1947 è pertanto scandita da un pressing impetuoso di stampa e del governo italiano nei confronti della federazione sportiva nazionale per ottenere il salvataggio della squadra giuliana. Particolarmente appassionato è l’intervento del deputato Zaccagnini che sollecita addirittura il Coni intervenire per mantenere la Triestina nella massima serie

Tale retrocessione, che in tempi normali costituirebbe niente altro che un episodio, assume nel momento attuale un significato che esula dal settore sportivo. Infatti, la partecipazione dell’Unione Sportiva Triestina al campionato ha rappresentato lo scorso anno uno dei pochi vincoli che ancora uniscono Trieste alla Madre Patria. Un vincolo cui hanno partecipato idealmente tutti i triestini. Di importanza ancora maggiore risulta il problema, ove si consideri che a Trieste un’altra società disputa il campionato di calcio, che non è quello italiano. L’Amatori Ponziana, aiutata con larghezza di mezzi e potenziata in ogni modo, parteciperà anche il prossimo anno al più importante campionato di calcio jugoslavo, per cui la manifestazione di quest’ultima società, qualora si verificasse la deprecata retrocessione dell’Unione Sportiva Triestina, risulteranno le più importanti a Trieste. Dal punto di vista tecnico, il mantenimento della Triestina nella divisione A può essere deliberato senza ledere le regole del campionato: infatti, o si potrebbe, come già altre volte è stato fatto nel passato, non procedere per quest’anno alla retrocessione di alcune squadre, o si potrebbe tenere conto di un particolare tutt’altro che trascurabile, quale quello che l’Unione Sportiva Triestina ha giuocato la prima parte del campionato scorso senza il notevole vantaggio del fattore campo38.

Nondimeno è la stampa filo-jugoslava Jugoslava a tessere le lodi dell’Amatori Ponziana. È il «Primorski Dvenik», testata di riferimento per la comunità slovena di Trieste, a seguire con grande attenzione il percorso della squadra triestina nel calcio Jugoslavo. In un articolo dell’ottobre 1947, “Vratar je resil “Ponziana pred hujaim porazom”, inserito all’interno della sezione Fizkultura (la sezione sportiva), viene per esempio descritta la trionfale accoglienza riservata al Ponziana dagli oltre 10.000 spettatori in occasione della partita contro il Metalac (squadra di Zagabria), e di come ai giocatori siano regalati una stella rossa e dei fiori39.

Fig. 4: «L’Espresso», 23 giugno 1947.

Fig. 5: «Primorski Dvenik», 7 ottobre 1947.

Questa controversia sportiva italo-jugoslava dura fino al 1948, momento nel quale un importante evento internazionale provoca un terremoto all’interno dell’universo comunista: è la “crisi del Cominform”. Tale evento ha come conseguenza l’espulsione della sezione jugoslava dall’assemblea dei paesi comunisti per tutta una serie di motivi: il PCU accusa il maresciallo Tito di aver condotto una «politica indegna nei confronti dell’URSS»40, di aver rifiutato di rendere conto dei proprio atti politici al Cominform; di aver intrapreso un percorso di deviazionismo ideologico dai principi marxisti-leninisti; e, infine, addirittura di essere una spia imperialista. La rottura ha un effetto dirompente sul fronte comunista triestino, ora diviso fra i sostenitori dei due leader. Nella Zona A, Il PCTLT si spacca in due: da una parte i comunisti italiani guidati da Vittorio Vidali, dall’altra quelli sloveni capeggiati da Babic41.

Nella Zona B e all’interno della Jugoslavia, le ripercussioni per i “cominformisti” hanno addirittura un esito drammatico. L’OZNA42 intraprende una violenta campagna di epurazione verso i non allineati: moltissimi comunisti italiani, trasferitisi in Jugoslavia durante “l’infatuazione socialista” del dopoguerra, sono trattati alla stregua di oppositori politici: vengono pedinati, perquisiti e arrestati. Molti di loro subiscono il confinamento nel gulag di Goli Otok, dove sono sottoposti a torture, pestaggi e brutali interrogatori43.

A Trieste, intanto, si dissolve quell’apparato politico culturale italo-sloveno che aveva caratterizzato la città sino a quel momento. Chiudono tutta una serie di associazioni culturali e politiche e, ovviamente, numerose società sportive. Ma soprattutto, vengono interrotti i finanziamenti all’Amatori Ponziana che, retrocessa nella seconda divisione, si dissolve. Molti di questi giocatori tornano giocare in Italia, ma solo dopo aver scontato una squalifica di 6 sei mesi inflitta dalla Lega Calcio44. Ettore Valcareggi non è tra questi: chiude infatti la sua esperienza calcistica proprio in concomitanza con quella jugoslava45.

