Simon Martin, Calcio e fascismo. Lo sport nazionale sotto Mussolini

Milano, Mondadori, 2006, 340 pp.

Francesca Tacchi

Università di Firenze

Rileggere oggi Calcio e fascismo di Simon Martin significa fare i conti anche con quanto è stato scritto dal 2004 (data in cui uscì per Berg) in poi sul tema. È quasi superfluo ricordare che ormai la storia dello sport ha acquisito in Italia una propria autonomia e maturità scientifica e che proprio sul rapporto tra fascismo e sport sono state scritte pagine importanti: sullo sport - e sul calcio - come elemento fondante del progetto totalitario di formazione dell’uomo nuovo, ma anche espressione di quell’istituzionalizzazione del “tempo libero di Stato” che si sostanziò anche del consumo passivo dello spettacolo sportivo (dal volume curato da Sergio Giuntini e Maria Canella nel 2009 agli studi, entrambi del 2016, di Enrico Landoni e a cura di Daniele Serapiglia, per non dire di quelli più recenti, tra cui quello di Erminio Fonzo del 2020 sui Littoriali dello sport).

In realtà, di sport e fascismo si era parlato già negli anni ’70, grazie ai pionieristici lavori di Felice Fabrizio (penso al volume da lui curato nel 1976, nel pieno del dibattito sul consenso suscitato dal volume del 1974 di Renzo De Felice dedicato agli anni 1929-1934 della sua biografia mussoliniana). Nello specifico sul calcio, era ancora relativamente fresca l’eco del volume dedicato nel 2000 da Antonio Papa e Guido Panico alla storia sociale della disciplina, che al fascismo avevano riservato, giustamente, molto rilievo, e che non era indicato nella bibliografia finale di Martin (simile a quella che si poteva trovare in una tesi di dottorato, quale in effetti era, avendola discussa all’University College of London), pur essendo citato nelle note. Proprio nel 2006, quando il volume di Martin fu tradotto in Italia, uscirono altri contributi sul calcio italiano: ricordo almeno quelli di John Foot (in copertina la Coppa del mondo appena vinta dall’Italia), tradotto l’anno successivo da Rizzoli col sottotitolo Storia dello sport che ha fatto l’Italia, e di Giuseppe Di Candido, frutto di una tesi di laurea, dedicato proprio a Lo sport più amato dagli italiani durante il fascismo, come recitava il sottotitolo.

Il volume di Martin era, in un certo senso, più ambizioso, come rilevarono alcuni recensori: ad esempio Aldo Agosti parlò di «escursioni un po’ avventurose nei temi della psicologia delle folle, della nazionalizzazione delle masse e dei rapporti tra fascismo e cultura» («Passato e presente», 77/2009, p. 161). Fascinazioni che non aveva avuto solo Martin, se pensiamo ad esempio alla grande influenza degli studi di George Mosse, soprattutto sugli storici del fascismo. Tra gli studiosi esplicitamente ispiratori della ricerca - da Victoria De Grazia a Marla Stone, da Emilio Gentile a Ruth Ben-Ghiat e a Stefano Cavazza (il lettore potrà immaginare i riferimenti bibliografici relativi) - non poteva mancare Hobsbawm, «con il numero 10 sulle spalle» (p. 283). Il volume si faceva e si fa apprezzare per lo sforzo di attingere anche a fonti archivistiche (quelle locali e nazionali, dall’ACS all’ASMAE) oltre a quelle giornalistiche, inevitabilmente preponderanti: accade spesso per la storia dello sport in Italia, ma qui sono davvero dominanti. La carta stampata (ma anche la radio, qui un po’ sacrificata) è del resto «un’ineludibile e fondamentale fonte di prove e informazioni» per «stabilire e comprendere il modo in cui il regime si presentava alle masse» (p. 16). L’affermazione, se vogliamo scontata, rivela l’obiettivo di fondo del volume: non tanto una storia del calcio giocato e dei risultati e del loro sfruttamento in chiave propagandistica da parte del regime (tranne la parte finale sulla Nazionale), quanto - cito - «uno studio della vita sotto il regime vista attraverso la lente del calcio, nell’ambito dei cultural studies» (p. 7).

Per tale motivo, si ricordava nelle conclusioni, si ripercorrevano le tappe attraverso cui il regime si appropriò di uno sport molto “amato” dagli italiani per «esprimere la sua idea di società organica, in cui gli individui erano spersonalizzati e i loro bisogni sottomessi a quelli della massa collettiva, governata dalla figura del capo» (p. 271). Per farlo, Martin ricorreva all’esempio dell’edilizia sportiva e delle infrastrutture: una parte centrale nel volume, che conservaa mio parere un certo interesse. Vi si contrapponeva lo stadio classicheggiante “Il Littoriale” di Bologna, ideato dall’ingegner Umberto Costanzini, e il “Giovanni Berta” di Firenze, progettato da Pier Luigi Nervi, considerandoli paradigmatici della «contraddizione filosofica» della politica culturale del regime, incerta tra l’esaltazione del passato romano e la promozione di una società moderna e futurista. Un confronto tra le due città in effetti vi fu, ma a livello sportivo si giocò in realtà su altri aspetti, tra il “modello Arpinati” delle polisportive con il calcio al centro, e il “modello Ridolfi”, con un’associazione guida per ogni disciplina (nel calcio, la Fiorentina). Non sono sicura che questo prefigurasse, come Martin suggeriva, due modelli diversi di politica sportiva, per quanto sia innegabile che nel calcio trovassero espressione anche i retaggi campanilistici del passato e del presente. In ogni caso, l’attenzione per gli impianti sportivi si è confermata come una pista di ricerca importante (si pensi al volume, del 2006, di Daphné Bolz sulle “arènes totalitaires”).

In definitiva, non mi sembra molto utile indicare cosa oggi è ancora valido o meno del lavoro di Martin, mentre mi pare opportuno inscriverlo in una stagione storiografica di grande fortuna per la “storia culturale” del fascismo, che nell’ambito della storia dello sport non aveva dato grandi esiti in precedenza e non è stata molto seguita, mi pare, nemmeno dopo. Lo stesso Martin qualche anno dopo, nel 2011, con Sport Italia: The Italian Love Affair With Sport, mai tradotto in italiano, presentò una storia “politica” del rapporto tra sport e Stato dall’unità ai governi Berlusconi.