Un’opera dimenticata

La Storia degli sport del 1933-1938

Erminio Fonzo

Università di Salerno

Abstract:  The three volumes of Storia degli sport edited by Andrea Franzoni constitute the first attempt in Italy to produce a general study on the history of athletics. The work was published in the midst of the Fascist dictatorship and could not fail to be influenced by the political context, so much so that many of its parts are characterised by a nationalistic approach and a desire to highlight the successes, real or presumed, of the regime's sports policy. However, being aimed at a more restricted audience than other publications, the Storia dello sport does not merely repeat the most common theses that appeared in the newspapers, but also proposes more realistic and well-founded considerations. Today, the work is all but forgotten, but it can be a very useful source for those studying sport during the Fascist period, as it provides a clear understanding of the ideas on athleticism that circulated in the regime

Keywords:  Historiography; Sports historiography; Ideologies of sport; Fascist Regime

Alle origini della storiografia sportiva

La storia dello sport, intesa come disciplina scientifica, in Italia si è sviluppata dalla seconda metà degli anni ’70 e ha guadagnato rispettabilità accademica solo da pochi decenni. Tuttavia, già alla fine dell’Ottocento, quando l’atletismo moderno muoveva i suoi primi passi, alcuni esperti di sport proposero ricostruzioni di carattere storico nei loro studi. Si trattava, in genere, di lavori finalizzati a descrivere le attività sportive e a evidenziarne i benefici, ma, talvolta raccontavano anche la storia di alcune discipline. Si pensi, per esempio, al libro di Angelo Mosso, L’educazione fisica della gioventù (Milano, Treves, 1894): prima di analizzare l’utilità e le caratteristiche dell’educazione fisica, lo studioso dedicò alcuni capitoli all’evoluzione della ginnastica dal Rinascimento in avanti.

Le ricostruzioni storiche proposte tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del secolo successivo erano spesso caratterizzate da un’impostazione nazionalista, mirando a mettere in rilievo un presunto primato italiano nella nascita e nella diffusione delle discipline sportive. Per esempio Mosso, pur sottolineando il successo della ginnastica nel mondo anglosassone e nell’Europa del Nord, scrisse che «l’educazione fisica quale si osserva nei Collegi e nelle Università dell’Inghilterra ebbe principio in Italia» (p. 9) e che il calcio derivava del calcio fiorentino di età rinascimentale.

L’approccio «nazionalista» si consolidò durante il fascismo, quando la diffusione della pratica sportiva e dello sport-spettacolo aumentò enormemente, in parte per l’ascesa della società di massa e in parte per le politiche del regime[1]. Lo sport, ritenuto un elemento essenziale per la creazione dell’«uomo nuovo», guadagnò spazio anche nel discorso pubblico, perché non era più considerato un’attività frivola, ma un elemento indispensabile della formazione dei cittadini. Di conseguenza, l’attenzione dei mezzi di comunicazione, sia a stampa, sia audiovisivi, aumentò e in alcuni casi si interessò dell’atletismo anche il mondo degli studi. Negli anni ’20, per esempio, nacque la medicina dello sport, finalizzata a studiare i traumi che derivavano dagli infortuni e le possibilità di miglioramento delle prestazioni[2].

Gli storici accademici, invece, non prestavano attenzione allo sport. La storiografia del tempo era dominata dalla scuola economico-giuridica di Gioacchino Volpe e talvolta subiva una non dichiarata influenza crociana: approcci che non prevedevano di riservare spazio a un’attività non direttamente collegata al mondo della politica, dell’economia o dell’alta cultura, quale lo sport.

Ciò nonostante, negli anni del fascismo non mancò un interesse per la storia dell’atletismo, che però non proveniva dagli storici professionisti, ma da giornalisti, dirigenti sportivi, atleti e semplici appassionati. Per esempio, nel 1928 Lando Ferretti, uno dei principali ideologi fascisti dell’atletismo, diede alle stampe il suo Libro dello sport (Roma, Libreria del littorio), che, pur essendo finalizzato a esaltare il ruolo del fascismo, dedicava un capitolo alla storia delle attività sportive dal mondo antico all’età moderna. Anche la ricostruzione di Ferretti, però, era caratterizzata da un approccio nazionalista e metteva in evidenza l’importanza dell’educazione fisica nella civiltà romana e il ruolo, vero o presunto, del Rinascimento italiano come tramite tra lo sport antico e quello moderno.

