“Benedetta gente, questi piemontesi!”

Da Torino alla gloria nazionale, la Juventus del quinquennio d'oro (1930-1935) nella stampa italiana

Onofrio Bellifemine

Università Cardinale Stefan Wyszyński

Indice

Introduzione
“Non il pazzo impeto ma il sangue freddo”: i successi di una squadra azienda
“La furbacchiona che sa approfittare di ogni esitazione”: brutta, vincente e... antipatica
Conclusioni

Abstract:  Between 1930 and 1935 Juventus won five consecutive football championships becoming the most loved football team in Italy. The Italian press described Juventus in two ways: on the one hand with admiration for their efficiency and on the other in a polemical way for their game considered too unspectacular. The following essay analyzes the journalistic narrative of this period underlining the cultural connections of these readings. In fact, it was a very important moment for Italian football which became increasingly popular between the end of the 1920s and the beginning of the 1930s. In this period, the fascist institutions devoted ever greater attention to football and organized the World Cup which took place in Italy in 1934.

Keywords: Football and Fascism; Narrative of Sport; History of Football; Juventus; 1934 FIFA World Cup.

Introduzione

Il 2 giugno del 1935, grazie alla vittoria ottenuta per 1-0 sul campo della Fiorentina, la Juventus vinse il settimo titolo della sua storia, il quinto consecutivo[1]. Le accoglienze che a Torino spettarono alla squadra campione furono senza precedenti: una folla di migliaia di persone, armata di bandiere e gagliardetti attese i propri beniamini presso la stazione ferroviaria di Porta Nuova, dove alcuni giocatori, con il capitano Virginio Rosetta in testa, furono issati a spalla e portati in trionfo per le strade della città. Il festoso corteo si arrestò solo davanti alla sede societaria in via Bogino dove gli atleti si affacciarono dai balconi dell'edificio per salutare i propri tifosi[2]. Neanche le formazioni rivali nascosero la propria ammirazione: il Torino accolse in stazione i campioni bianconeri al gran completo, mentre il Milan, la Lazio, la Roma, il Bari, il Palermo e molte altre inviarono messaggi di congratulazioni.

La vittoria bianconera non sfuggì nemmeno alle autorità fasciste: ai festeggiamenti furono presenti il segretario federale del partito Piero Gazzotti, il podestà Ugo Sartirana e la banda musicale dei Giovani fascisti che intonò a più riprese Giovinezza mentre personalità di spicco, fra cui il deputato Aldo Vecchini, segretario generale del sindacato fascista avvocati e procuratori, e il sindacalista torinese Andrea Gastaldi inviarono dei telegrammi di felicitazioni. Il presidente della Figc Giorgio Vaccaro inviò un messaggio alla squadra e ai suoi tifosi nel quale sottolineava il talento, la classe e la tenacia dei calciatori protagonisti dell'impresa e quindi meritevoli «del compiacimento e dell'elogio della federazione».

L'intera squadra, giocatori e dirigenti, venne infine ospitata il 6 giugno presso la sede della Federazione provinciale del partito, la Casa Littoria di via Carlo Alberto per ricevere ulteriori congratulazioni solenni dal regime.

La Juventus dominò il calcio italiano dal 1930 al 1935, il cosiddetto “quinquennio d'oro”, vincendo cinque titoli nazionali e costituendo l'ossatura della nazionale che nel 1934 avrebbe conquistato i campionati del mondo disputati in casa e fortemente voluti dal regime fascista[3]. Si trattava di una squadra costruita con estrema intelligenza tattica e tecnica dalla dirigenza bianconera guidata dal vicepresidente della Fiat, Edoardo Agnelli e che poteva contare su un solido reparto difensivo (composto da un celebre trio di campioni come il portiere Combi e i terzini Rosetta e Caligaris), su un centrocampo concreto e ed estroso allo stesso tempo (che aveva nella dominanza fisica dell'italo-argentino Luis Monti il suo perno) e di un settore offensivo completo e prolifico che negli anni si arricchì di giocatori dotati di una straordinaria tecnica individuale come Felice Borel, Renato Cesarini, Raimondo Orsi, Federico Munerati, Giovanni Vecchina. La formazione, come vedremo meglio più avanti, praticava un gioco concreto ed efficace reso a volte imprevedibile dall’estro e dalla fantasia dei suoi interpreti, era in grado di leggere con astuzia le varie fasi della partita, di restare compatta nei momenti più difficili della stagione e di inseguire con testarda tenacia gli obiettivi più ambiziosi. La guida tecnica fu affidata a Carlo Carcano, un passato glorioso come centromediano dell’Alessandria, club dove aveva esordito anche come allenatore, e assistente di Vittorio Pozzo durante i mondiali del 1934. Un tecnico che impostava il proprio gioco sul “metodo”, un sistema di gioco basato su difesa e contropiede, ma che, oltre ad essere un astuto e pragmatico tattico era un fine psicologo in quanto in grado di far convivere nella stessa formazione temperamenti e caratteri non sempre compatibili[4]. Dopo aver conquistato quattro titoli consecutivi con la Juventus e in procinto di vincere il quinto, fu costretto a rassegnare le dimissioni nel gennaio del 1935 a causa di sempre più insistenti voci sulla sua omosessualità che iniziavano a mettere in serio imbarazzo la società[5]. Oltre al suo contributo tattico Carcano lasciò larghe tracce nella storia di quella Juventus anche per via del rigido rigore imposto alla squadra e che avrebbe segnato in modo significativo l'immagine della società presso l'opinione pubblica. I giocatori infatti:

erano sottoposti a un rigido regime di sorveglianza che sfiorava la maniacalità. Un solo giorno di libertà alla settimana, di solito il lunedì, la presenza giornaliera in sede con la relativa firma del foglio come per gli impiegati, severe e inappellabili punizioni per chi veniva sorpreso non necessariamente a fare le ore piccole, ma in giro dopo l'ora della ritirata. Per il controllo dei suoi atleti Carcano si appoggiava a un gruppo di giovanissimi e fidati torinesi che godendo del loro anonimato potevano meglio controllare i giocatori[6].

I cinque anni di successi della Juventus erano anche il segno di uno sport che durante il fascismo stava cambiando radicalmente:

grazie al varo di un generale piano di riordino che prevedeva l’introduzione del professionismo, il blocco degli stranieri, la riorganizzazione del massimo campionato italiano, chiamato ora Divisione Nazionale e composto da due gironi di venti squadre l’uno, e la sostituzione del Consiglio Federale, eletto dalla base e troppo spesso teatro di liti e tensioni tra differenti cordate politiche, con il ben più efficiente e snello Direttorio, di nomina presidenziale, ratificato dal Coni e chiaramente mutuato dal modello organizzativo del Pnf[7].