3. Conclusioni

Con la fine dell’esperienza dell’Amatori Ponziana, termina un periodo di fortissima tensione, che ricalca sul piano sportivo la controversia confinaria tra Italia e Jugoslavia, in uno scenario internazionale che comincia ad essere dominato dalla guerra fredda46. Se con Colaussi si è cercato di analizzare il processo di massima italianizzazione di Trieste, con Valcareggi e la vicenda dell’Amatori Ponziana si indaga un periodo di fortissima contrapposizione, evidenziando la crisi di quella retorica che presentava Trieste come la città “italianissima”. Pertanto, Gino Colaussi ed Ettore Valcareggi restano due figure sportive attraverso le quali è possibile leggere due momenti ma anche due aspetti della conflittualità sportiva e politica della città giuliana. Sottoposta in primis ad un fortissimo processo di fascistizzazione – e italianizzazione – e, dal secondo dopoguerra in poi, inserita prepotentemente in un groviglio di dinamiche e tensioni scaturite dalla guerra fredda.

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1 Cfr. D. Marchesini, Eroi dello sport. Storie di atleti, vittorie, sconfitte, Bologna, Il Mulino, 2016.

2 Per un approfondimento sul ruolo dell’Opera Nazionale del Dopolavoro e sull’Opera Nazionale Balilla cfr. V. De Grazia. Consenso e cultura di massa nell’Italia Fascista, Roma-Bari, Laterza, 1981 e F. Fabrizio, Sport e fascismo: La politica sportiva del regime, 1924-1936, Rimini-Firenze, Guaraldi, 1976.

3 Sul ruolo istituzionale del CONI sotto il fascismo cfr. E. Landoni, Gli atleti del duce. La politica sportiva del regime, Milano; Udine, Mimesis, 2016; F. Bonini, Le istituzioni sportive italiane: storia e politica, Torino, Giappichelli, 2006. pp. 106-13 e P. Dogliani, Il fascismo degli italiani. Una storia sociale, Torino, Utet, 2009, pp. 199-222.

4 G. Di Candido, Calciatori in camicia nera. Lo sport più amato dagli italiani durante il fascismo, Roma, Edizioni associate, 2006, p. 68.

5 A. Papa, G. Panico, Storia sociale del calcio in Italia, Bologna, Il mulino, 2002, p. 192.

6 A tal proposito cfr. A. Vinci, Sentinelle della Patria: Il fascismo al confine orientale 1918-1941, Roma-Bari Editori Laterza, 2011, p. 233.

7 Dichiarazioni del gen. Vaccaro, in «Corriere della Sera», 21 giugno 1938, cit. da A. Bacci, Mussolini, il primo sportivo d’Italia. Il duce, lo sport, il fascismo. I grandi campioni degli anni Trenta. Ivrea, Bradipolibri, 2013, p. 90.

8 I fondi documentari dell’Archivio di stato di Trieste (2015) a cura di U. Cova; [https://www.archiviodistatotrieste.it/web/files/Patrimonio/Guida%202015.pdf] p. 19 (ultimo accesso 31 luglio 2018).

9 L. Dibenedetto, I Pionieri alabardati, Milano, s.n, 2012, p.37.

10 In un articolo dal titolo “Camerati in campo e fuori”, così veniva definita la squadra alabardata «Ho conosciuto molte squadre ma non ricordo di aver vissuto con una che più della Triestina abbia radicato il senso della disciplina e lo spirito cameratesco. Una simile situazione mi fa pensare che il programma dei dirigenti triestini di tutti i tempi sia stato imperniato sulla formazione della squadra come elemento collettivo spesso addirittura a scapito delle varie individualità» cit. da ASTs (Archivio di stato di Trieste), Oggetto n. 246, Unione Sportiva Triestina, II 27 B.

11 Di Candido, op. cit., 47.

12 Cfr. L. Čermelj, Sloveni e croati in Italia tra le due guerre, Trieste, Editoriale stampa Triestina, 1974.

13 R. Timeus, Scritti politci (1911-1915), a cura di G. Q. Giglioli, Trieste, Tip. del Lloyd triestino, 1929, cit. da Kersevan, op.cit., p, 25. Si segnala inoltre la sua biografia: D. Redivo, Ruggero Timeus. La via imperialista dell’irredentismo triestino, Trieste, Edizioni Italo Svevo, 1995.

14 Vinci, op.cit., p, 55.

15 Ivi, p, 233.

16 Tuttavia non ci si limita solo alla chiusura di sedi e istituti, infatti diversi centri di potere slavi subirono conseguenze ben più gravi. Un caso eclatante fu l’incendio del Narodni Dom, fulcro economico e culturale delle comunità slave di Trieste, la cui responsabilità è da attribuire ad un gruppo di squadristi fascisti. Si veda M. Cataruzza, L’Italia e il confine orientale, Bologna, Il Mulino, 2007, p. 143.

