Storia e storiografia dello sport durante il fascismo

Erminio Fonzo

Università di Salerno

Enrico Landoni

Università eCampus

Lo sviluppo dello sport durante il fascismo

Il Ventennio fascista è uno dei periodi della storia d’Italia ai quali gli storici dello sport hanno dedicato il maggior numero di ricerche. Tale interesse è dovuto al fatto che negli anni del fascismo la pratica di attività sportive si diffuse in misura significativa tra la popolazione, divenendo per la prima volta un fenomeno di massa. Il regime promosse la diffusione dello sport nella convinzione che fosse essenziale per la creazione dell’“uomo nuovo” e che potesse modificare sia il corpo, sia il carattere degli italiani. Lo sport, in altre parole, era necessario al fine di governare la nazionalizzazione delle masse secondo i desiderata del fascismo.

Com’è noto, negli anni tra le due guerre la società di massa si affermò in tutta Europa e le autorità politiche dovettero intervenire per gestire il fenomeno, con misure, naturalmente, assai diverse a seconda dei sistemi politici. In Italia il regime fascista si dotò di organizzazioni finalizzate a irreggimentare i cittadini e a educarli in base ai suoi principi. Particolare attenzione era dedicata ai giovani, che il regime cercò di “fascistizzare” sin dalla più tenera età attraverso l’Opera nazionale Balilla, con i Fasci giovanili di combattimento, i Gruppi universitari fascisti e, dal 1937, per mezzo della Gioventù italiana del Littorio. Per le altre fasce della popolazione esistevano organizzazioni come l’Opera nazionale Dopolavoro, finalizzata a gestire il tempo libero degli adulti, e la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, investita di funzioni militari e di tutela dell’ordine pubblico.

In tutte queste organizzazioni lo sport era una delle attività principali. Gli organi centrali del regime, e in particolare la segreteria del Partito nazionale fascista, diramavano disposizioni con cadenza quasi quotidiana per promuovere allenamenti e competizioni tra gli iscritti. In tal modo nacque un nuovo sistema sportivo, che organizzava i suoi campionati e si associò al preesistente sistema gestito dalle federazioni sportive nazionali. Si creò una situazione caotica, a causa della moltiplicazione delle competizioni e dell’appartenenza di atleti, società e dirigenti a entrambi i sistemi, ma le attività sportive andarono incontro a una crescita considerevole, seppure inferiore alle aspirazioni del regime.

Lo sviluppo del sistema dello “sport fascista” fu graduale. Il regime diede avvio alla sua politica sportiva alla metà degli anni ’20, in corrispondenza con l’istituzione della dittatura vera e propria, e la sviluppò soprattutto nel decennio successivo. Il periodo di massimo impegno fu quello dell’«accelerazione totalitaria», all’incirca tra la guerra di Etiopia e la Seconda guerra mondiale, perché il regime, volendo accrescere la mobilitazione della popolazione, promosse la pratica di attività sportive con maggiore impegno del passato.

Lo sport si diffuse in tutto il territorio nazionale, raggiungendo anche le aree, come i paesi rurali, dove in precedenza era pressoché assente. La crescita, però, non era dovuta solo alla politica fascista, ma al più generale consolidamento della società di massa, come testimonia il fatto che negli anni tra le due guerre la popolarità dell’atletismo aumentò in tutto il mondo occidentale, compresi i paesi democratici. Inoltre, la “sportivizzazione” degli italiani non era priva di lati negativi, primo fra tutti quello dell’imposizione e del controllo dall’alto. Il regime non si accontentava di promuovere lo sport, ma pretendeva anche di scegliere le discipline che i membri delle organizzazioni dovevano praticare, selezionandole sulla base di alcuni criteri, come la loro utilità per l’addestramento militare e per la creazione dell’«uomo nuovo». Per tale ragione, impose che alcuni sport (atletica leggera, nuoto, pugilato, scherma, rugby e altri) fossero praticati costantemente all’interno delle organizzazioni. Più in generale, nella seconda metà degli anni ’30 il Pnf iniziò a pretendere che tutti i giovani iscritti alle organizzazioni prendessero parte a competizioni e allenamenti, rendendo così lo sport un’imposizione.

Le attività furono incentivate soprattutto in ambito maschile, perché la partecipazione delle donne era in contrasto con l’ideale della “donna madre” e con il ruolo domestico nel quale si voleva confinare la popolazione femminile. Tuttavia, la partecipazione delle donne non fu mai esclusa del tutto e nella seconda metà degli anni ’30, in corrispondenza con l’aumento della mobilitazione della popolazione, fu accettata maggiormente e persino incentivata dalle autorità politiche, sebbene non tutte le riserve fossero venute meno.