Per il regime il calcio si sarebbe ben presto rivelato un prezioso strumento di integrazione e nazionalizzazione delle masse e per questa ragione può risultare oggi un altrettanto prezioso punto di osservazione sulle politiche culturali del fascismo finalizzate ad ottenere legittimità e consensi[8].

I mondiali organizzati dall’Italia fascista nel 1934 rappresentarono un importante riconoscimento per il movimento calcistico italiano, un significativo successo propagandistico per il regime e furono anche lo specchio dell'egemonia sportiva della Juventus che con ben nove convocati e cinque titolari rappresentò la colonna portante della squadra campione[9]. Il «Popolo d'Italia» sottolineò la grandissima partecipazione popolare che aveva accompagnato gli azzurri per tutto il torneo e soprattutto il significato simbolico dell’evento, cartina di tornasole della solidità del regime e del suo prestigio internazionale:

affermazioni concordi di giornalisti, tecnici e atleti stranieri riconoscono che oggi soltanto l'Italia era in grado di organizzare un torneo così vasto e complesso al quale hanno partecipato i dirigenti e le squadre di ben sedici nazioni. Perfezione organizzativa disciplinata e meticolosa; ospitalità corretta, intelligente ed opportuna verso gli atleti stranieri, sia nei giorni degli incontri, come nelle sedi tranquille sagacemente scelte, nei periodi di preparazione. Ampiezza, attrezzatura, quantità dei grandi stadi, tutti modernissimi. E infine perfetto funzionamento di tutti i servizi. Sì che gli atleti e gli appassionati di oltre confine convenuti nel nostro paese per la grande competizione riporteranno in tutto il mondo un'impressione stupenda e duratura dell'Italia fascista[10].

La copertura mediatica dell'evento fu di primissimo piano e la carta stampata celebrò la prestigiosa vittoria come un trionfo in generale dell’Italia fascista e in particolare una vittoria personale di Mussolini[11]. Le celebrazioni per la vittoria azzurra non devono sorprendere:

i riti e le feste di massa volevano educare per convertire, investendo i valori fondamentali e i fini ultimi dell'esistenza. La funzione della liturgia di massa andava oltre l'aspetto ludico o demagogico che pure era presente: mirava a conquistare e plasmare la coscienza morale, la mentalità, i costumi della gente e persino i suoi più intimi sentimenti sulla vita e sulla morte[12].

«La Stampa» di Torino affidò il commento tecnico della finale al suo cronista e opinionista sportivo Vittorio Pozzo, che in modo singolare, si trovò a raccontare un match che aveva vissuto direttamente da bordo campo in qualità di commissario tecnico di quella squadra[13]. Oltre a celebrare sportivamente la validità degli avversari, Pozzo sottolineò lo spessore tecnico della sua squadra individuando nella prestazione di due bianconeri, il portiere Combi e il centrocampista Orsi, considerato il migliore in campo, i giocatori decisivi della partita. Veniva inoltre esaltata la compattezza del gruppo e il suo rigore morale, elemento questo che richiamava la formazione allenata da Carcano, collaboratore del tecnico azzurro:

il successo stesso è stato afferrato. Esso premia la serietà, la fermezza morale, lo spirito di abnegazione, la ferma volontà di un plotoncino di uomini che per degnamente difendere i colori dell'Italia, non ha esitato a segregarsi dal mondo per quaranta giorni privarsi di tutto, a piegarsi ad ogni disciplina....si dica quel che si vuole: nessuna cosa supera al mondo la soddisfazione del dovere compiuto con coscienza, con fede, con caparbia anche se necessario, con studio, con prudenza, con successo[14].

Pozzo sottolineava anche la dimensione popolare della vittoria, il grado di passione con il quale gli italiani avevano seguito l’avventura degli azzurri e la crescita del movimento calcistico in Italia. È stato fatto notare che in realtà «in Italia il calcio era ancora uno sport giovane e il fervore popolare si manifestò soprattutto in occasione delle partite della nazionale azzurra mentre molti altri incontri si giocarono con una cornice di pubblico modesta, come gli appena 7000 spettatori che assistettero a Napoli alla finale per il 3° posto tra Germania e Austria»[15]. Tuttavia che il calcio stesse guadagnando nuovi spazi nel cuore degli italiani era un dato acquisito: il trionfo della nazionale; infatti, era stato preceduto da quelli ottenuti in Italia dalla Juventus e accolti con sempre maggiore entusiasmo dai tifosi di tutto il paese. Alcuni mesi prima della finale disputata con la Cecoslovacchia, ad esempio, nell'aprile del 1934 a Brescia, in migliaia attesero l’arrivo dei bianconeri in stazione, provocando anche qualche piccolo incidente e per salvaguardare l'ordine pubblico la squadra dovette salutare la folla accorsa, dai balconi del proprio albergo. Episodi simili si verificarono anche una settimana prima a Genova e un mese dopo a Trieste[16]. Ancora più calde furono le accoglienze registratesi al Sud dove mancando squadre locali in grado di competere per traguardi importanti, gli appassionati sposarono i colori della squadra in quel momento egemone. In città come Bari, Palermo, Catania, Napoli in occasione dei match con la Juventus arrivavano puntualmente imponenti carovane di tifosi da tutte le zone della regione e nel caso del capoluogo pugliese anche oltre: nel 1932 per Bari-Juventus, «La Stampa» di Torino registrava la presenza di numerosissimi tifosi bianconeri provenienti dalla Basilicata[17]. Una popolarità che avrebbe lasciato larghissime tracce nella struttura del tifo nazionale: a partire da quel momento la Juventus potette contare sempre su una importante base di tifosi nel sud del Paese. L'accoglienza trionfale che i giocatori della Juventus potevano riscuotere in giro per l’Italia era in piena sintonia con la nuova stagione che si stava aprendo nel mondo del calcio. Riorganizzato, come visto dal regime fascista che ne seppe leggere potenzialità e possibili nuovi sbocchi, il gioco visse una fase di veemente sviluppo grazie all’aumento della sua spettacolarità, nuovi moduli che favorirono una maggiore compattezza delle squadre e quindi una competizione più avvincente e l’emergere di campioni che, grazie a classe ed estro, accesero un sempre più grande interesse da parte dei tifosi. Il simbolo di un nuovo rapporto tra campioni e pubblico e in generale un nuovo ruolo che i giocatori più importanti potevano svolgere nell'immaginario collettivo, come nel caso dell’asso nerazzurro Giuseppe Meazza:

le sue figurazioni – scatto da fermo sulla tre quarti di campo, palla incollata al piede, dribbling in successione, finte di piede e di corpo in velocità, arresto immediato in area: invito all'uscita del portiere e tocco in rete – costituivano una sequenza accademica che fu moltiplicata all'infinito dalla fantasia degli spalti[18]