Sulle riviste specializzate, in primis «Lo Sport fascista», diretta dallo stesso Ferretti, comparivano abbastanza spesso articoli di carattere storico, dedicati a singole discipline, agli atleti di alto livello o alle società più prestigiose. Anche questi articoli spesso proponevano letture politicamente orientate. Nel caso del calcio, continuò a essere sostenuta la tesi secondo la quale il gioco deriva dal calcio fiorentino. Si legge sullo «Sport fascista»: «Siamo stati noi Italiani i precursori e i propugnatori del giuoco che con tanto fervore oggi è tornato sulle nostre piazze e sui nostri stadii»[3]. Il medesimo approccio era usato per gli altri sport. Per esempio un articolo di P. Romano, La decadenza della lotta greco-romana, in «Lo Sport fascista», a. III, n. 3, 1930, sostenne che la disciplina si era sviluppata nell’Italia rinascimentale. La lettura nazionalista, tuttavia, non era generalizzata e altri autori proponevano racconti più realistici, riconoscendo, tra l’altro, le origini inglesi di molti sport. In altri casi, la pubblicistica si soffermò sulla storia di singole società sportive. Per esempio, l’articolo non firmato Nascita del “Genova” e dello spirito sportivo, in «Lo Sport fascista», a. VI, n. 2, 1933, ricostruì la storia del primo club calcistico italiano; E. Berra, Il Torino campione d’Italia, ivi, a. I., n. 3, 1928, propose una ricostruzione dello stesso tipo a proposito del Torino. Altre volte, i pubblicisti prestavano attenzione alla storia delle discipline sportive in Italia, menzionando lo sviluppo che ebbero prima della marcia su Roma, ma dando risalto soprattutto al ruolo del regime di Mussolini nella loro popolarizzazione. Un’impostazione del genere si riscontra negli articoli di G. Poli, Pugilatori italiani d’altri tempi e di P. Mariani, Storia del rugby in Italia, entrambi in «Lo Sport fascista», a I, n. 2, 1928.

In qualche occasione, la pubblicistica affrontò temi meno battuti, come nell’articolo di A.G. Bianchi, Gli intellettuali e le prime biciclette in «Lo Sport fascista», a. I, n. 2, 1928, che ricostruì le origini del giornalismo ciclistico e si soffermò sull’interesse di alcuni scrittori, tra i quali Alfredo Oriani, per le prime competizioni in bicicletta.

Anche la più importante realizzazione del fascismo in ambito culturale, l’Enciclopedia italiana, riservò un certo spazio allo sport e, in alcuni casi, alla sua storia. L’Enciclopedia, infatti, conteneva voci dedicate alle principali discipline, delle quali si raccontavano anche le origini e l’evoluzione. L’impostazione era assai eterogenea: in alcune voci prevaleva un’ottica nazionalista, mentre in altri casi le ricostruzioni erano più neutrali. Gli autori, del resto, non erano storici di professione, ma giornalisti, dirigenti sportivi e, talvolta, medici specializzati in medicina dello sport (nonostante molti storici accademici collaborassero attivamente all’Enciclopedia). Dall’ambito accademico provenivano solo alcuni antichisti, ai quali fu assegnata la redazione di paragrafi sull’atletismo nel mondo antico[4].

Appare evidente, in sostanza, che nel Ventennio emerse un interesse per la storia dello sport. Era una conseguenza logica della diffusione delle attività sportive e della crescita del loro spazio nel discorso pubblico, che spinsero giornalisti e addetti ai lavori a ricercare le origini e l’evoluzione storica del fenomeno. Le ricerche, naturalmente, non erano realizzate con metodo scientifico e spesso avevano motivazioni «politiche», come l’intenzione di mettere in rilievo un presunto primato sportivo dell’Italia e del fascismo, ma testimoniano ugualmente l’aumento dell’interesse per la storia delle attività sportive.

La pubblicazione della Storia degli sport

In questo contesto fu realizzato il primo lavoro di carattere generale sulla storia dell’atletismo, la Storia degli sport in tre volumi curata da Andrea Franzoni e pubblicata dalla Società editrice libraria di Milano tra il 1933 e il 1938. La Storia è composta da un lungo capitolo introduttivo di carattere generale e da capitoli dedicati alle singole discipline, delle quali si raccontano le origini e l’evoluzione nel corso dei secoli. Nel complesso, la Storia è formata da circa millecinquecento pagine, corredate da centinaia di immagini.

Non è noto quale come e quando sia sorta l’idea di realizzare l’opera. Non esistono, infatti, documenti di archivio che gettino luce sulla questione, né la Storia contiene una premessa che spieghi le ragioni della pubblicazione. Allo stesso modo, non si dispone di notizie sulla sua diffusione, ma, poiché un’opera in tre volumi, riccamente illustrata, era certamente costosa, è presumibile che la sua diffusione fosse stata piuttosto limitata. La Storia, inoltre, non fu pubblicizzata dalla stampa, che la ignorò in maniera pressoché completa. Il primo volume, però, fu donato a Mussolini, che ricevette Franzoni a Palazzo Venezia il 28 aprile 1933[5]. Oggi l’opera è quasi del tutto dimenticata, nonostante sia posseduta da molte biblioteche e sia in vendita presso alcune librerie antiquarie.

