I Maori e il rugby
Appropriazione e ideologia

Cristiano Poluzzi

(Società italiana di storia dello sport)

ABSTRACT

The paper examines the nature of the bond between rugby and New Zealand’s Maori. Starting from a general overview on the birth of modern team sports as ideological tools of imperialism, the essay focuses on the case of New Zealand where Maoris, minority ethnic group, managed, not without contradictions, to appropriate a foreign tool until overturning the balance of power in the British-led rugby universe.

KEY WORDS: Maori – Rugby Union – Imperialism

1. Introduzione

Il saggio si propone di affrontare l’analisi del processo sportivo e socio-culturale con cui i Maori della Nuova Zelanda si sono appropriati del rugby. Come è stato possibile che il più imperiale degli sport moderni, uno degli strumenti ideologici al servizio della borghesia vittoriana, si sia trasformato in meno di due secoli in un elemento della cultura maori?

Gli sport moderni iniziarono a diffondersi e praticarsi nell’Inghilterra della Rivoluzione Industriale, allorché il capitale trasformò un’attività ludica in una merce. Gli sport nel loro insieme divennero inoltre strumenti ideologici per legittimare le trasformazioni dei rapporti di produzione prodotte dal capitalismo1.

La moderna industria dell’intrattenimento sportivo con la sua diffusione su scala globale iniziò a strutturarsi solo nella seconda metà del XIX secolo, quando la tendenza alla concentrazione e la successiva formazione dei monopoli determinò il passaggio alla fase dell’imperialismo. In questo nuovo quadro, crebbe la popolarità degli sport, anche e soprattutto fra il proletariato. Sport socialmente esclusivi, quali cricket, calcio e rugby, si trovarono dinanzi ad un bivio, con la borghesia che temeva di perdere le proprie posizioni di dominio sportivo a vantaggio del proletariato. Se il calcio, tramite i precursori dell’imprenditoria sportiva, si aprì ad una commercializzazione di massa e al professionismo, il rugby si oppose strenuamente ad ogni novità.

Sport tradizionalmente conservatore e monopolizzato nei suoi vertici dalla middle class, il rugby contrastò quell’avvento del professionismo, che permise al proletariato di emanciparsi tramite le attività sportive. La difesa del dilettantismo, a costo della pesante scissione del rugby league (rugby a tredici) avvenuta nel 1895 e mai ricomposta, permise al rugby di consolidarsi in ogni sua componente, dal club alle federazioni nazionali, come sport emblema della borghesia britannica.

Nella seconda metà del XIX secolo anche il rugby, al pari degli altri sport di squadra, venne utilizzato nelle colonie come strumento per formare élite locali fedeli al potere britannico e “civilizzare” le popolazioni sottomesse, secondo l’agghiacciante leitmotiv del “White Man’s Burden”. Un ruolo determinante nella diffusione di una cultura sportiva globale venne giocato dal sistema scolastico vittoriano, razzista e divisivo, impiantato in ogni colonia. Malgrado il rugby fosse funzionale al mantenimento dell’ordine costituito, nel quale non v’erano margini d’autonomia politica per le popolazioni dominate, la borghesia non riuscì a sciogliere le contraddizioni insite nella cultura sportiva che aveva generato.

Le rivalità sportive fra i dominions contribuirono a rafforzare sentimenti nazionalisti nelle colonie. Allo stesso modo i Maori finirono con l’utilizzare il rugby come un contenitore ove inserire gli antichi parametri ideologici di una cultura destinata altrimenti ad essere spazzata via dall’imperialismo. Con l’allentamento dei legami di dipendenza dalla madrepatria al termine della seconda guerra mondiale, le rivendicazioni dei Maori trovarono maggior consistenza, parallelamente al graduale processo di indipendenza della Nuova Zelanda. Il rugby è rimasto un sottoprodotto ideologico di una più vasta ideologia culturale - la cultura sportiva della società capitalistica - passato nelle mani dei nativi neozelandesi non senza un inasprimento delle contraddizioni nel rapporto fra gli stessi e i discendenti dei coloni britannici (i Pakeha)2.

Il saggio, che fa prevalentemente ricorso a fonti edite, si avvale di contributi vari, spaziando dalla storiografia alla sociologia e all’antropologia. Basilari, nell’analisi di classe degli sport moderni e del rugby, si sono rivelati alcuni lavori dello storico inglese Tony Collins. Sull’importanza giocata dal sistema di istruzione vittoriano nella formazione delle nuove generazioni indigene si rimanda ad alcuni saggi dello studioso neozelandese Brendan Hokowhitu. Inoltre è stato fatto ricorso ai lavori di John Agard Pocock, fra i più importanti storici neozelandesi, e di Alberto Corteggiani, per delineare in maniera il più esaustiva possibile i principali momenti della storia contemporanea della Nuova Zelanda e della precedente società tribale maori. Il saggio, malgrado i limiti connessi alla sua intrinseca brevità, si propone di individuare alcuni elementi che hanno indotto i Maori ad appropriarsi del rugby, provando a tracciare i contorni di una più complessiva ideologia di questo sport, il cui approfondimento potrebbe rivelarsi oggetto per future e più esaustive ricerche.

2. Il rugby in Nuova Zelanda: le origini

«La Nuova Zelanda è praticamente appena nata che comincia a giocare a rugby»3 scrivono Luciano Ravagnani e Pierluigi Fadda nella loro monumentale opera sul rugby. Guardando oltre alcune imprecisioni storiche dettate dallo stile giornalistico, già nel 1870, trent’anni dopo il Trattato di Waitangi e nel pieno delle guerre fra inglesi e Maori per il possesso delle terre fertili, sulla stampa locale si dava notizia del primo match fra due club della cittadina di Nelson4. Di lì a poco, nel 1892, nacque la federazione neozelandese, la New Zealand Rugby Union, (Nzru); è del 1883, invece, il primo tour di una selezione neozelandese all’estero, nella vicina Australia, guidata dal giovanissimo maori Dave Gage (1868-1916)5.

L’introduzione del rugby ad Aotearoa (la Nuova Zelanda in lingua maori) fu un processo inquadrato all’interno del più vasto fenomeno della nascita degli sport moderni nel corso del XIX secolo. Già nel Settecento, con l’esplosione della rivoluzione industriale in Inghilterra, il nascente capitalismo creò i presupposti per la trasformazione degli antichi giochi e tornei fieristici nei moderni sport di massa. Il crescente peso di scommesse e gioco d’azzardo, unito alle intuizioni dei precursori dell’imprenditoria sportiva in ricerca di profitti, determinò la trasformazione dello sport in merce, al pari dei prodotti industriali. La logica del modo di produzione capitalistico volta alla ricerca del profitto comportò la nascita di una nuova ideologia culturale, avente nella competizione sportiva l’equivalente del liberalismo in politica. In definitiva lo sport moderno giocò un ruolo chiave nell’espansione del capitalismo sul piano ideologico, fino ad essere interpretato come «capitalismo in gioco»6.

In Nuova Zelanda, come nel resto dell’Impero britannico, la diffusione dello sport e in particolare del rugby si potenziò nella seconda metà dell’Ottocento, nell’età dell’imperialismo, quando gli sport moderni vissero quella che lo storico Tony Collins ha definito la loro “rivoluzione industriale”: la trasformazione dello sport da passatempo ludico a industria di intrattenimento di massa7. L’imperialismo con i suoi risvolti ideologici (estensione nelle colonie di un sistema giuridico, di una limitata rappresentanza politica e di un’istruzione borghese sul modello britannico) implementò le trasformazioni in atto nel mondo sportivo, acuendone la principale contraddizione.

I valori imposti dalla borghesia alla classe operaia in crescita (parsimonia, duro lavoro, moralismo), finalizzati al rafforzamento della disciplina nelle fabbriche e alla nuova organizzazione produttiva basata sulla divisione del lavoro, dovettero fare i conti con il passaggio del capitalismo ad uno stadio superiore. «Il rapidissimo processo della concentrazione della produzione in imprese sempre più ampie», l’esatto opposto della libera concorrenza, aprì le porte all’imperialismo: «il capitalismo divenne imperialismo capitalistico [], allorché alcune qualità fondamentali del capitalismo cominciarono a mutarsi nel loro opposto»8. La definitiva modernizzazione degli sport di squadra si articolò economicamente ed ideologicamente all’interno del mutato contesto.