Simbolo dell’Inter, con la quale conquistò tre titoli nazionali diventandone uno dei suoi giocatori più rappresenttivi, ma allo stesso idolo della nazionale azzurra con la quale riuscì a fregiarsi per ben due volte del titolo di campione del mondo nel 1934 e nel 1938, Meazza incarnò alcuni degli aspetti più potenti della retorica fascista. Da una parte rispecchiò con il suo ampio seguito di tifosi che lo osannavano, al di là della fede calcistica, la dimensione nazionale di questo sport, mentre dall’altra interpretò a pieno il ruolo dell’eroe sportivo grazie al talento, alla potenza fisica e al valore dimostrato in campo[19]. La sua vita privata movimentata fatta di avventure notturne, chiacchierate frequentazioni femminili e lussi e agi assortiti raccontava anche una certa mondanità cifra di questa popolarità acquisita dal mondo del calcio e speculare «alla logica dell'industria calcistica»[20].

A raccontare la nuova dimensione raggiunta dal mondo del calcio ci aveva già pensato qualche anno prima il campione bianconero Virginio Rosetta. Fu anche grazie a lui se la “Vecchia Signora” venne associata a un certo potere economico che aveva stravolto gli equilibri finanziari del nostro calcio: la polemica destinata a non arrestarsi più sull’etica e l'opportunità di investire grandi somme di denaro per l’acquisto di un calciatore di fama ha il suo primo, iconico caso proprio con un acquisto targato Juventus, il terzino Virginio Rosetta prelevato dalla Pro Vercelli nel 1923[21].

I casi di Meazza e Rosetta che segnavano rispettivamente il crescente divismo nel mondo del calcio e il giro d’affari sempre più consistente che ruotava attorno a questo, non erano isolati. I bianconeri della Juventus cinque volte campione riuscirono a ritagliarsi nel corso di quegli anni un ruolo di primissimo piano nello star system italiano diventando protagonisti di réclame e pellicole cinematografiche. Un’orologeria di Milano, per esempio, nel 1933 in occasione del terzo titolo consecutivo della Juventus acquistò un'intera pagina del quotidiano sportivo «La Gazzetta dello sport» per immortalare i campioni d’Italia sorridenti, intenti nel saluto romano, mentre lo slogan spiegava che gli assi torinesi avevano inviato all’azienda parole di «entusiasmo e di lode» per i prodotti sponsorizzati unici per «esattezza e praticità»[22]. Ulteriore riscontro di questa fama fu la pellicola La contessa di Parma diretta nel 1937 da Alessandro Blasetti e incentrata su una storia d’amore tra un’avvenente indossatrice spacciatasi per una nobildonna e un affermato calciatore della nazionale e della Juventus ostacolata da svariati equivoci e impedimenti. Il film, ambientato a Torino, ospitava come comparse numerosi calciatori bianconeri, tra i quali il centravanti Felice Borel detto Farfallino mentre gli interni per iniziativa dello scenografo Enrico Paulicci, in gioventù portiere della “Vecchia Signora”, erano arredati con foto e cimeli dei giocatori juventini. La commedia, tipica del genere dei “telefoni bianchi” presentava una spensierata e patinata dimensione mondana popolata di attori, modelle e calciatori si proponeva anche come «una sorta di manifesto propagandistico della modernizzazione del paese che il regime intendeva avviare...La Torino della modernità industriale e dello sviluppo economico, e dei nuovi consumi – l'auto e la moda- che avrebbero caratterizzato il futuro dell'Italia, legava quindi la sua immagine alla Juventus, in una rappresentazione in cui appariva fortissimo il rapporto tra la città e la squadra»[23].

Mentre il calcio viveva una significativa espansione, la Juventus imponeva il proprio predominio. Non erano solo gli appassionati ad omaggiare la “Vecchia Signora”, anche il regime fascista, che manifestò la propria simpatia per le vittorie bianconere. I rapporti tra la società di Torino e le autorità fasciste erano improntati, del resto, ad una serena e pragmatica collaborazione:

la famiglia Agnelli, anche nella gestione della Juventus, restava fedele al criterio a cui si atteneva nei rapporti con il potere fascista: ricavarne il massimo che poteva per garantire la sicurezza e l'ordine di cui l'impresa, come qualsiasi azienda, aveva bisogno, ma evitare per quanto possibile che mettesse troppo il naso nei suoi interessi[24].

Di quella Juventus la carta stampata forniva un’immagine che correva lungo un duplice binario. La stampa torinese celebrava una squadra azienda, dove tutte le rotelle dell’ingranaggio giravano allo stesso tempo nel modo giusto e dove il rigore, l'impegno, la disciplina, il senso del sacrificio erano valori assoluti le basi dei suoi successi. D’altro canto i fogli milanesi e romani parlavano di una squadra poco spettacolare, cinica, fredda, spesso antiestetica e soporifera, sempre accompagnata dalla «fortuna» e per questo vincente oltre i meriti sportivi. Tra questi due modi diversi di intendere il mondo juventino non mancheranno contatti polemici.

“Non il pazzo impeto ma il sangue freddo”: i successi di una squadra azienda

Nell’ottobre del 1932, la Juventus lanciò in prima squadra Felice Borel che aveva appena diciotto anni, soprannominato Farfallino per via dell’eleganza in campo e al particolare stile di corsa. Un giocatore subito decisivo con 29 reti in 28 partite[25]. Schivo, timido e di poche parole, Borel venne identificato dal «Guerin Sportivo», al tempo stampato a Torino, come uno dei simboli di quello che era e rappresentava la “Vecchia Signora”:

Borel II, il Farfallino ha diciotto anni: freddo e calcolatore, sempre presente a se stesso anche a due passi dalla porta e con un colosso alle costole, sempre pronto a far funzionare il cervello prima di muovere le gambe. Sono questi i campioni che non solo hanno la possibilità di un grande avvenire, ma quelli che possono darci grandi soddisfazioni e far migliorare lo sport. L'ambiente li deve incoraggiare in tale calma, che non il pazzo impeto occorre ma il sangue freddo, non l'impulso abbiamo bisogno di incoraggiare fra i giovani della nostra razza (già ne son ricchi) ma l'abitudine alla riflessione rapida anche nei momenti difficili: la testa prima delle gambe. La forza della Juventus come Società sta appunto in quella freddezza a cui abitua i giocatori, con l'esempio Rosetta e Monti in campo, con l'esempio dei dirigenti fuori dal campo: i quali mai esaltano i giocatori per domani perseguitarli; ma mantengono le distanze basate sul rispetto reciproco. Noi amiamo i campioni freddi e calcolatori, e più quelli incoraggiamo: né mai ci siamo sbagliati. È ora di finirla di disprezzare l'intelligenza nello sport, e quel carattere fatto di silenzio e di disciplina interiore che porta con l'educazione, alla conquista maggiore dello sportivo e dell'uomo: il dominio su se stessi, la più bella fra tutte le vittorie[26].