Come si è detto, durante il Ventennio la storia dell’atletismo non era oggetto dell’interesse degli storici accademici. Anche nel caso della Storia degli sport gli autori non erano studiosi professionisti, ma semplici esperti di cose sportive. Andrea Franzoni, per esempio, era un noto pedagogista. Preside di diversi istituti scolastici di Milano, libero docente all’Università di Pavia dal 1904[6], nel 1923 era stato il primo direttore dell’"Ente nazionale per l'educazione fisica", ma aveva lasciato l’incarico nel 1924. In seguito si era concentrato sul lavoro di pedagogista, non solo come preside, ma anche fondando una scuola per educatrici e prendendo parte a numerose commissioni scolastiche[7].

Anche gli altri autori non provenivano dalla storiografia accademica. Tra loro vi erano Giancarlo Eyard, ingegnere e atleta dilettante, Paolo Masera, un architetto che realizzò, tra le varie opere, la sezione di nuoto e pugilato della Mostra dello sport allestita a Milano nel 1935; Piero Mariani, calciatore di Serie A, Cesare Galimberti, aviatore molto noto; Umberto Mezzanotte, pubblicista.

La Storia, naturalmente, era condizionata dall’evoluzione della politica fascista in materia di sport. Pertanto, è opportuno esaminarla tenendo conto del periodo nel quale i singoli volumi furono realizzati.

Il primo volume

Il primo volume fu pubblicato nel 1933, cioè in un periodo nel quale i successi sportivi dell’Italia, come il secondo posto nel medagliere delle Olimpiadi di Los Angeles, erano apprezzati in tutto il mondo e sfruttati ampiamente a livello propagandistico. Il regime, inoltre, stava imprimendo una svolta alla sua politica per le masse, proponendosi di diffondere sempre più le attività ginnico-sportive, ma non aveva ancora definito alcune questioni, come quella del professionismo (che era ammesso nei fatti e, per alcune discipline, anche per legge, ma pubblicamente criticato) e quella della partecipazione femminile, verso la quale i primi anni ’30 rappresentarono un periodo di chiusura. Gli echi di questa situazione si avvertono nel primo volume della Storia.

Il lungo capitolo introduttivo di Franzoni (pp. 1-197) propone una ricostruzione di carattere generale, che prende le mosse dai popoli primitivi e arriva fino all’attualità. Secondo l’autore, le origini dell’atletismo vanno rintracciate in attività come la caccia e la guerra, dalle quali sarebbero derivate le prime competizioni: corsa, salto, arrampicata. Molte affermazioni risultano poco fondate, anche per la difficoltà di ricostruire la storia di popoli senza scrittura o dei quali sono rimaste solo testimonianze sporadiche, ma le pagine di Franzoni testimoniano l’interesse dell’autore per le origini più remote dell’atletismo.

A proposito delle civiltà del mondo antico meglio conosciute, quella greca e quella romana, Franzoni segue la narrazione diffusa in tutta Europa almeno dalla seconda metà dell’Ottocento e riconosce il primato della Grecia. L’autore si sofferma le discipline sportive del tempo, sugli impianti, sulle Olimpiadi e sulle altre competizioni panelleniche, sostenendo che la centralità riconosciuta dai greci allo sport nell’educazione dei cittadini non aveva pari tra le altre civiltà antiche. Alcune affermazioni appaiono discutibili, come quella secondo la quale l’atletismo greco non aveva «il carattere della speculazione e della specializzazione spinte poi sino all’atletismo professionale» (p. 29): era una tesi influenzata dalla retorica contro il campionismo e il professionismo diffusa nella prima metà degli anni ’30, ma in buona parte infondata, essendo il professionismo ben attestato nella Grecia antica. Più in generale, tutta la narrazione di Franzoni risulta idealizzata, come del resto era frequente quando si parlava dello sport antico, e l’uso delle fonti è piuttosto disinvolto, perché l’autore racconta dettagliatamente fenomeni sui quali i testi antichi non consentono ricostruzioni precise. Per esempio, descrive nei dettagli le regole del gioco dell’episkyros, che in realtà non sono note con certezza.