Negli anni del fascismo aumentò anche la popolarità dello spettacolo sportivo, che divenne uno dei principali svaghi degli italiani. Era una conseguenza inevitabile della “sportivizzazione” dei cittadini, perché la pratica dello sport e lo spettacolo sportivo si rafforzano sempre a vicenda: seguire le imprese degli atleti di alto livello sprona la popolazione a fare sport e, nello stesso tempo, dal “calderone” delle attività amatoriali, nel quale si sviluppano inevitabilmente il principio della competizione e il desiderio di affermarsi, emergono nuovi campioni, destinati a diventare idoli popolari. Del resto il regime, pur avendo alcune riserve sul professionismo e sul “campionismo”, incoraggiò lo sport-spettacolo, considerandolo uno strumento per la nazionalizzazione delle masse, in particolar modo in occasione delle competizioni internazionali. Le vittorie degli atleti italiani erano considerate successi del fascismo stesso e servivano a consolidare il consenso per il regime e il suo capo.

In sostanza, nel corso del Ventennio le attività sportive andarono incontro a una crescita a tutti i livelli. Il fenomeno non poteva non suscitare l’attenzione degli storici, che hanno dedicato numerosi studi allo sport italiano negli anni della dittatura. Sebbene la storiografia sportiva propriamente detta sia nata in epoca relativamente recente, la narrazione del ruolo del fascismo nella promozione dello sport prese avvio negli anni stessi del regime.

Le origini degli studi sullo sport fascista

Il regime fascista volle essere storico di se stesso, proponendo, attraverso la sua pubblicistica e i suoi intellettuali, una narrazione della sua ascesa e delle sue realizzazioni. Nel corso del Ventennio, furono pubblicate numerose opere che raccontavano la nascita e l’affermazione del fascismo: si pensi a Storia della Rivoluzione fascista di Giorgio Alberto Chiurco (Vallecchi, 1929), al celebre paragrafo di Gioacchino Volpe della voce Fascismo dell’Enciclopedia Italiana (Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1932, vol. XIV), alla Storia del fascismo firmata da Roberto Farinacci (Cremona Nuova, 1940, in precedenza pubblicata come Storia della rivoluzione fascista, Cremona Nuova 1937-39), a numerosi altri libri, parte dei quali talvolta usati per l’insegnamento universitario di Dottrina del fascismo.

Alcuni giornalisti e dirigenti vicini al regime raccontarono anche la storia della politica sportiva. Sulla stampa specializzata, come il mensile «Lo Sport fascista», i pubblicisti menzionavano piuttosto frequentemente l’evoluzione alla quale le attività sportive erano andate incontro dopo la marcia su Roma, allo scopo di mettere in rilievo i meriti del governo di Mussolini e di sottolineare che lo sport italiano si era sviluppato solo grazie al fascismo, che aveva messo gli atleti italiani in condizione di affermarsi in ambito internazionale. Era una narrazione certamente faziosa, ma non priva di elementi di verità, perché effettivamente le politiche fasciste contribuirono alla popolarizzazione dell’atletismo e al conseguimento di risultati prestigiosi nelle competizioni di alto livello. Non furono pubblicati, però, libri dedicati specificamente all’evoluzione dello sport durante il Ventennio, con la parziale eccezione del Libro dello sport (Libreria del Littorio, 1928) di Lando Ferretti, uno dei massimi ideologi dell’atletismo, che però non era propriamente un libro di storia.

Negli stessi anni mosse i suoi primi passi anche una più generale storiografia sullo sport, che si proponeva di ricostruire le origini e l’evoluzione delle discipline sportive nel corso dei secoli. Articoli e capitoli sulla storia dei singoli sport comparvero relativamente spesso sulle pagine di «Lo Sport fascista» e su altre riviste, nonché in alcune voci dell’Enciclopedia italiana, nel citato Libro dello sport di Ferretti e in altre pubblicazioni; negli anni ’30, inoltre, fu pubblicata un’opera in tre volumi, la Storia degli sport curata da Andrea Franzoni (Società editrice libraria, 1933-38), che ricostruiva la storia delle discipline dal mondo antico in avanti. In genere questi lavori erano caratterizzati da un’impostazione nazionalista e cercavano di mettere in evidenza un presunto primato dell’Italia e degli italiani nell’“invenzione” dello sport. Per esempio, in molti casi si postulava l’origine italiana del calcio, facendolo derivare dal calcio fiorentino di età rinascimentale.