17 Cfr. Vinci, op. cit., p,. 164.

18 Čermelj, op. cit., p. 140.

19 Con l’arrivo al potere di Gheddafi, che rovescia la monarchia di re Idris, si diffonde un clima di profonda ostilità verso la presenza italiana nel paese. Il 7 ottobre del 1970, divenuto celebre con il nome di “giornata della vendetta”, viene emanato un decreto ufficiale nel quale si decide di espellere circa 20.000 italiani: cfr. http://www.repubblica.it/2004/j/sezioni/esteri/libiaemba/libiaemba/libiaemba.html (ultimo accesso 31 luglio 2018).

20 Cfr. Assegno vitalizio al calciatore Colaussi, «L’Unità», 4 Giugno 1986.

21 G. Cox, The race for Trieste, London, William Kimber, 1977.

22 Non è questa la sede per approfondire un tema così complesso e dibattuto come quello delle foibe giuliane. Si riporta tuttavia la definizione data da Pupo e Spazzali: «Quando si parla di “foibe” ci si riferisce alla violenza di massa a danno di militari e civili, in larga prevalenza italiani, scatenatesi nell’autunno del 1943 e nella primavera del 1945 in diverse aree della Venezia Giulia che nel loro insieme procurarono alcune migliaia di vittime. È questo un uso del termine consolidatosi ormai, oltre che nel linguaggio comune, anche in quello storiografico, e che quindi va accolto, purché si tenga conto del suo significato simbolico e non letterale». Sebbene nella memoria collettiva siano state considerate “infoibate” tutte le persone uccise dai partigiani sloveni, croati e dagli italiani filo jugoslavi, solo una parte morì direttamente nelle foibe. La maggior parte di esse perì invece nelle marce di trasferimento verso le carceri o nei campi di prigionia presenti in varie zona della Jugoslavia; cfr. almeno. R. Pupo, R. Spazzali, Foibe, Milano, Mondadori, 2003, p. 2; J. Pirijevec, Foibe, Torino, Einaudi, 2009; C. Colummi, Storia di un esodo. Istria 1945-1956, Trieste, Istituto regionale per la storia del Movimento di liberazione del Friuli-Venezia Giulia, 1980; P. Purini, Metamorfosi etniche: i cambiamenti di popolazione a Trieste, Gorizia, Fiume e in Istria:1914-1975, Udine, Kappa Vu, 2010 e G. Oliva, Foibe: le stragi negate degli italiani della Venezia Giulia e dell’Istria, Milano, Mondadori, 2002.

23 In base all’accordo, sottoscritto dal generale Morgan e Jovanovic, si decide di costituire una linea di demarcazione militare – denominata appunto Morgan – che avrebbe dovuto garantire le vie di comunicazione fra Trieste e le zone di occupazione alleate in Austria e in Baviera tutelando gli interessi italiani nella Venezia Giulia.

24 R. Pupo, La città in bilico 1945: la corsa per Trieste, 2014, [https://www.youtube.com/watch?v=Xd3Zw_shc0Y (ultimo accesso 22 marzo 2018)].

25 A tal proposito cfr. G. Valdevit, La questione di Trieste, 1941-1954. Politica internazionale e contesto locale, Milano, Franco Angeli, 1986.

26 «Da Stettino sul Baltico a Trieste sull’Adriatico una cortina di ferro è calata sul continente», con questa famosa frase Churchill designava la città giuliana come un confine dell’emergente guerra fredda. Per le potenze del blocco occidentale Trieste costituiva l’ultimo baluardo contro il dilagare del comunismo in Italia e nel resto dell’Europa. Dalla prospettiva sovietica e jugoslava, il centro rappresentava invece la finestra sul mediterraneo dell’entroterra danubiano: la porta attraverso la quale il mondo comunista poteva esercitare la sua influenza politica sull’Italia settentrionale; cfr. G. Valdevit, Dalla crisi del dopoguerra alla stabilizzazione della politica istituzionale, Torino, Einaudi, 2002, p. 611. Per un ulteriore approfondimento sulla “questione di Trieste” cfr. Valdevit, La questione di Trieste, op. cit.; D. De Castro, Il problema di Trieste: genesi e sviluppi della questione giuliana in relazione agli avvenimenti internazionali (1943-1952), Bologna, Cappelli, 1953 e M. Cataruzza, op. cit.