Il capitolo di Franzoni, però, non è animato dal nazionalismo e dal desiderio di esaltare la civiltà romana. L’autore, infatti, riconosce che lo sviluppo dello sport a Roma fu inferiore rispetto a quello della Grecia e, sebbene evidenzi «il pregio in cui era tenuta l’educazione fisica» nel mondo romano, ammette che la sua diffusione era collegata all’ordinamento militare più che all’educazione dei cittadini. Franzoni cerca di «salvare il salvabile» a proposito dei ludi circensi, sostenendo che fossero una manifestazione di virilità e coraggio, ma non nasconde la propria «ripugnanza» di fonte ai ludi dei gladiatori. Come gli altri pubblicisti sportivi fascisti, l’autore si trovava in difficoltà: il fascismo, com’è noto, si riteneva erede della civiltà romana e spesso gli intellettuali e i giornalisti presentavano le realizzazioni del regime come un ritorno alla tradizione romana, ma nel caso dello sport era difficile sostenere il primato di Roma, soprattutto rispetto alla Grecia, e considerarsene eredi. Ciò nonostante, i pubblicisti più faziosi cercavano ugualmente di presentare la politica sportiva fascista come la «continuazione» di quella di Roma e proponevano ricostruzioni infondate, interpretando molto liberamente i testi antichi, mentre gli autori meno parziali ammettevano che il modello antico dell’atletismo veniva dai greci. Franzoni, seguendo quest’ultimo approccio, sostiene che «la civiltà moderna, nel suo ricorso storico, torna ad essa: esercizi, gare, nomi e ideali sono anche in questo campo una rievocazione della Grecia antica» (p. 70).

Dopo Roma, Franzoni esamina il Medioevo e il Rinascimento, mettendo l’accento, in quest’ultimo caso, sulla «vigorosa affermazione della educazione fisica in armonia con tutta l’altra educazione» (p. 134) e proponendo ancora una lettura idealizzata, sebbene ammetta che le attività ginniche fossero praticate solo dagli aristocratici.

A proposito del mondo moderno, l’autore non manca di riconoscere il primato dei Paesi anglosassoni, che del resto era accettato da una parte della pubblicistica fascista dei primi anni ʼ30. Scrive, tra l’altro, che «i giuochi sportivi più celebri che si sono diffusi ormai in tutto il mondo civile provengono tutti nelle forme che oggi hanno assunto dall’Inghilterra e dall’America» (p. 168). L’ Italia, invece, era in ritardo, ma «contro le incomprensioni, le ideologie e le ostilità del passato è avvenuta una reazione sportiva tale che ha portato questa nazione non solo alla pari ma al di là degli altri paesi, specialmente per l’organizzazione della gioventù e per norme legislative» (p. 184). L’osservazione risente della tesi, ripetuta ossessivamente dalla pubblicistica del Ventennio, secondo la quale solo il fascismo aveva consentito lo sviluppo dello sport in Italia. Franzoni però, evita di discutere dettagliatamente dell’atletismo italiano, come fa a proposito degli altri Paesi.

Concludendo il capitolo, l’autore menziona la questione femminile, sostenendo che anche le donne erano attratte dallo sport. L'affermazione può apparire banale, ma per l’epoca era densa di significato: quando fu pubblicato il volume la chiusura verso l’atletismo femminile aveva provocato le reazioni negative di una parte dei pubblicisti e dei dirigenti e Franzoni, pur senza entrare nel dibattito, lasciava intendere il suo favore per la partecipazione delle donne.

In sostanza, l’autore propone una lettura idealizzata e celebrativa della storia dello sport, ma tiene a freno il nazionalismo e non si dilunga in apologie della politica sportiva fascista.

Dopo il lungo scritto introduttivo, la Storia degli sport propone i capitoli sulle singole discipline. Il primo, Storia dell’atletismo (inteso come atletica leggera), è opera di Giancarlo Eynard (pp. 201-238), il quale, con una narrazione abbastanza realistica, riconosce il primato dell’Inghilterra nello sviluppo della disciplina e i limiti dell’Italia: «I nostri progressi si sono mantenuti, fatta eccezione per due o tre specialità, al di sotto del limite che consente l’ammissione alle finali olimpioniche» (p. 235). A proposito degli anni recenti, Eynard ritiene che le realizzazioni del fascismo, in primis la costruzione degli impianti e lo sviluppo dello sport nelle università, avrebbero condotto a una rapida ascesa dell’atletica italiana. Tuttavia, secondo l’autore gli atleti della Penisola mancavano di «quella forza ideale che anima la gran parte degli atleti anglosassoni e scandinavi» (p. 238): affermazione in netto contrasto con la narrazione più consolidata, secondo la quale il fatto di rappresentare il fascismo era fonte di motivazione per gli sportivi italiani e li rendeva superiori a quelli degli altri Paesi[8].

Di carattere tecnico è il capitolo di Aldo Botti sulla storia della ginnastica (pp. 239-290), che si concentra soprattutto sulla descrizione delle diverse specialità, ma non manca di dedicare un paragrafo alle «superbe vittorie italiane ai concorsi internazionali».