Nelle colonie britanniche le conseguenze sul terreno sportivo non tardarono a manifestarsi. Anche in Nuova Zelanda gli inglesi, che i Maori iniziarono presto a chiamare pakeha (termine che può tradursi sia come “bianco”, sia come “straniero”), impiantarono una pletora di “aspetti peculiari”, stando all’interpretazione anglofila della storiografia più conservatrice9. Fra questi lo sport divenne presto uno strumento utilissimo per legittimare sul piano ideologico il dominio dei colonizzatori bianchi nel quadro dei nuovi rapporti di produzione capitalistici. Il peso dell’istruzione vittoriana, con le sue impostazioni classiste, nella formazione di élites locali fedeli alla madrepatria fu determinante per diffondere una cultura sportiva nelle colonie. La crescita della commercializzazione degli sport grazie ai primi match fra Regno Unito e dominions contribuì al rafforzamento delle rivalità fra colonie e madrepatria. La competizione, restando saldamente ancorata ai principi del corpus ideologico della comune appartenenza al mondo anglofono a trazione britannica, accrebbe la popolarità nelle colonie di sport quali il cricket (in India) e il rugby (in Australia e Nuova Zelanda)10.

Sport, insieme al calcio, avente nel football il suo antenato storico più vicino, il rugby, nato secondo la leggenda in Inghilterra nel 1823 dall’omonima cittadina in una delle più rinomate scuole private borghesi11, fu trapiantato in Nuova Zelanda in una società tutt’altro che pacificata, come invece pretendeva di stabilire la vulgata dominante. Lo dimostra lo scollamento fra le parole utilizzate dal primo governatore britannico delle due isole, William Hobson, e gli eventi successivi all’entrata in vigore del Trattato di Waitangi:

Le parole di Hobson a Waitangi non hanno bisogno di essere intese - anche se spesso lo sono state - nel senso che Maori e pakeha “sono adesso un unico popolo”. La ragione è che la massiccia presenza di pakeha - la colonizzazione intensiva da parte dei coloni britannici che intendevano appropriarsi della terra a modo loro, per sviluppare una società civile a cui erano abituati, e continuare a vivere sotto la corona riconoscendola come loro governo - non era prevista a Waitangi [...]. Tuttavia, stava cominciando a verificarsi12.

3. Oltre il rugby: il Trattato di Waitangi e la disputa sulla proprietà della terra

Il rugby in Nuova Zelanda fu un portato delle trasformazioni economiche e politiche provocate dall’imperialismo, consolidatesi sul piano ideologico. Si è soliti far cominciare la storia della Nuova Zelanda contemporanea il 6 febbraio 1840, quando funzionari britannici e capi tribù maori firmarono il Trattato di Waitangi, atto formale che dette il via al processo di colonizzazione sistematica delle due isole.

In realtà il trattato fu il punto di arrivo di un processo cominciato a inizio Ottocento, con cui il Regno Unito riuscì a sottrarre le due isole dalle mire espansionistiche della Francia, potenza imperialistica rivale, che vi aveva già insediato alcuni avamposti coloniali. Nel 1836 il Regno Unito si fece garante della protezione della neonata Confederazione delle Tribù Unite13. Creatura politica di James Busby, nominato rappresentante ufficiale in Nuova Zelanda del governo britannico, la confederazione riuniva oltre trenta tribù dell’Isola del Nord e venne utilizzata in ottica antifrancese. Benché non si abbia evidenza di piani francesi di colonizzazione sistematica delle due isole, gli inglesi riuscirono a prevenire sul nascere l’inverarsi dello scenario ipotizzato. Infatti i tentativi di Charles Philippe Hyppolite de Thierry (1793-1864), avventuriero figlio di mercanti francesi, di convincere i governi olandese prima, e francese poi della necessità di stabilire una colonia in Nuova Zelanda furono alquanto maldestri14. Gli inglesi, approfittando dell’atteggiamento freddo della Francia verso le nuove frontiere della colonizzazione oceanica, misero le mani sulle terre e le risorse neozelandesi.

La colonizzazione della Nuova Zelanda venne poi legittimata grazie al Trattato di Waitangi. L’accordo, scritto sia in inglese sia in lingua maori, conteneva ambiguità di fondo sulla questione della proprietà della terra, cuore degli interessi economici britannici. Ancora oggi nella memoria e nella società neozelandesi si sentono le conseguenze di tali ambiguità: «è nel rapporto con la popolazione Maori che la società neozelandese continua a essere attraversata dalle più profonde contraddizioni, perché la posta in gioco, sulla base del riconoscimento o meno delle clausole dello storico Trattato di Waitangi, è il problema della cittadinanza»15. Waitangi è il principio di una vera e propria memoria storica non condivisa, con opposte rivendicazioni fra gli eredi dei coloni e quelli delle tribù maori. La Nuova Zelanda contemporanea nasce da un paradosso: paese moderno in cui la minoranza maori è riuscita a riconquistare parte dei diritti perduti, ma il cui atto d’origine afferma il principio di diseguaglianza su base razziale fra colonizzatori e colonizzati.

Ben presto gli effetti reali del trattato non tardarono a manifestarsi, generando conflitti che sfociarono in vere e proprie guerre negli anni sessanta del XIX secolo. La controversia principale risiedeva nella concezione della proprietà della terra, che i nativi non concepivano alla stregua dei coloni europei. In Occidente lo sviluppo della proprietà privata della terra alimentò la successiva rivoluzione industriale. I Maori, invece, vivevano in una società tribale che, per quanto politicamente più evoluta rispetto ad altre, vedeva la proprietà della terra con gli occhi del concetto di rangatiratanga (proprietà individuale e collettiva). Come ricordato dallo storico neozelandese John A. Pocock, la capacità e la possibilità di alienare la terra sulla base delle contrattazioni tipiche del capitalismo non veniva concepita dalla popolazione maori. Gli indigeni non avevano familiarità con simili processi di acquisizione e cessione di proprietà, ostili alle loro tradizioni politiche16.

Era dunque il concetto stesso di terra, intesa come proprietà privata, ad essere assente nella società tribale maori. D’altronde le procedure di alienazione della terra finirono con l’essere espressamente citate nella parte in inglese del trattato, ma omesse in quella maori17. La presenza, seppur temporanea, di diverse forme di proprietà della terra in Nuova Zelanda infiammò il conflitto etnico e in seguito anche di classe fra Maori e Pakeha. Al termine delle due successive guerre (1860-61 e 1863-65), gli interessi delle compagnie commerciali e dei coloni inglesi prevalsero, grazie al decisivo sostegno delle truppe britanniche. Fu così garantito anche in Nuova Zelanda il passaggio da un modo di produzione precapitalistico a quello capitalistico. Di conseguenza i Maori

abituati a vivere in un universo di reciprocità, giustizia e vendetta [...], si ritrovarono a vivere in un scenario di modelli mutevoli, in cui la novità doveva essere assunta senza vederne i risultati, nulla era ciò che sembrava, e il Trattato che doveva garantire il rangatiratanga diventò uno strumento con il quale lo persero18.

I Maori si trovarono spiazzati dalle contraddizioni del trattato, nonché dalla sua mancata applicazione. Il trattato d’altra parte, riflettendo l’immagine del diritto come principale ideologia con cui la borghesia consolidò e legittimò la propria ascesa19, non era un atto giuridico stipulato fra due entità paritetiche20. Waitangi si ridusse così a strumento figlio dell’ideologia giuridica della classe proprietaria dei mezzi di produzione: non specificando a quale concezione di proprietà della terra si facesse riferimento, per i coloni fu facile avanzare pretese su terre ricche di risorse da sfruttare. L’opposizione dei Maori alla vendita delle loro terre inasprì la crisi fra coloni e nativi, con questi ultimi visti dai primi come un ostacolo allo sviluppo economico della colonia21. L’accordo fu scritto per avviare un processo di colonizzazione in una delle ultime aree geografiche rimaste libere dallo sfruttamento capitalistico. D’altronde era prevedibile che una società tribale, come quella maori, in cui «la divisione del lavoro è ancora pochissimo sviluppata e non è che un prolungamento della divisione naturale del lavoro nella famiglia»22, finisse con l’essere travolta dalla violenza delle trasformazioni in corso.