Lo sport, però, non era oggetto dell’attenzione della storiografia accademica. A occuparsi di ricostruire l’evoluzione dell’atletismo erano soprattutto giornalisti, dirigenti sportivi e persino semplici appassionati.

Quando il regime crollò, la classe dirigente si trovò di fronte al problema di raccoglierne l’eredità in materia di sport, spogliando il sistema degli elementi incompatibili con la democrazia, ma evitando di annullare completamente quello che era stato costruito. In questo contesto, non potevano mancare alcune discussioni sulla politica sportiva del regime. In particolare, Lando Ferretti propose un volume, intitolato Lo sport (L’Arnia, 1949), per mettere in rilievo i meriti del fascismo.

Tuttavia, per la pubblicazione di opere storiche vere e proprie bisognò attendere alcuni anni. Nel 1954 Antonio Ghirelli, un giovane giornalista destinato a intraprendere una prestigiosa carriera, diede alle stampe la sua Storia del calcio in Italia (Einaudi), che dedicava molto spazio al Ventennio fascista, soffermandosi soprattutto sulle competizioni professionistiche. Si trattava, però, di un’opera isolata, anche perché la storiografia accademica continuava a ignorare lo sport, non considerandolo un argomento degno di ricerca scientifica. Non a caso, il primo lavoro organico sullo sport durante il regime venne da uno studioso non appartenente all’accademia, Felice Fabrizio, che nel 1976 pubblicò il celebre Sport e fascismo. La politica sportiva del regime 1924-1936 (Guaraldi), nel quale prese in esame anche la diffusione delle attività sportive tra le masse.

Anche negli anni ’80 i lavori principali non furono opera di storici accademici, ma di giornalisti e dirigenti sportivi. Nel 1983 quattro dirigenti dei Gruppi Fiamma (Renato Bianda, Giuseppe Leone, Gianni Scipione Rossi e Adolfo Urso), vicini al Movimento sociale italiano, pubblicarono il volume Atleti in camicia nera. Lo sport nell’Italia di Mussolini (Volpe, Roma), che rovesciava l’impostazione di Fabrizio e metteva in risalto i meriti del fascismo, pur riconoscendo alcuni limiti della sua politica.

Nello stesso anno un contributo interessante venne da Giorgio Bocca, che tra la fine degli anni ’30 e i primi anni ‘40 era stato un atleta universitario di buon livello. Bocca pubblicò un articolo a metà strada tra la memorialistica e la storiografia, intitolato Sport e fascismo («L’Illustrazione dello sport», II, 4, 1983, pp. 9-17), nel quale sostenne che le attività sportive delle organizzazioni del regime fossero poco “fasciste”, nel senso che non erano sfruttate per l’indottrinamento politico. Il giornalista, inoltre, raccontò più volte, in articoli, libri e interviste, la sua esperienza di atleta durante il Ventennio.

Negli anni successivi non furono pubblicati altri contributi rilevanti sullo sport del periodo fascista, ma la più generale storiografia dello sport andò incontro a un’importante evoluzione e iniziò a guadagnare spazio in ambito accademico. Nel 1984, tra l’altro, iniziò le pubblicazioni «Lancillotto e Nausica. Storia e critica dello sport», la prima rivista italiana di storiografia sportiva. Nata per iniziativa di un gruppo di storici (Luciano Russi, Adolfo Noto, Lauro Rossi e altri), la rivista è stata una delle principali voci della storiografia sportiva italiana per oltre trent’anni. Negli anni ’80, inoltre, numerosi studiosi, sia provenienti dall’accademia sia a essa esterni, proposero libri e articoli di storia dello sport. Tra loro Gaetano Bonetta, Sergio Giuntini, Antonio Lombardo, Guido Panico, Antonio Papa, Stefano Pivato, Angela Teja, ai quali si aggiunsero alcuni anni dopo Francesco Bonini, Patrizia Dogliani, Daniele Marchesini e altri. Con il passare degli anni le ricerche si moltiplicarono e nel 2004 nacque la Società italiana di storia dello sport, sezione del Comité Européen de l’Histoire du Sport/European Committee of Sports History, con il duplice compito di promuovere la storiografia sportiva e fornire una forma di coordinamento agli studiosi.

La storia dello sport fascista oggi e il presente fascicolo di “Storia dello sport”

In questo quadro di sviluppo degli studi sullo sport, il Ventennio fascista è stato oggetto di numerose ricerche. È impossibile tracciare in questa sede una rassegna completa di quanto è stato pubblicato, ma va ricordato che gli studi hanno affrontato numerosi temi e problemi: ruolo delle istituzioni sportive, fascistizzazione delle federazioni e del Coni, funzione della stampa, singole discipline sportive, sport delle organizzazioni fasciste, campioni, successi internazionali degli atleti italiani, Mussolini “primo sportivo d’Italia”, ecc.