Il capitolo sul nuoto – una disciplina particolarmente incentivata dal regime, che però non divenne mai popolare[9] – è opera Paolo Masera, il quale ammette che in Italia il nuoto sportivo era poco sviluppato, ma afferma infondatamente che le prestazioni erano migliorate ed erano «indizio di un avvenire non lontano, di un primato europeo, nel quale la gagliardia e l’intelligenza della razza avrebbero dovuto avere la maggior parte» (p. 331).

Dopo aver analizzato discipline come caccia, pesca, tiro a bersaglio e ippica, la Storia propone un lungo capitolo sul pugilato, opera di Franco Cambi, che riconosce il ritardo dell’Italia nello sviluppo della disciplina e propone persino alcune considerazioni contro il razzismo. Per esempio, raccontando la carriera di Jack Johnson, il campione afroamericano che all’inizio del secolo aveva messo in discussione il predominio dei pugili bianchi, Cambi scrive: «Accecati dall’assurdo odio per la razza negra, gli Americani cercarono di spazzare via al più presto questo campione del mondo non desiderato» (p. 543), senza però riuscirvi per via del talento di Johnson. A proposito dell’Italia, l’autore non manca di menzionare Leone Jacovacci, il pugile con la pelle nera che il regime aveva in certa misura ostracizzato[10]. L’impostazione «antirazzista» si spiega perché nel 1933 il regime non aveva ancora sviluppato la sua politica razziale: i neri non erano certo considerati alla pari dei bianchi, ma non si era ancora sviluppata quella ossessione per la «difesa della razza» che sarebbe emersa alla fine degli anni ʼ30.

Nel capitolo di Cambi è poco celebrata la figura di Carnera, che del resto ottenne il suo titolo del mondo il 21 giugno 1933, dopo la pubblicazione del volume (senza contare che i dirigenti sportivi fascisti, pur sfruttandone l’immagine, in genere non lo apprezzavano [11]). Anche Cambi, però, accetta la narrazione secondo la quale solo il regime aveva consentito lo sviluppo dello sport in Italia, in particolare grazie al lavoro delle organizzazioni giovanili: «Dal seno delle organizzazioni fasciste della gioventù doveva venire al pugilato italiano il massimo aiuto» (p. 564). È un’affermazione infondata, giacché il regime incontrò sempre molta difficoltà nel promuovere la pratica del pugilato tra gli iscritti alle organizzazioni[12].

Nel complesso, il primo volume della Storia degli sport, pur essendo a tratti inficiato dall’orientamento nazionalista e dall’impostazione celebrativa, offre ricostruzioni meno schierate di quelle che, nello stesso periodo, comparivano sulla pubblicistica.

Il secondo volume

Il secondo volume fu pubblicato nel 1936, quando il regime stava dando avvio alla sua «accelerazione totalitaria». La mobilitazione della popolazione fu intensificata, coinvolgendo in parte anche la componente femminile, e il nazionalismo divenne più marcato, tanto che sarebbe presto degenerato nel razzismo. In merito allo sport, aumentarono sia l’enfasi sulle vittorie internazionali degli atleti italiani, sia l’impegno per la promozione delle attività di massa, al punto che per i membri delle organizzazioni giovanili praticare almeno una disciplina divenne di fatto obbligatorio. Nel 1936, però, questi processi erano stati appena avviati.

Il secondo volume della Storia degli sport è dedicato a discipline non prese in esame nel primo tomo. Nella struttura i capitoli non si discostano da quelli pubblicati in precedenza, proponendo narrazioni che partono dal mondo antico e si concludono nell’epoca moderna, ma, almeno in alcuni casi, i toni nazionalistici e la glorificazione del fascismo appaiono più marcati. Già il primo capitolo, scritto da Luigi Negri e dedicato alla storia dell’alpinismo (pp. 1-84), mette in evidenza soprattutto la funzione patriottica della disciplina[13]. Anche il capitolo sull’aeronautica (pp. 85-160) – che, secondo una interpretazione assai diffusa durante il Ventennio, era considerata un vero e proprio sport – propone una narrazione politicamente orientata. La narrazione, opera di Cesare Galimberti, parte dalle mongolfiere per poi soffermarsi sui dirigibili e sugli aeroplani, dei quali l’autore descrive i progressi tecnici e le prestazioni, mirando però soprattutto a celebrare il ruolo svolto da Mussolini e da Italo Balbo nello sviluppo dell’aviazione e a dare risalto ai record dei piloti italiani. Era, per certi aspetti, un approccio inevitabile, vista l’enfasi che il regime poneva sulla celebrazione delle imprese degli aviatori fascisti e sul presunto primato dell’Italia in materia aeronautica.