La vittoria militare inglese sui Maori intensificò, da un lato, l’espropriazione delle terre tribali da parte di governo, di compagnie commerciali e di singoli coloni privati. Dall’altro, anche grazie alla scoperta dell’oro nell’Isola del Sud nel 186023, il paese visse un incremento demografico che accelerò il processo di urbanizzazione delle due isole. Beneficiari dell’aumento della popolazione furono in prevalenza i Pakeha. I Maori, sconfitti militarmente e politicamente, attraversarono un momento di vera e propria depressione socio-culturale nella seconda metà del XIX, conseguenza del calo demografico causato dalle precedenti guerre: tra il 1858 e il 1896 la popolazione maori scese da 53.000 a 42.000 unità24. Il crollo demografico agì in parallelo al progressivo processo di urbanizzazione e di espropriazione delle terre in precedenza tribali. Basti pensare che ancora nel 1863, tramite il New Zealand Native Land Settlements Act, «il governo confiscò immediatamente all’incirca tre milioni di acri di terra maori, come punizione per la ribellione e per colpire al cuore la sovranità dei Maori»25.

L’urbanizzazione, realizzatasi definitivamente nei decenni centrali del XX secolo, non fu solo l’ovvia conseguenza del processo di accumulazione capitalistica alla base dell’industrializzazione. I Maori la investirono di un significato allegorico: l’abbandono di luoghi di vita secolari.

In questo contesto di generale isolamento si crearono tuttavia i presupposti per una rinascita ad ampio spettro, realizzatasi gradualmente dagli Anni Trenta del XX secolo per influsso di leader politici indigeni quali Sir Apirana Ngata (1874-1950). Tra i Maori presero piede movimenti politici che misero al centro della loro lotta la battaglia per la parità dei diritti. Nonostante le contraddizioni di soggettività organizzate, come lo Young Maori Party, tra l’altro dotato di una sua squadra di rugby26, o di istituzioni scolastiche come il Te Aute College, che miravano ad un’emancipazione indigena entro i ranghi del “civil governement” bianco, i nativi provarono ad uscire dalla loro condizione di sfruttamento. I limiti di tali istituzioni, subalterne alle corrispettive inglesi in quanto ad autonomia, radicalità ed originalità di pensiero politico, non permisero il realizzarsi di una lotta per una piena autodeterminazione, come era accaduto invece in Africa ed in Asia. Le carenze della politica furono parzialmente compensate dalla vivacità del rugby neozelandese. Gli sport moderni, strumenti al servizio dell’imperialismo, iniziarono a venire utilizzati dalle colonie in ottica anti-imperialista solo a partire dal 1945, quando il declino dell’impero britannico era ormai irreversibile27.

Al desiderio di indipendenza dalla madrepatria in Nuova Zelanda si affiancò, rinnovandosi, quello per una piena emancipazione dei Maori, che rappresentano tuttora una minoranza più consistente demograficamente e culturalmente dei vicini aborigeni australiani. Secondo i più recenti dati, resi disponibili dal censimento del 2013, i Maori si attestano intorno alle 598.602 unità, pari al 14,9% della popolazione totale della Nuova Zelanda28. Il rugby divenne presto per questo gruppo etnico uno degli strumenti principali attraverso cui esercitare maggior pressione sulla società neozelandese al fine del riconoscimento dei propri diritti negati dal colonialismo.

4. I Maori e il rugby: tanti perchè

Il mondo del rugby neozelandese è stato caratterizzato dalla attiva partecipazione, mai completamente subalterna, dell’etnia maori, la quale si è riconosciuta sin da subito, per poi appropriarsene in modo quasi esclusivo, nello sport inventato dai Pakeha. Già nel 1872, due anni dopo la prima partita di rugby sul suolo neozelandese, è attestata la presenza di un giocatore maori in un match tenutosi a Wanganui29, capoluogo dell’omonimo distretto dell’Isola del Nord.

L’imperialismo provocò fratture profonde fra i Maori, i quali tentarono di opporsi, senza successo, al disfacimento della loro società. Movimenti di resistenza sorsero, ad esempio, per contrastare in modo sostanzialmente pacifico l’evangelizzazione: si verificò persino una strana commistione fra rifiuto del cristianesimo, finalizzato alla salvaguardia della teologia tribale e del ruolo dei sacerdoti della tribù, i tohunga, e l’interpretazione originale dello stesso. In più di una circostanza le ibride chiese locali furono contenitori che guidarono gli indigeni verso un riscatto sociale e politico (si consideri ad esempio la popolarità delle chiese Ratana e Ringatu)30.

Il rugby farebbe a suo modo eccezione. Grazie alla palla ovale e più in generale allo sport (ma in Nuova Zelanda sarebbe più esatto il contrario, ovvero grazie allo sport e più in generale alla palla ovale), fu possibile per i Maori ritagliarsi uno spazio, entro cui ristabilire i parametri di ridefinizione ideologica della propria identità. L’avvicinamento dei Maori al rugby fu un processo composito, caratterizzato dalla compresenza di più fattori. Vi fu un certo interesse indigeno, che convisse con il placet delle classi dominanti pakeha. A differenza delle chiese e dei blandi movimenti politici indigeni, il rugby non rappresentava un pericolo per l’ordine costituito a causa della sua stessa natura di classe e nacque come «sport della classe media»31, divenendo ben presto uno dei simboli meglio veicolati nella società dall’ideologia imperialista britannica. La squadra, nella sua versione a quindici, divenne l’emblema delle organizzazioni ricreative della borghesia vittoriana. Questo sport, con i suoi valori di disciplina e ordine, ben sintetizzava lo spirito fortemente conservatore della ruling middle class intenta a governare l’Impero, tutelando la sua posizione egemone da ogni possibile minaccia sociale e politica. Come per il cricket in India dopo la rivolta dei Sepoys del 1857, in Nuova Zelanda la diffusione del rugby rispose alla duplice necessità del mantenimento dell’ordine socio-politico e della formazione di un’élite locale appiattita sul modello inglese. La palla ovale venne inoltre utilizzata come tassello per attuare la retorica impossibile dell’unificazione nazionale, ricomponendo la frattura tra Maori e Pakeha.

Uno dei risultati di questo processo fu la nascita di una selezione di soli giocatori maori. Fondato ufficialmente nel 1910 e a tutt’oggi parte integrante, non senza frizioni ed attriti, della federazione, il Maori Team (nome ufficiale: All Blacks Maori) nei fatti esordì durante il fruttuoso tour a cui prese parte la Nuova Zelanda nel 1888 nel Regno Unito. Il collettivo, etichettato dalla stampa inglese con epiteti razzisti conditi dai toni paternalisti tipici della retorica coloniale32, passò alla storia come la squadra dei Natives. Rispetto ai celebri tour del 1905 e del 1924-25, quello del 1888 è stato ingiustamente trascurato dalla storiografia e dal giornalismo sportivo neozelandesi proprio a causa della composizione etnica della squadra33.

Quali altri elementi rendevano uno sport tanto lontano dalle consuetudini tribali così attrattivo per i Maori? Le parole di George Nepia (1905-1986) offrono una preziosa, per quanto parziale e soggettiva, testimonianza sul rapporto fra palla ovale e popolo maori. Giocatore formidabile nel suo ruolo di estremo e una delle icone della rinascita maori dopo la prima guerra mondiale34, Nepia fu, non ancora ventenne, tra i pochi rugbysti maori a prendere parte al tour della nazionale neozelandese nell’emisfero nord tra il 1924 e il 1925. Quella squadra contribuì a scolpire nel mondo il mito degli All Blacks, vincendo tutte le trentadue partite giocate: inevitabile che il collettivo passasse alla storia come The Invincibles. Stando a Nepia, il rugby sarebbe in grado di sprigionare una particolare forma di coraggio da ogni giocatore, da cui deriverebbe la spiccata popolarità fra i Maori35.