Questa austerità concreta e laboriosa, così lontana dalla teatralità e dall’esuberanza di certi ambienti calcistici sembrava essere espressione diretta non solo della tradizionale compostezza sabauda ma anche di quella Torino urbana e industriale, protesa al raggiungimento dei suoi obiettivi. E proprio il contesto cittadino e societario di quelle vittorie, con Torino città dell’automobile italiana e la famiglia Agnelli proprietaria della Fiat, rendevano naturale accostare quella squadra ad un’azienda pragmatica ed efficiente. La metafora, ad esempio, veniva colta sempre dal «Guerin Sportivo», che nel giugno del 1933 asserì:

La Juventus con tutta la sua freddezza è piuttosto un alto forno. Tutti i metalli più diversi entrano nel crogiolo, si fondono e non ne esce che un bronzo unico, marca juventina. È bronzo non per far campane che ad ogni colpo risuonino per gioia o per dolore. È bronzo per fare dei cannoni...quel bronzo è arma e non lamento[27].

In quella circostanza, il periodico sportivo ironizzava anche sull'eccessivo distacco dei calciatori bianconeri che, pur avendo battuto per 3-0 il Milan e conquistato il terzo titolo consecutivo, alla fine della partita erano sfuggiti all’abbraccio dei propri tifosi per precipitarsi negli spogliatoi e sottrarsi alla pioggia battente di quel giorno:

Benedetta gente, questi piemontesi. Possono anche desiderare molto una cosa, possono saperla veramente volere, senza tuttavia farsene accorgere troppo; ma quando l'hanno raggiunta, niente. Come se fosse la cosa più facile del mondo. Quindi niente sbaciucchiamenti, niente ubriacature. Guardano, constatano, pigiano e fanno magari un sorrisetto. Sino al sorrisetto arrivano; togliersi le mani di tasca per una fregatina di soddisfazione sarebbe già troppo...pigliano su e vanno pensando: “bene. Adesso bisognerà studiarne un'altra”[28].

A Napoli, chiosava malizioso l’articolista, «ci sarebbero almeno mezza dozzina di sincopati e molti signori andrebbero vestiti in giro in azzurro chiaro. Qui gli unici veramente entusiasti sono i paracarri»[29]. Che i bianconeri fossero dei professionisti piuttosto pratici, avvezzi al rigore e alla disciplina, lo sottolineava anche «Il Littoriale» che il 30 aprile del 1934 seguì la Juventus che in treno rientrava a Torino da Roma dove aveva appena battuto la Lazio vincendo il suo quarto titolo consecutivo. I bianconeri venivano definiti la «squadra più simpatica d'Italia» ma ancora una volta l’attenzione si appuntava su Felice Borel, l’eroe di quel torneo con 31 reti; eppure, così dimesso nei modi e nelle dichiarazioni. Anche il resto della squadra sembrava restare con i piedi per terra e spendeva parole misurate nei confronti del giovane asso. Carlo Carcano, per esempio, dichiarava che sì, Borel era un buon giocatore ma aveva ancora notevoli margini di crescita: «tecnicamente è a posto, ma è un po' deboluccio. Credo che si irrobustirà e allora avremo veramente il gran centravanti»[30]. C’erano nelle cronache giornalistiche anche delle concessioni alla retorica fascista. In questa del «Il Littoriale» ad esempio, si sottolineava la dimensione tutta casa e famiglia di due campioni come Rosetta e Caligaris:

la festa migliore è quella di aver fatto lieti i loro bambini. La piccola di Rosetta aveva telegrafato: papà sei forte et devi vincere. Mi raccontava questo Rosetta e gli occhi gli brillavano dalla gioia. Scendo in una stazione del casentino e mentre attendo il treno mi torna in mente ciò che Caligaris mi narrava della sua bambina. Prima di partire gli aveva detto: senti babbuccio – e appuntava le labbra quasi vergognosa – senti devi diventar campione, se no io come farò a scuola? Ci sarà stata a scuola qualche ambrosianista e lei temeva per questo, non per altro. E Rosetta e Caligarsi, a quest'ora, avranno portato in trionfo i loro piccoli nella intima lietezza della famigliola: ed è la gioia più bella perché tocca il cuore”[31].

L’anno seguente fu il «Guerin Sportivo» a seguire in treno la Juventus nella sua trasferta a Firenze per l’ultima giornata di campionato, dove in palio c’era il quinto scudetto consecutivo. Anche in questo caso si sottolineava la serietà del gruppo, la concentrazione, la maniacale dedizione al raggiungimento dell’obiettivo, l’adesione totale ad un modello, e uno stile che non lasciava nulla al caso. Gli atleti erano tutti vestiti in modo impeccabile, eleganti in abiti scuri; Monti, ad esempio, «lo si direbbe un pacifico capo-fabbrica in giacchetta, un buon padre di famiglia in tutt’altre faccende affaccendato che in quelle di un Campionato di calcio»[32]. A dare ulteriore solidità all’ambiente ci pensava la dirigenza che seguiva costantemente il gruppo, dispensando consigli e parole d’incoraggiamento mentre teneva a bada i giornalisti respingendo le loro scomode domande di calciomercato con dei garbati, ma fermi, “no-comment”. Stavolta però era la storia di Rosetta ad interessare i giornalisti, dato che il giocatore aveva ricevuto dalla società un permesso speciale per raggiungere il campo di Firenze con un treno successivo, a poche ore dal fischio d’inizio. La sera prima, infatti, il terzino bianconero aveva inaugurato a Torino, davanti alle autorità fasciste della città, una gelateria di sua proprietà, la “Grande gelateria Rosetta”. Per farsi perdonare, l’atleta si presentò a Firenze con delle cassate da regalare ai suoi compagni di squadra, il frutto del suo lavoro di imprenditore e ai cronisti che lo salutarono col titolo di cavaliere, rispose di essere semplicemente un umile «gelatiere»[33]. Nel 1934, il capitano, Combi, spiegava con poche parole cosa fosse lo stile “juve”: «non ho molto da dire. Lo stile della nostra squadra può essere sintetizzato in poche parole, forse solo due: lavorare e stare zitti. Ognuno fa del suo meglio, nessuno vien meno al suo dovere»[34]. La Juventus quindi:

lasciava soprattutto l'impressione di una squadra che in tempi molto più vicini a noi si sarebbe chiamata operaia, allora il termine non era usato e non sarebbe piaciuto molto, ma il concetto che sottintende era apprezzato anche dal regime come simbolo di sacrificio dei valori individuali allo sforzo collettivo[35].