Dopo il capitolo di Galimberti, il volume si sofferma sulla scherma (pp. 161-224), della quale Umberto Spotti racconta la storia dal mondo antico in avanti, mettendola in connessione con l’arte militare e con la pratica del duello. Sulle vicende più recenti, anche Spotti elogia il regime, affermando che il modesto risultato conseguito dagli italiani alle Olimpiadi di Parigi del 1924 era dovuto al fatto che «il fascismo non aveva ancor fascistizzato lo sport» (p. 215), sebbene l’affermazione sia in contrasto con i successi ottenuti dagli schermidori italiani prima della marcia su Roma, che l’autore riconosce.

Dopo la scherma, il volume prende in esame il canottaggio, la vela e la motonautica e poi dedica un lungo capitolo, scritto da Franco Cambi, all’automobilismo (pp. 373-520). L’autore descrive l’evoluzione tecnica delle automobili e le principali corse, senza eccessivo nazionalismo, ma riservando molto spazio alle gare disputate in Italia, come la Mille Miglia e la Targa Florio.

Più schierato è il capitolo sugli sport invernali (pp. 521-600), redatto da Gaetano De Luca e Aldo Levi. Per esempio, a proposito dello sci gli autori raccontano correttamente le origini della disciplina nella penisola scandinava e i primi passi dello sci italiano in età liberale, ma affermano anche che in Italia la disciplina stava andando incontro a una grande crescita grazie al lavoro di propaganda del regime. In realtà durante il Ventennio gli sport invernali, pur interessando un numero maggiore di cittadini, non acquisirono particolare popolarità.

Il terzo volume

L’ultimo volume fu pubblicato nel 1938, quando le tendenze emerse negli anni precedenti – mobilitazione della popolazione, culto del Duce, nazionalismo, identificazione della nazione con il regime ecc., – si erano nettamente acutizzate. Inoltre, era cambiata la posizione diplomatica dell’Italia, che si era avvicinata alla Germania hitleriana. Il volume risente, almeno in alcune parti, dei cambiamenti.

Il primo capitolo, opera di Pietro Mariani e Umberto Mezzanotte, è dedicato ai giochi con la palla (pp. 1-220). Non è nota la ragione della scelta di trattare insieme tutti gli sport invece di dedicare un capitolo a ciascuno, come sarebbe stato più opportuno. In ogni caso, sin dalla prima pagina si avverte l’impronta nazionalista della narrazione. Mariani scrive che i giochi con la palla erano praticati già dai popoli primitivi e «ciò serve a confermare sempre più che alla Bionda Albione non spetta il merito di aver creato la maggior parte dei moderni giochi sportivi, ma solo quello di aver saputo adattare ai gusti ed alle esigenze moderne i giochi antichi» (p. 1). È un’affermazione influenzata dai contrasti diplomatici con il Regno Unito e dai toni antibritannici della pubblicistica (nonostante proprio nel 1938 fosse stato trovato un labile modus vivendi tra Italia e Regno Unito, con l’accordo del 16 aprile) ed è in contrasto con quanto si legge nel primo volume, nel quale l’origine anglosassone delle discipline moderne era correttamente riconosciuta.

Dopo la descrizione degli sport con la palla nel mondo antico, gli autori si soffermano su calcio, rugby e football americano, che ritengono continuatori «per ininterrotta tradizione di giuochi antichi e medievali» (p. 19), e riservano molto spazio al calcio fiorentino, che considerano il predecessore diretto del rugby. A proposito del calcio attuale, il racconto è in larga parte incentrato sui successi della nazionale italiana.

Un’impostazione simile si riscontra per gli altri sport: nel caso del tennis, il focus della narrazione è la partecipazione dei tennisti italiani alla Coppa Davis; per il rugby e la pallacanestro, il capitolo si concentra soprattutto sul campionato italiano e sulla nazionale. Alcune pagine, però, sono dedicate ai giochi con la palla meno popolari, (golf, pallamano, biliardo, hockey, polo, ecc.) e alle discipline di diffusione geografica limitata, come il lacrosse e la pelota basca.

Più realistico è il capitolo sul ciclismo (pp. 221-337), uno sport che il regime cercò di promuovere in alcune delle sue organizzazioni, in particolare nella Milizia volontaria per la sicurezza nazionale e nei Fasci giovanili di combattimento, ottenendo risultati apprezzabili, almeno a livello di attività di massa[14]. Franco Cambi racconta le origini della bicicletta, esaminando anche l’evoluzione tecnica alla quale andò incontro nel corso dell’Ottocento, e si sofferma poi sul ciclismo sportivo, descrivendo in maniera asettica corse e corridori. Il capitolo comprende anche quattro profili biografici di grandi campioni: Giovanni Gerbi, Costante Girardengo, Henri Pellissier e Ottavio Bottecchia, definito «l’uomo che più di ogni altro aveva saputo commuovere ed esaltare gli sportivi» (p. 335), nonostante non rientrasse tra gli idoli sportivi glorificati dal regime. Il capitolo, nella sostanza, è meno inficiato da motivazioni politiche, ma a tratti risulta essere un noioso elenco di competizioni e vincitori.