Nell’edificare i dominions, la borghesia vittoriana elaborò specifici programmi d’istruzione per la popolazione maori sulla base delle loro capacità fisiche, ben note agli inglesi durante le guerre neozelandesi. Il rugby occupò un posto di rilievo nelle scuole influenzate dal modello elaborato dal rettore della public school di Rugby nel Regno Unito dal 1828 al 1842, Thomas Arnold, che assegnò all’attività fisica un posto di rilievo nella sua rigorosa e severa filosofia pedagogica. «Scuole come la Melbourne Grammar (fondata nel 1858), il college diocesano di Città del Capo (1849) e il College di Nelson in Nuova Zelanda (1856) furono centrali nello sviluppo dei diversi codici del football nei rispettivi paesi»36.

Essendo il rugby un’attività fisica, non stupisce quanto rapidamente si sia diffuso fra i nativi che già nella società tribale svolgevano diversi esercizi e giochi per mantenere allenato il corpo in vista della guerra. La borghesia vittoriana prese la palla al balzo, allestendo un sistema scolastico razzista destinato alla trasformazione dei Maori in lavoratori manuali. In Nuova Zelanda, come ricordato dallo studioso Brendan Hokowhitu:

I Maori, in particolare, ricevettero una “educazione fisica” statale che limitò il loro accesso alle competenze e alle qualifiche necessarie per competere nel mondo del lavoro. La retorica egualitaria dell’istruzione universale per tutti sostenne l’apporto di un’educazione gratuita. Il risultato dell’ “educazione gratuita” fu, tuttavia, una docile forza lavoro progettata per garantire gli interessi della classe media, l’establishment bianco. Con la maggior parte dei terreni di proprietà dei Pakeha, istruire i Maori nelle competenze agricole fu visto solo in funzione dell’aumento dei profitti37.

Dietro l’illusione di un sistema d’istruzione libero e solo in superficie egualitario, prendeva forma la necessità di usare anche lo sport come strumento di controllo sociale. Figlia di questa impostazione fu la creazione di istituti e scuole solo per i Maori, come il Te Aute College, in cui però le discipline tecniche, ritenute dagli inglesi più affini alle specifiche lavorative richieste agli indigeni, prevalevano sulle altre: lo stereotipo razziale del Maori esponente di una «cultura del fare»38 legittimò sul piano ideologico le trasformazioni nei rapporti di produzione che già si stavano verificando. L’innesto in Nuova Zelanda di un modo di produzione che assegnava agli indigeni compiti di manodopera a basso costo rafforzò la divisione della forza lavoro, che vedeva riservati ai nativi i lavori più usuranti e meno qualificati, caratterizzati tutti da un’intensa attività fisica cui erano stati abituati negli istituti tecnici. Ciò indusse i Maori ad emergere in alcuni rami, fra cui naturalmente il rugby: «lo sport venne visto come un settore in cui le positive qualità della fisicità maori potevano essere evidenziate»39.

L’esercizio fisico occupava un posto centrale nella società maori, in particolare nella formazione delle giovani generazioni. Nella società tribale il corpo era oggetto di venerazione ed elemento di crescita, sociale e politica, dell’individuo. Nonostante la rottura operata dall’imperialismo, che spazzò via la concezione religiosa maori del corpo, l’attenzione alla fisicità sopravvisse nel rugby, gioco che si sposava col culto della guerra proprio dei nativi neozelandesi.

5. Il rugby, la guerra e la haka

Diversi storici hanno confermato come i Maori non combattessero per la terra. Tuttavia ciò non significava che i nativi, insediatisi nelle due isole oceaniche fra il IX e il X secolo a seguito di diverse ondate migratorie provenienti dal sud est asiatico, rinunciassero alla guerra come strumento per soddisfare determinati interessi materiali.

Il conflitto armato poteva riguardare tribù rivali o singoli clan (hapu) facenti parte della stessa tribù, impegnati con le armi a risolvere dispute di vario genere. L’aristocrazia tribale (rangatira) si serviva dell’ideologia, la pratica mitico-religiosa dei sacerdoti, per legittimare la guerra. Ai vinti era imposto «una sorta di rapporto di vassallaggio in cui alla relativa autonomia interna dell’hapu sottomesso fa riscontro un annuo tributo (tohu) da versarsi alla tribù dominante e la sottomissione a quest’ultima in questioni di politica esterna»40.

L’oggetto della contesa con i coloni, cioè la proprietà privata della terra, disorientò i Maori, ma non impedì loro di adattarsi al nuovo scenario militare, rinnovando le tattiche di guerriglia per fronteggiare le truppe inglesi. I Maori divennero presto abilissimi nell’uso delle armi da fuoco, nella produzione artigianale di polvere da sparo e nel rafforzamento dei pa (i villaggi fortificati)41.

Nel rugby l’etnia sconfitta trovò un rifugio che riusciva ancora ad esaltare, seppur in ambito sportivo, le qualità bellicose di una cultura altrimenti destinata a soccombere. Il legame instauratosi fra i Maori e il rugby non fu osteggiato dalle autorità coloniali inglesi. L’immagine del rugbysta, da un lato, riproponeva lo stereotipo razzista dell’indigeno indomito ma violento, così popolare nell’immaginario collettivo42. Dall’altro, il gioco stesso era funzionale alla visione conservatrice, classista e ordinata della società coloniale. Le élite vittoriane, stimolando la partecipazione maori al rugby tramite la rete di istituti, scuole e club sportivi, crearono per l’indigeni l’illusione di sentirsi parte di quel mondo britannico che, squarciato il velo dell’ipocrisia borghese, non aveva altro interesse all’infuori del loro sfruttamento come forza lavoro a basso costo.

La crescente presenza di lavoratori nelle squadre di calcio e rugby, tuttavia, comportò un aumento vertiginoso della loro popolarità fra il proletariato nella madrepatria e nelle colonie. I due sport di squadra fornirono un «sentimento di identità di classe», benchè nel rugby «la profonda segregazione sociale e culturale fra le classi fosse molto più marcata»43. La Nuova Zelanda, col rugby utilizzato dai Maori sempre più in chiave identitaria, fu una delle colonie in cui la contraddizione fra ideologia classista del gioco e presenza della classe subalterna nelle sue fila si fece più evidente ed acuta. La trasposizione del culto della guerra maori in ambito sportivo ne è un esempio.

Le analogie tra rugby e guerra hanno trovato conferma in diverse testimonianze, fra cui quella di Matt Te Pou, uno dei più celebri allenatori degli All Blacks Maori. Il tecnico è stato l’artefice di una delle più lunghe strisce di vittorie consecutive di una selezione tuttanera, risollevando la squadra di soli giocatori maori dopo anni di crisi: nel 1995, battendo la franchigia di King Country 44 a 28, la selezione inaugurò una striscia di diciannove vittorie consecutive (fra cui un roboante 62 a 14 ai danni dell’Inghilterra nel 1998), arrestatasi solo nel 2001 contro l’Australia (vittoriosa 41 a 29 )44. Te Pou, sulla panchina della nazionale di soli indigeni per un decennio, dal 1995 al 2005, sviluppò le sue riflessioni sul rapporto fra rugby e guerra a partire dalla propria esperienza personale, confermando la visione del rugby come sport generalmente affine ad ambienti militari. Egli si arruolò nell’esercito neozelandese partendo come volontario per l’incandescente Vietnam nel 1970, dove fu caporale e operatore radio unito ad un distaccamento australiano a supporto di americani e sudvietnamiti.

Rugby ed esercito, secondo Te Pou, avrebbero almeno due punti in comune a partire dalla disciplina, motore di ogni organizzazione militare. Accanto ad essa si trova quella che viene definita collective outlook: una sorta di prospettiva comunitaria, in grado di attrarre e chiamare a sé un gruppo definito, come, nel caso del rugby, le giovani generazioni maori45. La disciplina comporta una chiara distinzione di ruoli, benché lo stesso allenatore arrivi ad ammettere che ogni elemento della squadra non abbia alcun diritto di ritenersi al di sopra dell’intero gruppo, confermando così il prevalere della prospettiva comunitaria su quella individuale46. Riflessione, questa, che anticipa il secondo momento d’incontro tra esercito e squadra di rugby. Te Pou sostiene di aver trovato nell’esercito una sorta di seconda famiglia. Termine non utilizzato a caso, come si vedrà più avanti.

