Rosella Isidori Frasca, “…e il duce le volle sportive”

Bologna, Patron, 1983, 152 pp.

Sergio Giuntini

Società Italiana di Storia dello Sport

Le prime storiche dello sport in Italia, che vi si dedicarono con continuità dalla seconda metà degli anni ’80, rispondono ai nomi Rosella Frasca, Gigliola Gori e Angela Teja. Tutte accomunate da una iniziale propensione per l’antichistica, ma capaci di allargare il loro orizzonte anche agli studi di storia contemporanea. Esse furono tra le protagoniste del primo importante appuntamento di storia dello sport tenuto in Italia: il XVII Convegno-Congresso dell’HISPA (International Association for the History of Psysical Education and Sport) svolto a Gubbio dal 26 maggio al primo giugno 1987. In questo consesso la Frasca presentò una relazione su “Sports Gynaecology in Italy” che affrontava questa tematica in periodo fascista. Un tema, quello delle interazioni tra sport-fascismo-donna, che aveva trovato una prima sistematizzazione in un suo precedente saggio del 1983: …e il duce le volle sportive. Pubblicato da Patron di Bologna, il volume offriva molte testimonianze storiche ed iconografiche di quanto il fascismo avesse impattato anche sulla sportivizzazione femminile. Secondo la Frasca l’ampliamento dello sport all’universo muliebre derivò in misura rilevante dalle politiche demografiche perseguite dal regime, ossia dalle battaglie mussoliniane per il popolamento della “nazione proletaria”. E in quest’ottica le attività sportive in cui si intendevano includere le donne finivano con l’assumere delle finalità strumentali, divenivano un mezzo meramente accessorio utile al miglioramento e all’incremento della razza. La logica sottesa a un tale disegno politico poteva così schematizzarsi: la Nazione aveva bisogno di figli, braccia per il lavoro e baionette per la guerra, occorreva ovviare alle carenze alimentari e igieniche che affliggevano un paese povero e arretrato, mediante degli stili di vita più moderni. Gli stessi fatti mirabilmente propri dal duce, definito ed esaltato dalla macchina propagandistica come “Il primo sportivo d’Italia”. Anello iniziale di una simile rivoluzione demografica ed eugenetica non poteva essere altro che la donna vista come futura madre. Donne più sane e forti avrebbero dato madri più in salute, in grado di partorire una prole numerosa e robusta. Di qui la scoperta dei benefici derivanti alla donna dagli esercizi e dallo sport cui venivano avviate nella scuola e nelle organizzazioni totalitarie di massa: su tutte l’Opera Nazionale Balilla. Ciò premesso, l’attuazione di questo disegno determinò per certi versi una sorta di nemesi storica. Vale a dire che il regime veicolò un accesso alle pratiche sportive rivelatosi, alla lunga, non facilmente controllabile e deviante rispetto alle norme sociali e culturali vigenti. Più segnatamente, la sportiva mediante i contatti maturati con realtà nuove e considerate allora persino trasgressive (gli stadi, le palestre, le piscine, il pubblico, le trasferte, la promiscuità, i rapporti più liberi con l’altro sesso, la conoscenza disinibita della propria dimensione corporea) finiva con l’introiettare una diversa immagine di sé, generando dei meccanismi di portata potenzialmente emancipatrice nei confronti del tradizionale recinto domestico e dei modelli di femminilità proposti dalla società e dal fascismo. Un latente processo di liberazione, che destò preoccupazione nella Chiesa cattolica: la prima a censurare severamente gli eccessi dello sport femminile, costringendo il regime a delle brusche frenate e a qualche marcia indietro. Questo scontro tra potere spirituale e politico toccò il proprio acme nel 1930, portando a dibattere del tema il Gran Consiglio del fascismo che, nella seduta del 16 ottobre di quell’anno, stabilì ufficialmente di dare mandato «al Presidente del CONI di rivedere l’attività sportiva femminile e di fissarne, in accordo con la Federazione Medici Sportivi, il campo e i limiti di attività, fermo restando che deve essere evitato quanto possa distogliere la donna dalla sua missione fondamentale: la maternità». La sfida ingaggiata con la Santa Sede su questo punto poteva costare politicamente troppo, specie dopo il successo conseguito con i patti del Laterano dell’11 febbraio 1929. E dunque, se non fu possibile giungere a un appeasement vero e proprio, suggerì di evitare le eccessive forzature come quelle di Augusto Turati in occasione del primo Concorso ginnico atletico delle Giovani Italiane ospitato a Roma. Il tutto fece sì che, al di là di un innegabile incremento di donne avvicinatesi allo sport durante il Ventennio, il regime più che a creare delle vigorose sportive optò in definitiva per la salvaguardia del modello tradizionale fondato sull’idealizzazione delle “madri esemplari”, delle docili “vastali del focolare domestico”. Si appiattì sul maschilismo mussoliniano, che peraltro era assai gradito anche alla maggioranza della popolazione italiana. Sviluppando con un taglio divulgativo e una scrittura brillante queste tesi, il libro della Frasca fornì un primo prezioso contributo alla storia dello sport femminile negli anni del fascismo e più in generale alla storia dello sport femminile in Italia. Un campo di ricerca ancora oggi in cerca di autrici e di autori, che ne delineino meglio e più in profondità gli aspetti peculiari e l’importanza.