Seguono due capitoli più brevi, uno sul motociclismo, opera di Dante Dotti (pp. 337-360), che non manca di mettere in rilievo il contributo del fascismo allo sviluppo della disciplina, e uno sull’atletica pesante (pp. 361-400), nel quale Pietro Mariani descrive sommariamente vari tipi di lotta diffusi nel mondo, concentrandosi soprattutto sulla lotta greco-romana e sui successi dei lottatori italiani.

Nel complesso, nel terzo volume è evidente il peggioramento della qualità «scientifica», dovuto ai cambiamenti ai quali era andato incontro il regime, che aveva accresciuto il culto per se stesso e per il suo capo e ridotto ulteriormente la tolleranza del dissenso. La medesima evoluzione, del resto, si riscontrava anche in altre componenti del mondo intellettuale, che alla fine degli anni ’30 risultarono più «allineate». Si pensi, per esempio, all’Enciclopedia Italiana, della quale nel 1938 fu pubblicata l’Appendice I, molto più schierata politicamente rispetto ai volumi dell’edizione generale, usciti dal 1929 al 1937[15].

Alcune considerazioni

La Storia degli sport era certamente un’opera innovativa: già in precedenza, come si è detto, non era mancato un interesse per la storia dell’atletismo, ma i tre volumi curati da Franzoni rappresentarono il primo tentativo, almeno in Italia, di proporre ai lettori un’opera che ricostruisse in maniera organica le origini e l’evoluzione dello sport.

Molti capitoli, per le loro dimensioni, avrebbero potuto essere pubblicati come monografie a sé stanti. È significativo, inoltre, che quasi tutti i capitoli si soffermino anche sul Medioevo e sull’Età moderna, epoche che oggi sono spesso trascurate dagli storici dello sport, i quali talvolta ritengono che l’atletismo sia «rinato» nell’Ottocento dopo uno iato durato secoli. Nella Storia, del resto, le discipline sportive sono sempre descritte seguendo la cronologia: origini antiche (e in qualche caso tra i popoli senza scrittura), età greca e romana, Rinascimento, età moderna, anni recenti. In alcuni casi la Storia contiene anche paragrafi di carattere tecnico, che descrivono attrezzature e regolamenti. L’approccio degli autori, come si è visto, è eterogeneo: alcuni capitoli sono sostanzialmente neutrali, mentre in altri l’elogio del fascismo e degli atleti italiani è più marcato. In linea di massima, però, rispetto alla stampa periodica i tre volumi appaiono meno inficiati dal nazionalismo e dal desiderio di glorificare la politica sportiva del fascismo. Nella Storia, infatti, mancano apologie di Mussolini quale «primo sportivo d’Italia», descrizioni eccessivamente lunghe dei meriti, veri o presunti, del regime, ecc., che invece comparivano frequentemente sui giornali. Inoltre, sono menzionati atleti, come Leone Jacovacci e Ottavio Bottecchia, che il fascismo non intendeva rendere popolari. Tale scelta si spiega perché la Storia si rivolgeva a un pubblico diverso, più ristretto e selezionato di quello della pubblicistica.

La Storia si concentra soprattutto sui grandi atleti e sul campionismo. Non mancano alcuni passaggi sulla diffusione dello sport di massa, sia nel mondo antico, sia in quello moderno, ma l’attenzione maggiore è riservata alle competizioni di alto livello. Per la maggior parte degli autori, un Paese dimostrava di avere successo in una disciplina quando faceva emergere atleti capaci di primeggiare a livello internazionale. Talvolta questa impostazione comporta che siano presenti lunghi e monotoni elenchi di competizioni e campioni. Logicamente, i tre volumi non affrontano le questioni sociali, culturali, economiche legate allo sport, che sono oggetto dell’attenzione degli studiosi solo da pochi decenni.

In genere gli autori non citano le fonti che hanno utilizzato, se non in qualche caso a proposito di testi antichi o medievali. Presumibilmente le loro ricostruzioni sono basate, oltre che sui testi antichi, soprattutto sugli studi di carattere storico, anche non dedicati allo sport. Per gli anni più recenti, inoltre, gli autori si sono serviti della stampa periodica e dei loro ricordi personali. Le fonti, però, spesso sono interpretate in maniera forzata, con l’aggiunta di dettagli «fantasiosi».

