Recensione
Adam SMULEVICH, Presidenti. Le storie scomode dei fondatori delle squadre di calcio di Casale, Napoli e Roma, Giuntina, Firenze 2017, pp. 136.

Matteo Ananstasi, Lumsa Roma

Pubblicato in vista dell’ottantesimo anniversario della promulgazione delle Leggi razziali e vincitore del Premio Fiuggi Storia 2017, Presidenti di Adam Smulevich riporta alla luce le vicende di tre dirigenti del calcio italiano che profondamente furono colpiti dall’emanazione del 1938: Raffaele Jaffe, estroso professore artefice del primo e unico scudetto del Casale, Giorgio Ascarelli, lungimirante imprenditore che condusse il Napoli ai vertici del calcio italiano, e Renato Sacerdoti, facoltoso banchiere che portò la Roma alla conquista del suo primo tricolore. Tre pionieri del nostro calcio condannati dal fascismo alla damnatio memoriae in quanto ebrei.

Giornalista professionista classe 1985, Smulevich lavora all’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e collabora con varie testate, tra cui Corriere Fiorentino e Avvenire. Come storico dello sport ha avuto, nel 2010, il merito di raccogliere la testimonianza inedita dell’ebreo fiumano Giorgio Goldenberg, che gli ha rivelato di dovere la sua sopravvivenza all’aiuto di Gino Bartali. Un racconto che ha aperto la strada all’iscrizione del ciclista italiano nel registro dei «Giusti tra le Nazioni», avvenuta nel 2013.

Presidenti è un agile volume diviso in tre parti, ognuna dedicata a uno dei protagonisti delle vicende narrate. Si parte con Raffaele Jaffe (1877-1944), insegnante astigiano fondatore di quel Casale Foot Ball Club campione d’Italia nella stagione 1913-1914, capace di interrompere lo strapotere della Pro Vercelli, dominatrice della scena calcistica piemontese e nazionale nel primo quindicennio del Novecento. Smulevich ripercorre la nascita del Casale, avvenuta dentro le aule del glorioso Leardi, l’istituto tecnico più antico d’Italia, dove Jaffe riuscì a concretizzare la passione sportiva di studenti cresciuti, tutti o quasi, nel raggio di pochi chilometri nella zona del Monferrato. L’eclettismo necessario a portare avanti quell’impresa, è reso perfettamente da un ritratto, riportato nel testo, che Jaffe avrebbe scritto di sé per il quotidiano L’Avvenire: «Fondatore del club e di questo presidente, segretario, cassiere, trainer, fino a scendere nel dì delle gare alle più umili mansioni di preparazione del campo; propagandista infaticabile quando più irte erano le difficoltà e mancavano entusiasmo, concorso di pubblico, appoggi morali e finanziari». Non solo lo scudetto. Anche, fra le tante imprese di quel Casale, una storica vittoria contro il Reading, la prima di una squadra italiana contro una compagine professionistica inglese. Nel 1938 il Casale non occupava più le cronache nazionali, incappato in un inesorabile scivolare nelle serie inferiori. Jaffe, che aveva esercitato anche la carica di dirigente federale, non ne era più presidente ma semplice, appassionato, tifoso. L’anno prima si era convertito al cattolicesimo, gesto d’amore verso la moglie Luigia sposata dieci anni prima. Nonostante questo la sua origine ebraica gli sarebbe costata, prima una lunga prigionia presso il campo di concentramento di Fossoli, poi la deportazione ad Auschwitz-Birkenau, dove sarebbe stato ucciso il 6 agosto del 1944, pochi minuti dopo il suo arrivo.

La seconda figura trattata dalla penna di Smulevich è Giorgio Ascarelli (1894-1930). Abbiente imprenditore e consigliere del Partito Socialista napoletano, Ascarelli fondò il Napoli ventiquattro ore prima che la Carta di Viareggio, promulgata il 6 agosto del 1926, segnasse la storica svolta del calcio italiano verso il professionismo. Uomo di sport a trecentosessanta gradi, fu tra i fondatori del Circolo Canottieri Napoli – fucina di medaglie per lo sport olimpico azzurro – e vicepresidente del Rotary Napoli, producendosi in continui slanci in favore di iniziative sportive. Soprattutto fu colui che portò il calcio partenopeo nella massima serie nella stagione 1926-1927 e che promosse, a sue spese, la costruzione di un impianto modernissimo, lo Stadio Vesuvio. Ascarelli perì proprio nell’anno dell’inaugurazione del Vesuvio, il 1930, e immediata fu la scelta di consacrare l’impianto al compianto presidente che Il Mattino avrebbe così ricordato dopo la morte: «Senza badare a sacrifici, senza mendicar concorsi o sussidi, da solo Ascarelli ha dato a Napoli una squadra e un campo. Opera ciclopica tanto più pregevole in quanto attuata in piena semplicità, schivo come era da ogni plauso o réclame». Sulla sua memoria le leggi razziali si sarebbero abbattute a quattro anni dalla scomparsa, quando la FIFA assegnò il Mondiale del 1934 all’Italia fascista che, oltre a un consistente riammodernamento dello stadio, ordinò la rimozione della titolatura all’ebreo Ascarelli, in favore di un più “idoneo” Partenopeo. Ironia della storia proprio la Germania di Hitler, il 27 maggio, avrebbe trionfato per tre reti a due a Napoli, nel “fu” Ascarelli, nella finale per il terzo posto con l’Austria.