Ciò nonostante, alcune questioni hanno ricevuto meno attenzione. Per esempio, la diffusione dello sport nei primi anni dopo la marcia su Roma, quando il regime non era consolidato e poteva dedicare poco impegno all’atletismo; il lavoro di alcune organizzazioni; la funzione diplomatica delle competizioni e il loro ruolo nella costruzione e nel consolidamento di relazioni internazionali; le attività sportive nelle scuole, nelle università e nelle forze armate; le specificità territoriali e lo squilibrio tra le diverse aree del Paese; il ruolo di singoli gerarchi e l’importanza del controllo di federazioni e società sportive negli equilibri di potere interni al regime; alcune discipline sportive; e altri ancora.

La ricerca, del resto, può avvalersi di numerose fonti, alcune delle quali poco utilizzate fino a ora. Buona parte degli studi si basa sulla stampa del tempo e su alcuni archivi, in particolare l’Archivio storico del Coni e una parte dei fondi dell’Archivio centrale dello Stato. Sono disponibili, però, anche fonti meno note, come gli archivi delle federazioni e delle società sportive, dei quali da alcuni anni è in corso una rivalutazione; diversi fondi degli archivi di Stato (questure e prefetture; provveditorati agli studi; uffici del genio civile; alcuni fondi meno usati dell’Acs, ecc.

In occasione del centesimo anniversario della marcia su Roma, la Società italiana di Storia dello sport ha organizzato alcune iniziative per promuovere la ricerca sui temi meno indagati. In settembre, all’Università di Salerno, si è tenuto il decimo convegno nazionale della Società, intitolato a Lo sport durante il fascismo. Ricerche storiche e prospettive storiografiche a cento anni dalla marcia su Roma, nel corso del quale più di quaranta studiosi hanno discusso di vari aspetti del fenomeno. I contributi saranno raccolti in un volume di prossima pubblicazione.

Il presente fascicolo di «Storia dello sport. Rivista di studi contemporanei» mira a sua volta a proporre ricerche innovative e originali, che ampliano il quadro della storiografia e affrontano alcune tematiche nuove. In particolare, il fascicolo si propone di esaminare la storia dello sport “all’interno” della storia più generale, considerando l’atletismo come un fenomeno che ebbe importanti risvolti nelle dinamiche politiche, sociali, culturali ed economiche del regime.

Il fascicolo pone l’accento sulle organizzazioni e le istituzioni del regime fascista, su alcune specificità territoriali e su discipline sportive trascurate dalla storiografia.

Più specificamente, il contributo di Alberto Molinari si sofferma su una delle principali organizzazioni fasciste, la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, mettendo in luce il suo contributo alla fascistizzazione del ciclismo e il rapporto, non sempre semplice, con le associazioni ciclistiche. Angela Teja e Daphne Bolz prendono in esame un’istituzione poco nota, la Scuola di educazione fisica dell’Università di Bologna, esistita dal 1925 al 1927, mettendo in connessione il suo operato con le aspirazioni del regime alla diffusione delle attività fisiche e alla creazione dell’ “uomo nuovo”.Su casi territoriali si soffermano altri contributi: quello di Edoardo Molinelli, dedicato al calcio in un’area “calda” come il confine orientale; l’articolo di Pierfrancesco Trocchi sullo sviluppo dell’atletismo a Bologna, intesa come “laboratorio dello sport fascista”, anche per la presenza di un dirigente come Leandro Arpinati; quello di Onofrio Bellifemine sulla Juventus del “quinquennio d’oro” 1931-35, esaminata attraverso la lente della stampa periodica.

Infine, il contributo di Angela Teja e Patrizia Veroli analizza discipline trascurate dagli studiosi, la ginnastica ritmica e la danza classica, con un focus sulla figura di Jia Ruskaja.

In tal modo si è cercato di offrire un contributo nuovo e originale agli studi sullo sport durante il Ventennio fascista, con l’auspicio di aprire nuovi filoni di ricerca.

Nel fascicolo, però, manca un contributo, quello di Andrea Bacci, che aveva proposto un articolo sul ruolo di Mussolini come “primo sportivo d’Italia”, da incentrare su una delle discipline praticate dal Duce. La proposta era stata accettata, ma Andrea non ha potuto scrivere il suo lavoro, perché scomparso prematuramente. Di lui ci restano numerosi e preziosi contributi sulla storia dello sport, alcuni dei quali discussi in questo fascicolo nella sezione delle recensioni.