Queste letture sulla pratica essenzialità bianconera, sullo spirito operaio della squadra, sullo stacanovismo dell'ambiente, sull’efficienza e la sobrietà di una vera e propria macchina sportiva, si incontravano con schemi e interpretazioni di più ampio respiro riguardo i piemontesi e che, sebbene durante il fascismo vivessero un importante slancio, avevano radici molto più antiche. Già nel 1843 nel suo Del primato morale e civile degli italiani, Vincenzo Gioberti aveva sottolineato la differenza caratteriale tra piemontesi e napoletani dato che nei primi si riscontrava sobrietà e self control, mentre nei secondi, esuberanza e imprevedibilità. In uno scritto del 1855 fu invece Cesare Balbo a riflettere sull’eccezionalità del carattere dei piemontesi che, grazie alla dinastia dei Savoia, erano riusciti a mantenere la propria indipendenza e maturare fiducia nelle istituzioni, onestà e attaccamento al lavoro[36]. Anche il best seller del 1869, Volere è potere, scritto da Michele Lessona docente di zoologia e anatomia comparata presso l'Università di Torino e noto divulgatore scientifico insisteva sull’importanza del lavoro, del senso del sacrificio, della tenacia che permetteva di superare ostacoli ardui e di ottenere risultati insperati. Il volume, scritto sul modello dell’allora celebre Self-Help di Samuel Smiles, incentrato sulla scalata al successo di persone che partivano da una situazione di disagio, tradiva l'orgoglio piemontese di Lessona, esponente di un’antica e illustre famiglia di Venaria Reale. Del resto anche Massimo D'Azeglio aveva esaltato l’operosa e industriosa gente di Torino chiamandoli «inglesi italianizzati»[37].

Questo stereotipo proseguì con gli anni: Antonio Gramsci esaltò la disciplina e l’organizzazione che si respirava in questa parte d’Italia, evidenziando come una rivoluzione proletaria fosse più probabile in Piemonte che altrove, mentre Piero Gobetti celebrò la regione, da tempo si era consacrata al «culto della pratica» in contrapposizione a quell’Italia molle e codarda che stava cedendo al fascismo:

Gobetti idealizzava il suo Piemonte e lo costruiva come una terra non portata a «complicazioni psicologiche e romantiche» ma incline al «culto della pratica», una terra il cui spirito era «scontroso e aspro come le sue montagne». Il Piemonte era la regione italiana che si avvicinava di più al modello virtuoso protestante: la Fiat era «uno dei pochi stabili menti anglosassoni, moderni, capitalistici in Italia», e i suoi numerosi imprenditori «anglomani» erano esempi di frugalità, onestà e industriosità...Questo fare del Piemonte il cuore virtuoso dell’Italia può essere stato un tentativo di tenere viva la speranza mentre il fascismo consolidava il suo dominio dittatoriale sul paese nel corso del 1925 e del 1926. Allo stesso tempo era anche un’ulteriore prova di una certa coscienza dei piemontesi che vedevano la loro terra diversa e migliore rispetto all’«altra» Italia, una coscienza rafforzata dal fatto che il fascismo era emerso inizialmente in altre regioni della penisola[38]

La Juventus appariva quindi come l'espressione sportiva di un sentire comune che riconosceva a Torino e al Piemonte questa impronta valoriale. Durante questi cinque anni di vittorie, solo in un caso i bianconeri vinsero il torneo con ampio margine, nel 1933, distanziando la seconda classificata di otto punti. Viceversa, gli altri campionati furono vinti al termine di appassionati testa a testa e a volte, come nel 1935, anche in modo rocambolesco e sorprendente. Le singole partite spesso venivano decise dalla solidità della difesa e dall'astuzia della squadra, in grado di sferrare il colpo decisivo nel momento chiave del match, senza dimenticare la capacità della formazione di superare prestazioni disastrose, come il 5-0 incassato dalla Roma al Testaccio nel 1931, il 4-0 subito dal Bologna lo stesso anno o il 5-3 rifilato dalla Lazio nel novembre del 1934[39]. Nel carattere granitico del collettivo, più della classe dei singoli, vedeva la chiave del successo juventino il giornalista Bruno Roghi su «La Gazzetta dello Sport»:

la personalità tecnica della compagine bianco-nera non è facilmente decifrabile. Ricordiamo le squadre che hanno vinto il campionato negli ultimi anni: la Juventus non ha lo scintillio tecnico e l'estro inventivo dell'Ambrosiana 1929-30, non ha la fluida armoniosità del gioco incisivo del Torino 1927-1928, non ha l'equilibrata e spavalda veemenza del Bologna 1928-1929. Viste attraverso la lente dello stile, le partite della Juventus offrono un panorama ove le luci e le ombre s'alternano con distacchi spesso repentini e taglienti. Partite grige, partite sfavillanti. La virtù somma della squadra juventina consiste nella compattezza del gioco, nel timbro maschio del suo gioco. Spirito trincerista, si è detto, con felicissima immagine: la partita che diventa impegno d'onore, il combattimento che diventa fredda e disperata volontà di vittoria...la Juventus ha vinto perché ha subordinato la valentia dei suoi campioni allo spirito di corpo della squadra[40].