27 Nello specifico un dirigente della società Circolo Sportivo Ponziana 1912, Antonio Boltar, provoca una scissione nella società costituendo l’Amatori Ponziana iscrittasi nel 1946 al campionato jugoslavo. A tal proposito cfr. G. Sadar, Una lunga giornata di bora. Trieste e la Triestina, storie di calcio attraverso terre di confine, Firenze, Lìmina, 2003, p. 52. Si segnala inoltre F. Archambault, Le Football à Trieste de 1945 à 1954. Un affaire d’Etat, in «Vingtième Siècle. Revue d’Historie», n.11 (2011), pp. 49-58 e N. Sbetti, N. Falchi, Trieste val ben una sassata, Roma, Aracne, 2018.

28 Secondo il giornalista Giacomo Scotti, prima dell’8 settembre passano alle file dell’EPLJ come volontari oltre 1000 italiani, raggiungendo – all’indomani dell’armistizio – il numero di 40.000. Si può tranquillamente considerare la Resistenza partigiana jugoslava come la palestra politica della nascente Resistenza italiana. Nel quadro del movimento jugoslavo molti italiani maturano il loro sentimento antifascista e ottengono gli strumenti per combattere il regime. La Resistenza balcanica ispira anche la creazione dei comitati di liberazione, del Corpo volontari della libertà nelle “zone libere” e degli organi di stampa partigiana. Sempre l’esempio slavo indica inoltre la strada del coinvolgimento nella lotta di tutti gli strati sociali, tanto che si può parlare della Resistenza jugoslava come di un “fratello maggiore” di quella italiana.

29 Sul ruolo dell’antifascismo nella Venezia Giulia si veda E. Apih, Italia, Fascismo e Antifascismo nella Venezia Giulia (1918-1943), Bari, Editori Laterza, 1966.

30 C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Torino, Bollato Boringhieri, 1991, p. 223.

31 N. Troha, Chi avrà Trieste? Sloveni e italiani tra due Stati, Trieste, Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia, 2009, p. 45.

32 Sadar, op. cit., p. 56.

33 Ivi, p. 53.

34 Ivi, p. 57.

35 ASTs (Archivio di stato di Trieste), Oggetto n. 246, Unione Sportiva Triestina, II 27 B.

36 Il 29 luglio 1947, l’assemblea nazionale della FIGC riunita a Perugia decreta all’unanimità il “salvataggio” della Triestina, incrementando il numero della società da 20 a 21, istituendo un turno di riposo a rotazione. Cfr. Papa, op.cit., p. 257.

37 La creazione dell’ufficio per le zone di confine, sotto la responsabilità del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Giulio Andreotti (in carica dal1947 al 1954), fu un importante strumento per la strategia politica del governo italiano nelle aree italiane di frontiera. A tal proposito si suggerisce la lettura del volume La difesa dell’italianità. L’Ufficio per le zone di confine a Bolzano, Trento e Trieste (1945-1954), a cura di D. D’Amelio, A. Di Michele, G. Mezzalira, Bologna, il Mulino, 2015.

38 ACS, PCM 1944-47, fasc. 3-2-5, n°116278, cit. da N. Sbetti, Giochi diplomatici. Sport e politica estera nell’Italia del secondo dopoguerra (1943-1953), tesi di dottorato, Università di Bologna a.a. 2014-2015, relatrice Giuliana Laschi.

39 Vratar je resil “Ponziana” pred hujaim porazom, in «Primorski Dvenik», 7 ottobre 1947.

40 J. Pirjevec, Tito, Stalin e L’Occidente, Opicina, Villaggio del fanciullo, 1985, p. 173.

41 Il ritorno di Vittorio Vidali a Trieste nel 1947 modifica gli equilibri all’interno del PCTLT: il politico accusa la dirigenza slovena di aver abbandonato l’internazionalismo proletario e di seguire esclusivamente delle logiche nazionaliste. Purini, op. cit., p. 247.

42 L’Ozna era l’apparato per la sicurezza nazionale jugoslava, operativa dal 1944.

43 G. Scotti, Goli Otok, Italiani nel Gulag di Tito, Trieste, Lint, 1991, p. 97.

44 G. Sadar, op. cit., p, 64.

45 Cfr. http://ilpiccolo.gelocal.it/sport/2017/03/04/news/addio-a-ettore-valcareggi-in-gioventu-anche-lui-calciatore-1.14979261 (ultimo accesso 31 luglio 2018).

46 Si ricorda brevemente la vicenda del 30 giugno 1946 quando, nel corso della tappa Rovigo-Trieste, la carovana del giro d’Italia viene bloccata dell’intervento dei militanti filo-jugoslavi. I titini, in particolare, lanciano pietre e spargono chiudi lungo il percorso, bloccando i ciclisti nei pressi del paesino di Pieris, a pochi km da Monfalcone; cfr. D. Marchesini, L’Italia del giro d’Italia, Bologna, Il Mulino, 1996.