L’ultima storia presa in esame da Smulevich è quella di Renato Sacerdoti (1891-1971). Banchiere e imprenditore di successo, Sacerdoti assurse alla guida dell’Associazione Sportiva Roma nel 1928, subentrando a Italo Foschi, già motore della fusione fra Alba, Fortitudo e Roman che un anno prima aveva portato alla nascita della squadra capitolina. Sacerdoti, come Ascarelli, fu promotore della costruzione di un nuovo stadio, destinato a rimanere nel mito della Città Eterna: Campo Testaccio, dichiaratemente ispirato al modello inglese dell’Everton. Non in quell’impianto ma nello Stadio Nazionale la Roma conquisterà, nella stagione 1941-1942, il suo primo tricolore. Sacerdoti era già uscito di scena, nel 1935, per dissidi con la stampa e la tifoseria, sempre più ambiziosa e non disposta ad accontentarsi di galleggiare nei quartieri alti, ma non altissimi, del campionato. Suo malgrado Sacerdoti, convertito al cattolicesimo nel 1937 e pur «fascista della prima ora» come evidenziato da Smulevich, tornerà alla ribalta delle cronache nel 1938. «Agente di cambio assai noto a Roma […] ove era riuscito ad accaparrarsi tempo addietro funzioni importanti» ed «ebreo contrabbandiere di milioni», saranno solo due dei poco edificanti ritratti che Il Popolo d’Italia gli riserverà prima della condanna a cinque anni di confino che sarebbe caduta sulla sua testa proprio nel 1938. Con la fine del regime Sacerdoti tornò uomo libero e guidò ancora la Roma, da presidente, fra il 1951 e il 1958, quando fu avvicendato dal commendator Anacleto Gianni.

Il merito più importante dell’opera di Smulevich è certamente aver accesso la luce sulle vicende personali di tre figure di spessore assoluto nella storia del calcio italiano, trattate finora solo in superficie dalla letteratura sportiva. Pur certamente senza pretese di completezza data l’agilità del volume, l’autore utilizza con acume storico fonti primarie e la carta stampata dell’epoca. Nella trattazione di Jeffe si fa costante riferimento all’archivio storico della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano, che custodisce molta della corrispondenza privata del fondatore del Casale, peraltro corredata da fonti fotografiche di particolare interesse: su tutte la locandina della citata gara amichevole fra Casale e Reading. Su Ascarelli il riferimento puntuale è alle carte custodite presso l’Archivio di Stato di Napoli, generose di informazioni anche sulla genesi dello stadio campano. Sacerdoti è probabilmente la figura meglio affrescata con diretto riferimento a fonti primarie, grazie a un’attenta disamina delle carte custodite a Roma presso l’Archivio Centrale dello Stato. Come per Jeffe, anche i capitoli dedicati ad Ascarelli e Sacerdoti sono impreziositi, a margine, da immagini d’epoca.

Suggestivi interrogativi sono inoltre posti dall’autore su questioni ancora non del tutto chiarite. Si pensi alla vicenda dello stadio napoletano, ribattezzato Partenopeo alla vigilia del mondiale del 1934, ma ancora Ascarelli nell’immaginario cittadino e – come dimostrato da Smulevich – anche sulla stampa fascista che, persino nella primavera del 1938, nel presentare le partite del Napoli, citava l’impianto col nome del defunto presidente. Una dinamica che risulterebbe perfettamente in linea con le concessioni “sportive” alle comunità e alle radicate identità locali che il regime era solito tollerare, come messo in luce da autorevoli studi, su tutti quello di Simon Martin sul calcio durante il fascismo.

A questi meriti si affianca il taglio giornalistico dell’opera, che allude alle fonti utilizzate ma elude di citarle puntualmente in nota, a beneficio di un pubblico meno specialista e più interessato alla scorrevolezza del testo. Nondimeno, la bibliografia presentata a margine del libro, pur non definita “essenziale”, risulta ridottissima, stimolando gli storici a percorrere l’interessante strada tracciata da Smulevich, con l’auspicio tuttavia di trarne un risultato più scientificamente ricco e completo.