Una lettura analoga veniva fornita da «La Stampa» nel 1934 quando la formazione fu definita un’autentica «unità di combattimento»: «l'impresa è stata compiuta anzitutto per la mirabile fusione di spirito fra capi e gregari, fra dirigenti e atleti; per la serietà e l'intelligenza che ha fatto degli uni gli artefici sereni e illuminati di un blocco granitico man mano modellato, senza; tentennamenti» o scoramenti, alla necessità della situazione»[41]. Vittorio Pozzo seguì per il giornale torinese l’intera epopea di quella squadra, commentandone la serie vincente e vivendo da vicino quell’ambiente in quanto commissario tecnico di una nazionale che aveva nella Juventus il suo architrave. Come Roghi, anche Pozzo metteva al centro dei successi juventini la tenacia, lo spirito di sacrificio, il temperamento. Nel 1931, in occasione del primo scudetto della serie, Pozzo commentò con entusiasmo l’invasione di campo dei tifosi bianconeri e il caloroso abbraccio che questi avevano riservato ai loro beniamini sottolineando che si trattava del: «premio di tutta una somma di lavoro, di concentrazione, di sacrificio, di applicazione, di lotte. È anche il premio a tutta una linea di condotta: il premio alla serietà»[42]. L’anno dopo la Juventus ebbe la meglio sul Bologna dopo un lungo testa a testa: i rossoblù comandarono la classifica per i due terzi del campionato vincendo il titolo virtuale di campioni d'inverno e sembrarono riuscire a staccare gli avversari. I bianconeri invece ebbero una partenza «lenta e stentata» dando poi nel resto della stagione «l'impressione di aver qualche pena a ritrovare il tono migliore di gioco». Eppure i campioni in carica furono impeccabili nel finale di stagione e, nonostante le tante difficoltà e la brillantezza degli avversari, riuscirono a vincere le ultime nove partite e a conservare il titolo grazie soprattutto alla tenuta societaria. Tutto il club, dall’allenatore ai dirigenti, dai collaboratori ai calciatori, aveva spinto in una medesima direzione mostrando una straordinaria capacità di leggere i vari momenti della stagione. Il Bologna invece pagava una certa debolezza di spirito manifestatasi nei momenti difficili del campionato, quando le forze vengono meno e quelle dell’avversario aumentano, non credendo nelle proprie possibilità. Per Pozzo la differenza stava tutta dunque qui, nello spirito di sacrificio, nel carattere, nell’aver saputo soffrire fino alla fine:

mai sforzo fu più intenso, più concorde, più continuato e regolare...l'intera squadra guidata con intelligenza e fermezza, è venuta a trovarsi in uno stato di grazia al momento culminante della competizione. Qualcuno aveva dubitato dei giocatori juventini all'inizio della stagione. I giocatori hanno risposto da soli non appena sono stati in grado di riambientarsi, di riprendersi dalla stanchezza e dalle conseguenze delle ferite riportate in servizio. Hanno vinto e quel che più importa convinto. È un'affermazione della classe. La vittoria ottenuta dalla Juventus è di quelle che recano onore al complesso degli elementi che ad essa fanno capo e per essa hanno lavorato: dirigenti, giocatori, allenatori, organizzatori. Torino sportiva, tutta saluta con soddisfazione, con gioia, con orgoglio, questo successo che pone ancora una volta un organismo suo alla testa del movimento calcistico d'Italia[43].

“La furbacchiona che sa approfittare di ogni esitazione”: brutta, vincente e... antipatica

Questa operosa concretezza di stampo sabaudo, che rendeva così orgoglioso l’ambiente bianconero e la stampa torinese, non veniva salutata sempre con entusiasmo. Al contrario, il gioco tutto muscoli e cuore esaltato da Roghi e Pozzo, marchio di fabbrica degli uomini di Carcano, veniva letto in altra maniera dalla stampa romana e milanese che ne sottolineava, ad esempio, la prevedibilità del gioco, la sua scarsa portata estetica, l’eccessiva prudenza tattica e che portava la formazione a rischiare poco. Ottenendo tutta la posta in palio, ma sacrificando così il divertimento del pubblico. L’immagine della squadra azienda, di una fabbrica di vittorie dove l’anima operaia dei suoi campioni permetteva di superare crisi e difficoltà e di portare a casa il risultato, veniva, in questa ottica, completamente rovesciata. Si trattava piuttosto di una compagine assai scaltra, in grado di imporre la sua sagacia tattica agli avversari, mortificando però lo spirito autentico del gioco che risultava imbruttito, azzerato nei suoi elementi più spettacolari, e dove non era la squadra migliore a vincere, ma la più cinica. Nel dicembre del 1931 «La Gazzetta dello Sport» commentò il pareggio tra Bologna e Juventus per 1-1 con toni piuttosto piccati. I rossoblù avevano attaccato per tutta la partita gagliardamente e con efficacia per cercare di ottenere la vittoria e quindi i due punti, mentre la “Vecchia Signora” si era trincerata dietro una ostinata difesa, rinunciando a proporre il suo gioco e in questa maniera aveva addirittura sfiorato la vittoria finale:

ha avuto il Bologna un bel picchiare sulla retroguardia juventina col suo gioco d'attacco sempre veemente e a volte perfino spasmodico: era come rompersi la testa nel tentativo frenetico di sfondare un muro. E il Bologna è rimasto lì inchiodato contro il muro, inchiodato su un pareggio che a tutti i suoi ardentissimi seguaci deve essere apparso inverosimile, iniquo. Ancora non basta. Proprio all'ultimo minuto di gioco per un capello la Juventus ha fallito il gol della vittoria: una scorreria del furbissimo Munerati a campo scoperto e un tiro dritto di Maglio che il portiere Gianni ha respinto con difficoltà. Ci sarebbe mancato anche il gol! Tutti quanti i bolognesi, giocatori e spettatori avrebbero buttato all'aria il Littoriale per snidare il diavolo che certo, s'era rimpiattato in qualche buco per consumare i suoi torbidi incantesimi ai danni della squadra rosso-blu[44].