Rientra inoltre nell’ambito del rapporto tra rugby e guerra il crescente e ormai consolidato utilizzo della haka prima delle partite delle varie nazionali. Evolutasi artisticamente nel corso del Novecento, la haka, come oggi la intendiamo, cominciò ad essere usata come rituale prima dei match a partire dagli anni ottanta del secolo scorso. La danza da guerra, in realtà, fu da subito il biglietto da visita delle selezioni neozelandesi nei match internazionali, a cominciare dalla fine dell’Ottocento.

La haka è forse l’elemento più iconico e visibile del legame fra il rugby e la cultura Maori in Nuova Zelanda. Nel panorama rugbystico oceanico anche altre nazionali quali Fiji, Samoa e Tonga eseguono simili danze di guerra prima dei loro match, a dimostrazione dell’ormai consolidata egemonia culturale indigena nello sport a queste latitudini geografiche. In origine la haka rappresentava il momento essenziale nell’approntamento alla guerra, facendo parte di un più complesso sistema di preparazione spirituale in vista dello scontro armato. I preliminari alla guerra, secondo Alberto Corteggiani, si articolavano in due fasi: la partenza e il viaggio. Nel primo momento la tribù, riunita nelle piazze centrali di ogni villaggio (marae), portava a termine i riti propiziatori del sacerdote. Il preliminare, da statico, diventava dinamico nel secondo momento di preparazione alla battaglia, il viaggio. In realtà, come è possibile intuire, si trattava di spedizioni militari. Nel corso delle stesse i Maori, per infondersi reciprocamente maggior coraggio, inscenavano la haka, accompagnandola con diversi discorsi d’incitamento47.

La sopravvivenza del rituale e la sua iniezione nel contesto sportivo nazionale hanno risposto a esigenze di diverso tipo fra i Maori e non solo. La haka, secondo i parametri della cultura tribale, è il momento in cui l’attuazione del mito può ancora determinarsi, facendo così sopravvivere parti di cultura maori nella modernità. Tale sopravvivenza è il frutto residuo della sovrapposizione di una ideologia culturale (il rugby come sport della borghesia vittoriana) su di un’altra (ciò che restava della cultura indigena). La percezione della realtà da parte dei nativi è ancorata al simbolismo della loro cultura tribale, come ricordato dal filosofo marxista Louis Althusser. In ogni società primitiva, infatti, il rapporto delle idee e successive ideologie con l’esperienza pratica «non è veramente immaginario: tutto è praticato e vissuto nel reale e come reale»48. L’adozione sistematica della danza militare ha quindi agevolato il riconoscimento ideologico dell’etnia subalterna in un’istituzione (sportiva), figlia delle trasformazioni del modo di produzione.

Non va inoltre sottovalutato l’aspetto economico legato alla haka come elemento di marketing. L’esecuzione della danza maori prima di ogni partita non è più solo un rituale della tradizione maori: è la sintesi della diffusione nel mondo del brand All Blacks. Le strategie commerciali di multinazionali quali Adidas, sponsor tecnico della nazionale della Nuova Zelanda dal 1999, hanno utilizzato nel corso degli anni un’ampia gamma di elementi legati alla cultura e all’immaginario collettivo dei Maori:

L’ibridazione della cultura Maori con la cultura sportiva in generale e la cultura del rugby in particolare può essere vista attraverso l’uso della cultura Maori all’interno dei discorsi sportivi. I simboli della cultura Maori sono stati costantemente legati allo sport, in particolare al rugby union e al rugby league. La nazionale di rugby league [] collega sfacciatamente la cultura Māori con quelle dello sport e dei guerrieri. [] Allo stesso modo, la franchigia di Waikato, che sita nelle aree densamente popolate di Waikato e Bay of Plenty si chiama opportunamente Waikato Chiefs, mentre il loro stemma è caratterizzato da una mano che stringe una patu (un’arma maori). L’acquisizione della sponsorizzazione degli All Black da parte della società di abbigliamento sportivo globale Adidas, ha dato avvio ad un’ondata di marketing basata sulla vendita della cultura Maori e della sua ferocia intrinseca49.

Le multinazionali, entrate prepotentemente nel mercato sportivo del rugby, hanno dettato le regole del gioco in chiave economica. In questo contesto le sfumature assunte dalle varie versioni eseguite della haka servono solo a rintuzzare il fuoco delle polemiche di un dibattito anacronistico e reazionario, incapace di trovare respiro fra la difesa particolaristica dell’identità tribale e il ­nazionalismo.

A titolo di esempio si ricordi la particolare haka eseguita nel 2005 dalla Nuova Zelanda nel match del torneo Tri Nations (oggi trasformatosi nel Rugby Championship con l’ingresso dell’Argentina) contro il Sud Africa. La danza tradizionalmente eseguita era la Ka Mate, composta nel XIX secolo da Te Rauparaha, capo della tribù degli Ngati Toa, ed entrata a far parte del corollario All Blacks nel 1985 per volere dei giocatori maori Wayne Shelford e Hika Reid50. Il 27 agosto 2005 a Dunedin, davanti a quasi 30.000 spettatori, i rugbysti neozelandesi, che avrebbero poi vinto il torneo, eseguirono la danza Kapa o Pango, scritta per l’occasione dall’artista maori Derek Lardelli e conclusasi col gesto inequivocabile del taglio della gola rivolto agli avversari51.

Al di là dell’esecrabilità del gesto, ciò che colpisce nella Kapa o Pango è il peso delle parole. Questa versione della haka ha esacerbato il sentimento identitario tipico della cultura guerriera maori, ricoprendolo di tinte nazionaliste. Analizzando i versi iniziali del componimento, si evince un richiamo al legame tra i Maori e quella terra su cui, a distanza di oltre un secolo e mezzo dalle espropriazioni coloniali, potevano esercitare un diritto di proprietà poco più che simbolico e nostalgico. È una terra che letteralmente rumbles, rimbomba sotto i passi dei Maori nell’imminenza del loro momento di rivalsa (And it’s my time! / It’s my moment!)52, non solo sul campo da rugby. La supremazia maori decantata in questa haka si estende fino al proporsi come unica interprete del sentimento nazionale. La Kapa o Pango, riproposta in altre occasioni dagli All Blacks, esprime la rabbia dei Maori portata all’estremo; facendola eseguire alla nazionale neozelandese si ha tuttavia l’impressione che gli stessi All Blacks, simbolo della Nuova Zelanda e della non facile integrazione tra le due etnie, siano oggetto di proprietà esclusivo dei nativi.

Un dibattito simile, che fa completa astrazione dei meccanismi di funzionamento del modo di produzione capitalistico nello sport a cui si è recentemente assistito53, ha affrontato i timori aleatori di un ventilato abbandono della haka. Denigratori e fautori della danza tribale hanno lanciato le rispettive contrapposte filippiche, mettendo al centro del dibattito ora l’aspetto identitario ora quello sportivo. Molto banalmente: la haka non è destinata a scomparire, poiché, divenuta essa stessa una merce all’interno della merce (l’evento sportivo), conferisce visibilità e introiti al rugby neozelandese e ai suoi sponsor. La posizione più sensata resta quindi quella dell’ex All Black e head coach dell’Italia, John Kirwan, che, tentando di difendere la haka come elemento identitario, mette in risalto l’unico elemento degno di considerazione dell’intera faccenda: «sono solo gli avversari quelli stufi: stufi delle nostre vittorie»54.

Le polemiche sulla Kapa o Pango, al di là della loro strumentalità, hanno messo in rilievo le contraddizioni del rapporto fra Maori e rugby. Il capitale utilizza aspetti della cultura maori per esportare sul mercato un marchio in cerca di nuovi profitti, utilizzando una sovrastruttura ideologica duplice ed unitaria al tempo stesso. Duplice poiché ha a che fare tanto con lo sport (il rugby) quanto con gli elementi sopravvissuti dell’identità e della cultura maori; unitaria poiché mescola questi due elementi in un’unica sovrastruttura che dà forma a quell’unità dei contrari sul piano sportivo rappresentata dagli All Blacks.