Nel complesso, la Storia degli sport è una fonte utile agli studiosi dell’atletismo non tanto per le ricostruzioni che propone, quanto per studiare l’ideologia dello sport durante il Ventennio fascista. L’opera, infatti, fa emergere le idee sull’atletismo che circolavano negli anni del regime e, essendo almeno in parte scrostata dalle coloriture propagandistiche della pubblicistica, le lascia intendere con maggiore chiarezza. La Storia può essere utile anche per apprendere notizie su casi specifici, per esempio per ricostruire i percorsi biografici di singoli atleti e alcuni elementi della storia delle competizioni, ma è stata in gran parte superata dalle ricerche successive e va letta considerando il contesto nel quale fu realizzata.



[1] Non è questa la sede per una bibliografia sullo sport durante il fascismo, che negli ultimi anni si è arricchita di numerosi contributi. Per un’inquadratura di carattere generale cfr. Sport e fascismo, a cura di M. Canella, S. Giuntini, Milano, FrancoAngeli, 2009, e E. Landoni, Gli atleti del Duce. La politica sportiva del fascismo 1919-1939, Udine, Mimesis, 2016.

[2] A. Teja, La ricerca medico-sportiva al servizio del regime, in M. Canella, S. Giuntini, op. cit., pp. 133-151; A. Teja, La scienza in campo. Nascita e sviluppo della Federazione Medico Sportiva Italiana, in «Lancillotto e Nausica», 19 (1997), pp. 54-71.

[3] G. Bustico, Il calcio fiorentino, in «Lo Sport fascista», a. II, n. 10, 1929. Sullo stesso tema cfr. anche U. Fortino, Calciatori del XVI secolo, ivi, a. III, n. 6, 1930, che si dice certo della origine fiorentina del calcio.

[4] E. Fonzo, Lo sport nell’Enciclopedia italiana, in «Storia dello sport. Rivista di studi contemporanei», 3 (2021), pp. 1-18.

[5] «Corriere della sera», 30 aprile 1933. Della visita c’è conferma nel Registro delle udienze, in Archivio centrale dello Stato (d’ora in poi ACS), Segreteria particolare del Duce, Carteggio ordinario, b. 3111, f. «Aprile 1933».

[6] ACS, Ministero della Pubblica istruzione, Direzione generale Istruzione superiore, Archivio generale, Università e istituti superiori, b. 155.

[7] «Corriere della sera», 1 dicembre 1932.

[8] Tra gli altri, Achille Starace dichiarò al Consiglio generale del Coni: «I nostri atleti hanno anche una forza spirituale che forse manca negli atleti degli altri Paesi, ed io sono sicuro che voi sapete quanto me, che la forza dello spirito giuoca in senso determinante sulla forza dei muscoli. Non potremmo aspirare a un clima più favorevole: il Partito offre una piattaforma che ogni giorno è più confortante» (Archivio storico del Coni, Verbali del Consiglio generale, seduta del 7 novembre 1936)

[9] E. Fonzo, Il nuovo goliardo. I Littoriali dello sport e l’atletismo universitario nella costruzione del totalitarismo fascista, Roma, Aracne, 2020, pp. 88-90.

[10] M. Valeri, Storia di Leone Jacovacci, l’invincibile mulatto italico, Roma, Palombi, 2008.

[11] Cfr. D. Marchesini, Carnera, Bologna, il Mulino, 2006.

[12] Fonzo, Il nuovo goliardo, cit., p. 94.

[13] Sin dalle origini l’alpinismo era stato caratterizzato da un’impostazione patriottica e nazionalista. Cfr. A. Pastore, Alpinismo e storia d’Italia. Dall’Unità alla Resistenza, Bologna, il Mulino, 2003; A. Boscolo Berto, L’invenzione della montagna. Significati e valori dello spazio nel fascismo e nella Resistenza, tesi di dottorato, Harvard University, 2015.

[14] Lo studioso che si è soffermato con più attenzione sul ciclismo del Ventennio è Daniele Marchesini, del quale si vedano L’Italia del Giro d’ Italia, Bologna, il Mulino, 2009, soprattutto pp. 97-126; Pedalare per il Duce? Ciclismo e fascismo, in Biciclette. Lavoro, storia e vita quotidiana su due ruote, a cura di G. Conti, Parma, Mup, 2007, pp. 29-36. L’interpretazione di Marchesini, secondo il quale il regime politicizzò il ciclismo meno di altri sport, è oggi oggetto di discussione.

[15] E. Fonzo, Il fascismo nell’Enciclopedia italiana, in «Mondo contemporaneo», (2021), n. 1, pp. 5-46.