Il duello scudetto col Bologna, nel racconto di Pozzo deciso dallo spirito di sacrifico e dalla lucidità dei bianconeri, qui sembrava dovuto più dalla prudenza e dalla fortuna. Il quotidiano milanese spiegava come «la Juventus si è appigliata alla tattica che costituisce la prerogativa del suo gioco più guerriero che brillante»[45]. Una considerazione analoga veniva avanzata anche nel 1931, quando, commentando un Bari-Juventus vinto per 1-0 dalla squadra di Torino, il giornale evidenziava come il risultato non fosse equo: «Assolutamente no se si considerano le occasioni sciupate dai baresi e il loro franco predominio di gioco per quasi tutto il primo tempo, allorché gli ospiti erano costretti ad una affannosa difesa dell'area»[46]. Si segnalava anche la delusione del pubblico pugliese che si aspettava molto di più dai fuoriclasse bianconeri. I riferimenti al cattivo gioco, alla provvidenziale assistenza della fortuna e a una serie di vittorie non sempre ottenute con pieno merito, furono continui nella stampa sportiva di quegli anni. Nel maggio del 1931, per esempio, «Il Littoriale», in quel momento edito a Roma, nel commentare il derby Torino-Juventus terminato 1-1 faceva notare che «la sorte, unicamente la sorte non ha premiato i più forti, i più precisi, in una parola la squadra più squadra per mezzi, cuore e compattezza»[47]. Nello stesso anno il quotidiano annotava che «la Juventus che continua ad essere sorretta dalla fortuna, palesa nella sua compagine lacune e insufficienze che non appaiono invece nelle sue antagoniste dirette e non mancheranno di influire nei futuri scontri diretti»[48]. Ad aprile dello stesso anno, commentando la vittoria di misura per 2-1 a Legnano, veniva spiegato che la Juventus «è passata più per un colpo improvviso di fortuna che per un giusto compenso di superiorità...possiamo dire che siamo certi che un incontro nullo avrebbe giustamente sanzionato i valori in campo e ricompensato gli sforzi ed il cuore dei lilla»[49]. Il quotidiano rimproverava ripetutamente ai bianconeri un’eccessiva prudenza, un’astuzia opportunista che mortificava lo spettacolo e puntava solo al punteggio come avvenuto in altre occasioni, ad esempio a Brescia nel giugno del 1931[50]. L’anno seguente la situazione sembrava essere la stessa: in occasione di una vittoria dei bianconeri per 2-1 a Firenze si constatava che «non sempre la giustizia dei risultati si presenta alleata dei più meritevoli e se oggi vi era in campo allo stadio Berta una squadra che non meritava di perdere questa era proprio la viola». La vittoria appariva casuale, condizionata dalla buona sorte: «la Juventus ha all'attivo due goals uno meno convincente dell'altro» entrambi frutto del caso e di errori individuali della difesa viola[51].

Nel gennaio del ʼ33 sempre «Il Littoriale» alla vigilia di una partita ancora contro la Fiorentina evidenziava come la fortuna fosse determinante per i successi della squadra di Torino, descrivendo la formazione come una «squadra anziana, furba, tenace...nessun dubbio che essa possa con la fortuna ripetere il gesto dello scorso anno e vincere»[52].

Brutta, fortunata e vincente anche la Juventus del 2 giugno 1935, sempre a Firenze e trionfatrice quindi per la quinta volta consecutiva in Italia. Secondo il «Corriere della Sera»: «la vittoria è stata strappata più per un episodio fortunato che per merito vero e proprio...non il gioco granitico che disarma gli avversari ma un gioco prudente anche troppo prudente quasi che l'obbiettivo non fosse che il risultato pari»[53]. «Il Littoriale» spiegava invece che «la Fiorentina abilissima ma sterile è battuta per 1-0 dalla Juventus solida, combattiva e anche un po' fortunata» e sul campo si era vista una «una netta, chiara e continua superiorità dei viola che si sono battuti con uno spirito alto...La Juventus pur sempre salda, astuta, la furbacchiona che sa approfittare di ogni esitazione non ha mai dato la sensazione di poter diventare la dominatrice dell'incontro come il risultato starebbe a dimostrare»[54]. Non la più forte quindi ma la più organizzata, la più scaltra, la più cinica. E la più fortunata.

Questa ostilità sembrava essere l'altra faccia della medaglia del successo travolgente dei bianconeri e aveva una molteplice spiegazione.

Era forte l’identificazione con la Fiat e con la sua realtà industriale come spiega Piera Callegari:

a casa sua la Juventus non si presentava come un miraggio impalpabile: era invece molto più semplicemente la squadra dei padroni. Nella polemica sociale sempre spontanea dove c'è un grande agglomerato di industrie, il club bianconero veniva a pagare presso un gran numero di accusatori l'insistita distinzione della sua nascita, il dominante accento borghese che ne aveva accompagnato il cammino […]. [Non era] una pira questione di soldi, un risentimento verso l'eccezionale disponibilità finanziaria garantita dagli Agnelli. […] era piuttosto un dissidio di appartenenza, l'accusa verso un presunto peccato d'origine. Era quel primo Liceo d'Azeglio e tutti gli altri che in seguito avevano dato il contributo, era il Collegio San Giuseppe che tifava in tribuna con riduzioni speciali, e quei titoli di studio, quei dottori, quei nobili che dopo aver giocato al tempo loro, ancora circolavano nella sede del Club Juventus. Il quale manteneva con puntiglio uno stile che ai ceti più popolari appariva troppo sofisticato ed esclusivo, simbolico di una situazione sociale che distanziava nettamente due strati della popolazione[55].

Anche i tifosi bianconeri rispecchiavano questo stile composto e sostenuto. Frequentatori della tribuna, amanti della sobrietà negli applausi e negli incitamenti, prudenti anche nelle proteste verso arbitri e nelle recriminazioni verso squadre e sostenitori rivali, la tifoseria juventina risultava essere piuttosto tiepida ed esigente[56]. Era un fatto che ben presto presero la Juventus iniziò ad attirare oltre agli applausi dei propri sostenitori anche i fischi dei tifosi avversari. Nell'aprile del ʼ34, a Roma, ad accoglierla all’ingresso in campo ci furono «frizzi e lazzi partiti dalla tribuna, ad opera dei più intolleranti» e anche un campione simbolo di quella squadra come Orsi fu salutato da diversi fischi[57]. Dell’antipatia sollevata dalla Juventus parlava già nel ʼ33 il «Corriere della Sera» legandola all'invidia suscitata presso le altre tifoserie a causa della sua lunga scia di vittorie. Molti, stanchi di vederla trionfante, speravano al contrario di assistere alla sua sconfitta:

ovunque vada la Juventus, gli sportivi stanno all'erta sia per ammirare il gioco dei campioni d'Italia, sia per attenderli ad un eventuale capitombolo, non già per il malvagio istinto demolitorio ma per il desiderio di veder riaccendere la combattività del torneo[58].

Una riflessione simile la offriva il giornalista Gino Palumbo:

Genova si sentiva ferita...Milano e Bologna vedevano nella Juventus un’antagonista...nel Sud no, non c'erano motivi di contrasto, non esistevano ambizioni rivaleggianti[59].