6. Struttura sociale maori e ideologia del rugby

L’organizzazione politica maori era estremamente ramificata: le varie tribù, spesso in conflitto fra loro ma pure in grado di costituire confederazioni, erano il risultato di una complessa formazione sociale.

L’ariki guidava la tribù in qualità di suo capo, ben lungi dal governare come un monarca assoluto, essendo un membro di quella nobiltà che occupava il gradino più alto nella piramide sociale dei singoli hapu e che dimostra l’esistenza, anche in società tribali, di «distinzioni sociali che non si fondano sullo sfruttamento di una parte della popolazione ad opera dei detentori dei mezzi di produzione»55. Questi altro non erano che i clan componenti la tribù. In qualità di «unità politica di base», l’hapu «concorre nella gestione delle risorse economiche della tribù (terra e diritti di pesca) ed è a sua volta titolare autonomo di alcune di queste; unisce inoltre l’elemento coesivo della parentela comune con quello della residenza in un unico villaggio». In pratica il villaggio nella società maori coincideva urbanisticamente con il clan e non con la tribù, la quale, formata dall’unione di più clan, poteva inglobare un’area su cui si trovavano più villaggi. Le fondamenta del clan erano rinvenibili dalla whanau, «l’unità sociale di base»56: la famiglia estesa guidata da un capo-famiglia (kaumatua). Malgrado l’espropriazione delle terre maori operata dagli inglesi, i concetti di whanau e hapu sopravvissero in diverse forme, tra cui la squadra di rugby, spostando sul piano culturale una resistenza sino ad allora politico-militare57.

L’importanza sociale della whanau è emersa in alcune ipotesi di ricerca, che ne hanno che sottolineato i legami col rugby58. La proiezione del modello di famiglia estesa, nel cuore di un’istituzione vittoriana quale la squadra di rugby, fu diretta conseguenza dell’evoluzione dei processi storici nel mondo dello sport moderno operata dall’imperialismo. Da sport affine alla middle class, e suo strumento di dominio ideologico sulle altre classi, il rugby, in misura comunque minore rispetto al calcio, si popolarizza. Nelle colonie questo processo è corroborato dalla presenza sempre più massiccia di atleti delle popolazioni assoggettate, come i Maori. La contraddizione fra esclusivismo sociale del rugby e sua dimensione globale, solo in potenza anti-imperialista, non venne sciolta dalla Rfu (Rugby Football Union). La federazione di rugby dell’Inghilterra, che governò in modo autoritario e verticistico il mondo della palla ovale dal 1871, anno della sua fondazione, fino al 1948, quando Australia, Nuova Zelanda e Sud Africa ottennero di poter essere rappresentate nel board, difese strenuamente la logica borghese del dilettantismo dagli assalti del professionismo dilagante nel calcio e nel rugby league. Fare quadrato attorno al dilettantismo significava, nelle intenzioni di chi teneva le redini di questo sport, proteggere il rugby dal peso crescente che il proletariato stava acquisendo negli sport moderni59. Tuttavia, nel dare alle colonie la possibilità di competere contro la madrepatria non si riuscì a impedire una larga diffusione del rugby fra le popolazioni sottomesse, le quali dal canto loro iniziarono ad utilizzarlo per rinnovare la loro cultura, destinata altrimenti ad estinguersi. Quanto accadeva fra i minatori inglesi di Seghill o del Galles, dove il rugby divenne lo sport del proletariato al posto del calcio60, si sarebbe presto riproposto su base etnica con i Maori della Nuova Zelanda.

Si trattò di una lotta culturale per l’identità, che fu al tempo stesso una forma ibrida di resistenza all’ingerenza imperialista e un tentativo oggettivamente reazionario di tornare al passato. Il capitalismo trasformò la Nuova Zelanda anche sul versante delle istituzioni politiche, giuridiche e sociali. La fine dell’economia tribale contribuì alla scomparsa del sistema politico maori incentrato sull’hapu. Distrutta “l’unità politica di base”, ai Maori non restava che battersi per la sopravvivenza dell’“unità sociale di base”: la whanau.

Se prima della colonizzazione europea tale istituzione aveva un corrispettivo fisico nei luoghi del villaggio e del clan, col dominio inglese anche la whanau scomparve fisicamente. Minando la concezione parentale maori, i colonizzatori avrebbero annullato l’identità di un popolo, che, nonostante le divisioni politiche interne e spesso fratricide, sentiva di avere nella whanau basata sui legami genealogici (whakapapa) le radici della propria esistenza.

L’imperialismo ha cambiato in modo radicale il volto selvaggio della Nuova Zelanda, trasformandola in un dominion industrializzato ed urbanizzato. Ne fecero le spese naturalmente i Maori, che ingrossarono le fila del proletariato e del sottoproletariato neozelandese: per salvaguardare il sentimento d’appartenenza identitaria, i nativi, in mancanza di reali movimenti di opposizione e resistenza politica, dovettero adattarsi. Il trauma della migrazione dal villaggio alla città, fenomeno legato all’urbanizzazione delle due isole, intensificò il bisogno di garantire nelle mutate condizioni ambientali la difesa della memoria. Le condizioni di sopravvivenza della whanau non erano per nulla ottimali: nel villaggio la presenza fisica le conferiva valore sociale. In città, invece, restringendosi gli stessi spazi abitativi, divenne impossibile riprodurre le condizioni che permettevano alla whanau di esistere. Malgrado le problematiche connesse alle trasformazioni della Nuova Zelanda, un concetto residuale della whanau è riuscito a radicarsi, pur con diverse valenze e finalità di fondo, nella squadra di rugby, luogo dove il giocatore maori riscopre la propria appartenenza comunitaria. Questa in sintesi la tesi del ricercatore Gyorgy Henyei Neto, il quale tuttavia identifica tout court l’idea della whanau con la squadra di rugby, senza soffermarsi adeguatamente sulle cause strutturali che hanno originato il fenomeno da lui studiato. Nella squadra si riprodurrebbe l’universo sociale della tradizione maori, un mondo in cui lo spirito comunitario sopravvive. Ogni elemento nella squadra e della squadra finisce per identificarsi col collettivo. Tutto ciò conduce all’assimilazione dell’identità di gruppo: la squadra di rugby diviene così «la whanau moderna e urbana»61.

Aumentata la popolazione inurbata, la stessa whanau si è spezzettata, perdendo parzialmente i connotati che la caratterizzavano nell’area tribale. Ciò diventa lampante nella squadra di rugby che è decentralizzata per sua natura, poiché i luoghi d’incontro, se presenti, sono separati (campo, spogliatoi, stadio, club house per il terzo tempo); la squadra risponderebbe così perfettamente alle esigenze comunitarie maori nelle mutate condizioni ambientali. Nonostante la poca continuità spaziale, la squadra sarebbe in grado di ricreare, al suo interno, il clima comunitario-parentale, di cui ogni Maori sente disperato bisogno: il timore della solitudine e dell’abbandono, dramma sociale per i nativi neozelandesi62, verrebbe così scongiurato.

Grazie al rugby, i Maori sono riusciti a recuperare nel corso del XX secolo elementi culturali andati perduti. È ciò che è accaduto intorno agli All Blacks Maori, allenati da Matt Te Pou. Rimettere al centro della vita della squadra abitudini, consuetudini e costumi della cultura e dell’identità maori avrebbe contribuito alla rinascita sportiva di una selezione finita ai margini della palla ovale oceanica. Te Pou, ad esempio, spinse affinchè la selezione si dotasse non di un semplice psicologo o motivatore, ma di un vero e proprio kaumatua (il capofamiglia della whanau). Si trattava di risvegliare un gigante dormiente, come ricordato da Matt Blackburn, uno dei collaboratori di Te Pou negli Anni Novanta63.

L’obiettivo di Te Pou era stimolare, fra i giocatori, un senso di appartenenza identitario, che li rendesse orgogliosi di essere maori. Dal 1995, in cooperazione con il kaumatua, l’allenatore inglobò nei vari team processes tutta una serie di attività, che si rivelarono determinanti per la ricostruzione dell’identità perduta: «la novità che l’iniezione culturale fornì all’ambiente della squadra – con sessioni di canti collettivi, waiata e haka – divenne presto un valore aggiunto»64. Gli All Blacks Maori finirono poi col dotarsi di una propria haka personalizzata, ricca di influssi allegorici e misticheggianti: la Timatanga, composta nel 2001 dal kaumatua Whetu Tipiwai. In essa si narra il percorso personale di ogni uomo dalla notte dei tempi, quando il cielo e la terra si separarono (mito di Rangi e Papa65), proteso al raggiungimento dell’eccellenza corporea, mentale e spirituale.

7. Conclusione

Il saggio ha delineato un quadro omogeneo della natura di classe del rugby, focalizzando l’attenzione sullo specifico caso neozelandese e maori. Al di là della particolarità del caso di studio, l’analisi svolta illustra le contraddizioni scaturite dall’evoluzione del rugby nel novero dei moderni sport di squadra. Il tentativo strumentale di appropriarsi del rugby in chiave identitaria da parte dei Maori ha trovato terreno fertile entro cui svilupparsi a partire dalla diffusione del sistema di istruzione coloniale sul modello pedagogico di Thomas Arnold. Gli sport di squadra, con l’unica vera eccezione rappresentata dal calcio gaelico in Irlanda66, rimasero elementi ideologici dell’imperialismo britannico fino al 1945, quando, terminata la seconda guerra mondiale, la decolonizzazione utilizzò gli stessi per dar forza ai percorsi di indipendenza dalla madrepatria. Venuta meno la dominazione inglese in Nuova Zelanda, il rugby divenne terreno di contesa e rivalsa fra i Maori e i Pakeha, con i primi impegnati nella ricerca di spazi ove legittimarsi politicamente e socialmente dopo le tragedie provocate dal Trattato di Waitangi.

Come ricordato, lo stesso sistema di istruzione coloniale favorì l’avvicinamento degli indigeni alla palla ovale. L’impianto ideologico razzista, di cui erano impregnate le istituzioni scolastiche costruite per trasformare i Maori in braccianti agricoli e operai, favorì l’incontro fra il rugby e gli indigeni: il sistema scolastico amministrato dal governo del dominion incentivò infatti la pratica sportiva fra i nativi. Lo stereotipo razzista del selvaggio brutale e violento agevolò il compito delle classi dominanti inglesi nell’esaltazione delle qualità fisiche e sportive dei Maori, ma solo per radicare nella società un’idea distorta e superficiale di inclusione. In realtà la borghesia, usando anche il rugby, era mossa dalla necessità di mantenere il controllo economico e politico della Nuova Zelanda, evitando l’insorgere di minacce all’ordinamento sociale costituito. Almeno fino agli anni trenta il sistema, che aveva le sue basi giuridiche nel Trattato di Waitangi del 1840, resse.

Il riscatto sociale e progressivamente politico dei Maori, processo tutt’ora in corso e non esente da contraddizioni, si è posto all’ordine del giorno nell’agenda della Nuova Zelanda del Novecento e dei primi decenni del XXI secolo. Il rugby, grazie anche a figure di spicco quali l’estremo George Nepia, ha avuto un ruolo fondamentale nelle lotte antirazziste dei nativi, venendo intelligentemente utilizzato come strumento politico dai Maori, quasi come in un singolare contrappasso dantesco. Le mobilitazioni popolari antirazziste del 1981, ad esempio, indussero la federazione neozelandese a rivedere la sua politica d’apertura nei confronti del Sud Africa, rivale sportivo per eccellenza ma regime caratterizzato dall’apartheid. Le proteste, ricordate come la versione neozelandese del Sessantotto, si scatenarono per bloccare il tour degli Springbooks in Nuova Zelanda, dopo che la Nzru, nonostante il boicottaggio sportivo internazionale del Sud Africa, aveva deciso di confermare i test match coi sudafricani. La mobilitazione popolare, che visse anche momenti di tensione, fece tornare sui suoi passi la federazione, anche se di lì a pochi anni la Nzru trovò il modo di aggirare il boicottaggio, spedendo in Sud Africa team che solo formalmente non rappresentavano la nazionale tuttanera67.

In ambito antropologico e sociologico è stato dato resoconto di diverse ipotesi circa la popolarità e il radicamento del rugby fra i Maori, come mostrano le ricerche organiche di Hokowhitu. Ciò che tuttavia manca nelle considerazioni sin qui riportate è un’adeguata riflessione su come i rapporti di produzione abbiano determinato l’evolversi del fenomeno. Consideriamo l’impostazione giuridica del Trattato di Waitangi e la costruzione del sistema educativo per i Maori: grazie a questi strumenti è stato legittimato il dominio di classe della borghesia imperiale, interessata ad estrarre profitti dal pluslavoro di un proletariato maori e pakeha adeguatamente addomesticato.

Il rugby non è che un ingranaggio all’interno di questo meccanismo. È stato utilizzato con relativo successo in chiave identitaria dai Maori in tempi più e meno recenti. Il prodotto più visibile restano gli All Blacks Maori: la selezione di soli giocatori maori. Il rugby in Nuova Zelanda è passato in meno di due secoli da strumento di dominio ed inquadramento ideologico a sport nazionale e dei Maori, seguendo la progressiva commercializzazione degli sport moderni che ha determinato lo sviluppo di una cultura sportiva e di massa.

I Maori, ancora oggi vittime di discriminazioni, sono riusciti a prendersi una parziale rivincita grazie al rugby. Tale rivincita ha tuttavia inasprito le contraddizioni. Un esempio è dato dalle modalità di selezione dei giocatori sulla base di poco chiari parametri biologici. Il caso più clamoroso fu quello di Christian Cullen, ex estremo neozelandese della franchigia celtica di Munster. Selezionato e convocato dagli All Blacks Maori nel 2003, Cullen sconquassò l’ambiente della squadra di Te Pou, essendo ignaro delle proprie remote origini indigene. Come ammesso dallo stesso Te Pou oltre che dal padre del giocatore, Cullen fu convocato poiché era da considerarsi Maori, in base alle linee di parentela, per almeno 1/64. Altro caso paradossale è quello della leggenda del rugby Jonah Lomu (1975-2015), che, pur avendo vissuto fra la comunità maori ma essendo di origini samoane, non potè mai essere selezionato per la squadra di Te Pou.68

Il rapporto fra rugby e popolo maori è un processo lungi dal ritenersi ultimato. La lotta per l’egemonia, non solo in ambito sportivo, lascia aperti molti interrogativi: il conflitto latente con la federazione neozelandese così come la ricercata direzione, vera o presunta, sugli All Blacks sono aspetti che ingarbugliano i nodi legati all’emancipazione delle classi subalterne maori nella non pacificata società neozelandese.

______________________

1 Cfr. T. Collins, Sport in Capitalist Society. A short History, London, Routledge, 2013, pp. 1-13 e 27-37.

2 Cfr. L. Ravagnani, P. Fadda, Rugby. Storia del Rugby Mondiale dalle origini ad oggi, Padova, Vallardi, 2007, p. 143 e F. W. Veys, Mana Maori. The Power of New Zealand’s First Inhabitants, Leiden, Leiden University Press, 2010, p. 130.

3 Ravagnani, Fadda, Op. cit., p. 35.

4 News of the day in «The Colonist», 17th May 1870, [https://paperspast.natlib.govt.nz/newspapers/TC18700517.2.7] p. 3 (ultimo accesso 21 dicembre 2017).

5 M. MacLean, Of Warriors and Blokes: The Problem of Maori Rugby for Pakeha Masculinity, in Making the Rugby World. Race, Gender, Commerce, edited by T. J. L. Chandler, J. Nauright, London, Routledge, 1999, p. 2.

6 Cfr. Collins, Sport in Capitalist Society, cit., p. 2 e 13.

7 Ivi, p. 49.

8 V. I. Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo (saggio popolare), in Opere Scelte, Mosca, Edizioni Progress, 1971, p. 174 e 233.

9 N. Ferguson, Impero. Come la Gran Bretagna ha fatto il mondo moderno, Milano, Mondadori, 2011, p. 12.

10 T. Collins, A Social History of English Rugby Union, London, Routledge, 2009, p. 166.

11 La storiografia non ha prove a sufficienza per affermare con certezza che fu lo studente irlandese William Webb Ellis, nel 1823, a inventare il nuovo sport. A riguardo si veda ivi, p. VII.

12 J.A. Pocock, Waitangi as Mystery of State: Consequences of the Ascription of Federative Capacity to the Maori, in Political Theory and the Rights of Indigenous Peoples, edited by D. Ivison, P. Patton, W. Sanders, Melbourne, Cambridge University Press 2002, p. 29 (traduzione a cura dell’autore).

13 Veys, Op. cit., p. 76.

14 Te Ara. The Encyclopedia of New Zealand, Thierry, Charles Hyppolite de, in Dictionary of New Zealand Biography, [https://teara.govt.nz/en/biographies/1t93/thierry-charles-philippe-hippolyte-de] (21 ottobre 2018).

15 F. Giusti, V. Sommella, S. Cigliano, Storia dell’Oceania. L’ultimo continente, Roma, Donzelli, 2009, p. 219.

16 Cfr. Pocock, Op. cit., p. 27 e 29-30.

17 Cfr. A. Corteggiani, I figli di Maui. Saggio etnologico sui Maori della Nuova Zelanda, Roma, Bulzoni, 2002, p. 291 e 294.

18 Pocock, Op. cit., p. 30 (traduzione a cura dell’autore).

19 Cfr. L. Althusser, Essere marxisti in filosofia, Bari, Edizioni Dedalo, 2017, pp. 177-79.

20 Nel primo articolo del trattato in lingua inglese è scritto: «I capi della Confederazione delle Tribù Unite della Nuova Zelanda, ed i Capi separati e indipendenti, i quali non divennero membri della Confederazione, cedono a Sua Maestà la Regina d’Inghilterra, assolutamente e senza riserve, tutti i diritti ed i poteri di Sovranità, che detta Confederazione o singoli capi rispettivamente esercitano». Nella versione in lingua maori alla cessione della sovranità si dà un tono di perentorietà: «I Capi della Confederazione e tutti i Capi che non hanno preso parte alla Confederazione, cedono in modo assoluto alla Regina d’Inghilterra per sempre il completo governo sul loro territorio» [Il corsivo è un’integrazione dell’autore]. Cfr. Corteggiani, Op. cit., pp. 289-90 e pp. 293-94.

21 B. Hokowhitu, ‘Physical Beings’: Stereotypes, Sport and the ‘Physical Education’ of New Zealand Maori, in «Sport in Society», s. 6, 2-3 (2003), p. 195.

22 K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti, 1977, p. 10.

23 Corteggiani, Op. cit., p. 49.

24 G.L. Pearce, The story of the Maori People, Auckland, Collins, 1972, p. 83.

25 J. Metge, The Maoris of New Zealand, London, Routledge&Kegan Paul Ltd, 1980, p. 34 (traduzione a cura dell’autore).

26 MacLean, Op. cit., p. 10.

27 Collins, Sport in Capitalist Society, cit., p. 66.

28 Stats NZ, 2013 Census ethnic group profiles: Māori, 2017, [http://archive.stats.govt.nz/Census/2013-census/profile-and-summary-reports/ethnic-profiles.aspx?request_value=24705&parent_id=24704&tabname=#24705] (21 dicembre 2017).

29 MacLean, Op. cit., p. 11.

30 Cfr. Corteggiani, Op. cit., pp. 266-267 e 270-273 e Giusti, Sommella, Cigliano, Op. cit., pp. 169-170.

31 Collins, A Social History of English Rugby Union, cit., p. 98.

32 Hokowhitu, ‘Op. cit., p. 211.

33 MacLean, Op. cit., p. 14.

34 Giusti, Sommella, Cigliano, Op. cit., p. 170.

35 Cfr. G. Nepia, T. McLean, I, George Nepia. The autobiography of a Rugby Legend, London, London League Publications Ltd, 2002, pp. 103 e 136-37.

36 Collins, Sport in Capitalist Society, cit., p. 63 (traduzione a cura dell’autore).

37 Hokowhitu, Op. cit., p. 200 (traduzione a cura dell’autore).

38 Ivi, p. 204 (traduzione a cura dell’autore).

39 B. Hokowhitu, S. J. Sullivan, L. R. T. Williams, Rugby culture, ethnicity and concussion in «MAI Review», 1 (2008), p. 4 (traduzione a cura dell’autore).

40 Corteggiani, Op. cit., p. 246.

41 Ivi, p. 234.

42 Hokowhitu, Sullivan, Williams, Op. cit., p. 6.

43 Collins, Sport in Capitalist Society, cit., p. 54 (traduzione a cura dell’autore).

44 M. Te Pou, M. McIlraith, Against the Odds. Matt Te Pou and Maori Rugby, Wellington, Huia Publishers, 2006, pp. 224-225.

45 Ivi, p. 28.

46 Ivi, p.36.

47 Cfr. Corteggiani, Op. cit., pp. 234-238.

48 Althusser, Op. cit., p. 212.

49 Hokowhitu, Sullivan, Williams, Op. cit., p.6 (traduzione a cura dell’autore).

50 E. Lucchese, Meta Nuova Zelanda. Viaggio nella terra del rugby, Portogruaro, Ediciclo Editore, 2013, p.60.

51 Ravagnani, Fadda, Op. cit., p. 143.

52 Veys, Op. cit., p. 130.

53 Rugby, All Blacks; scoppia il caso haka: per Meeuws è “diventata una recita”, in «Repubblica», 13 agosto 2018 [https://www.repubblica.it/sport/rugby/2018/08/13/news/rugby_all_blacks_scoppia_il_caso_haka_per_meeuws_e_diventata_una_recita_-204045874/] (22 ottobre 2018).

54 Daniele Goegan, Haka All Blacks: c’è chi non la vuole più vedere, in «Rugbymeet.com», 18 agosto 2018 [https://www.rugbymeet.com/it/news/internazionale/haka-all-blacks-ce-chi-non-la-vuole-piu-vedere] (21 ottobre 2018).

55 Althusser, Op. cit., p. 212.

56 Corteggiani, Op. cit., p. 56 e 57.

57 MacLean, Op. cit., p. 4.

58 Cfr. G. H. Neto, Maori and Rugby. Identification and Belonging, Saarbrucken, Lap Lambert Academic Publishing, 2010 e Id., Maori identity in New Zealand Rugby: Construction of the Individual within the collective sports, physical education and corporal techniques, [https://www.academia.edu/421739/Maori_identity_in_the_New_Zealand_Rugby_Construction_of_the_Individual_within_the_collective_sports_physical_education_and_corporal_techniques] (21 ottobre 2018).

59 Cfr. Collins, Sport in Capitalist Society, cit., pp. 31 e 53-54 e Id., A Social History of English Rugby Union, cit., p. 120.

60 Cfr. P. Clarke, Speranza e gloria. L’Inghilterra nel XX secolo, Bologna, Il Mulino, 2008, pp. 61-71 e Collins, A Social History of English Rugby Union, cit., p. 112.

61 Cfr. Neto, Maori and rugby, cit., p. 47.

62 Metge, Op. cit., p. 125.

63 Te Pou, McIlraith, Op. cit., p. 50.

64 Ivi, p. 59 (traduzione a cura dell’autore).

65 Per una trattazione esaustiva delle dinamiche della mitologia maori si veda Corteggiani, Op. cit., pp. 71-85.

66 Collins, Sport in Capitalist Society, cit., p. 67.

67 Cfr. Lucchese, Op. cit., pp. 14-16 e 102-106.

68 Te Pou, McIlraith, Op. cit., pp. 189-190. Per una biografia di Lomu, si consiglia M. Pastonesi, L’urgano nero. Jonah Lomu, vita morte e mete di un All Black, Roma, 66th and 2nd, 2017.