Sul rapporto tra gli italiani e l’invidia nutrita nei confronti dei vincitori già nel 1868 Michele Lessona, nel già citato Volere è potere «notava che gli italiani non possedevano una buona disposizione per il lavoro, e che avevano ereditato, tra gli altri mali, un certo «disprezzo per la ricchezza». Contrariamente agli inglesi, gli italiani invidiavano i ricchi, specialmente quelli che si erano fatti da sé, e avevano la tendenza ad aspettarsi troppo dal governo, anche se allo stesso tempo mostravano una grande sfiducia nei suoi confronti»[60].

Contro queste critiche si spese a più riprese il «Guerin Sportivo». Nel 1933, il periodico sportivo ironizzava sulle continue speculazioni che colpivano la Juventus mettendo alla berlina quel filone della critica sportiva che considerava le vittorie della squadra dovute essenzialmente a «continue fortune frammezzate da qualche inelegante furto»[61]. Nel maggio del ʼ34 sempre il «Guerin Sportivo» rifletteva nuovamente sulla presunta fortuna dei campioni:

la grande regolarità della Juventus (nel vincere) è quella che la rende indiscutibile. Sarebbe infatti terribilmente stupido parlare di fortuna. Si potrà sospettare di fortuna una squadra per qualche settimana o per qualche mese, specie nei casi in cui a brillanti sequenze susseguono tracolli rovinosi; ma per aver fortuna per quattro anni, per 136 partite, in modo da vincerne un centinaio e pareggiarne una ventina, è difficile crederlo. Ci saranno molti modi per spiegare come una squadra, per quattro anni di seguito, perda al massimo quattro o cinque partite al massimo e ne vinca ventitrè o venticinque; ci saranno molti modi per spiegare come una squadra per quattro anni faccia tre volte più goals di ciò che ne prenda; ma il modo di spiegare tutto ciò con la fortuna è lo stesso modo che hanno gli ubriachi per spiegare che la terra gira”[62].

Non c’erano dubbi, sembravano essere critiche dannose per il nostro calcio: «molti hanno desiderato in questi ultimi tempi, che la Juventus si indebolisse. Nulla di più logico dal punto di vista tifodeo, nulla di più stupido dal punto di vista generale. Che la Juventus sia il nucleo della nazionale lo si ricorda soltanto nell'imminenza delle grandi partite. Poi, lo si dimentica subito volentieri...antipatia per invidia, da tifo basso, tifo da barriera»[63].

Conclusioni

Il campionato 1934-35 fu l’ultimo trionfo bianconero del periodo: dovranno passare quindici anni per rivedere la “Vecchia Signora” di nuovo vincente. Il ritiro di alcuni campioni ormai a fine carriera come Combi, il ritorno precipitoso in Sud America degli oriundi Cesarini, Orsi e Monti, l’allontanamento di Carcano e la tragica scomparsa del presidente Edoardo Agnelli nel luglio del 1935, posero fine al ciclo vincente. Si aprì per il calcio italiano una nuova fase dominata dal Bologna, vincitore di quattro titoli tra il 1936 e il 1941 e dal “Grande Torino”, cinque volte campione tra il 1942 e il 1949. Tuttavia le eredità del quinquennio d’oro furono evidenti anche nel secondo dopoguerra. Da una parte la straordinaria popolarità della Juventus sembrava intatta, dall’altra sembrava essersi radicalizzata una altrettanto non comune ostilità. Accoglienze entusiastiche si alternavano a vibranti critiche e distinguo[64]. Si trattava del lascito degli anni da noi presi in esame. In questi la Juventus era diventata un autentico modello di successo e si era vista riconosciuta un codice comportamentale fatto di impegno, disciplina e rispetto delle gerarchie che ne accresceva un’immagine romantica e cavalleresca, unica nello sport italiano. Eppure i suoi legami con il mondo dell’industria torinese, il suo potere economico, la sua attitudine alla vittoria ne avevano favorito anche un’immagine alternativa che stava alimentando una antipatia destinata a rimanere nel panorama nazionale.



[1] La Juventus vince nettamente sul traguardo il suo quinto campionato consecutivo in «La Gazzetta dello Sport», 3 giugno 1935.

[2] Il ritorno dei campioni in «La Stampa», 4 giugno 1935. Altri dettagli sull'accoglienza ricevuta in: Un premio non un miracolo in «Guerin Sportivo», 5 giugno 1935.

[3] Sulla Juventus degli anni Trenta: A. Agosti, G. De Luna, Juventus, storia di una passione italiana: Dalle origini ai giorni nostri, Milano, Utet, 2019, pp. 71-97; Dizionario del calcio italiano, v. II, a cura di M. Sappino, Milano, Baldini e Castoldi, 2000, p. 1063; A. Agosti, Juventus anni Trenta, Ivi, v. I, pp. 913-915. Per una lettura di quegli anni più romanzata ma comunque con una base documentale: R. Tavella, Il romanzo della grande Juventus, Newton Compton, Roma, 2017, pp. 107-130.

[4] Per un ritratto di Carcano cfr. E. D’Orsi, Carlo Carcano, in Sappino, Op. cit., v. I, p. 593; U. Maggioli, Carlo Carcano in «Hurrà Juventus», luglio 1965, pp. 32-33.

[5] Le dimissioni del gennaio del ʼ35 metteranno di fatto fine alla carriera di Carcano che dopo brevissimi incarichi presso Genoa (in qualità di vice), Sanremese, Inter, Atalanta, Alessandria e ancora Sanremese (questi ultimi due come direttore tecnico) si ritirò a vita privata a Sanremo dove fonderà la società amatoriale Carlin’s Boys. Nella città ligure morirà completamente dimenticato nel giugno del 1965. Sull'allontanamento di Carcano: G. Pastore, La storia dimenticata di Carlo Carcano in «l’Ultimo Uomo» [https://www.ultimouomo.com/la-storia-dimenticata-di-carlo-carcano/] (ultima consultazione 5 gennaio 2018,); G. Brera, Donadoni sì ma Galli no in «La Repubblica», 19 settembre 1986; M. Calandri, Il fantasma di Carcano, dimenticato dopo quattro titoli, Ivi, 12 maggio 2018; A. Caruso, Un secolo azzurro. Cent'anni d'italia raccontati dalla nazionale di calcio, Milano, Longanesi, 2013, p. 139; E. Brizzi, Vincere o morire. Gli assi del calcio in camicia nera, Roma-Bari, Laterza, 2016.

[6] Sappino, Op. cit., p. 1063.

[7] E. Landoni, Gli atleti del duce: la politica sportiva del fascismo, 1919-1939, Milano-Udine, Mimesis, 2010, p. 78. Sul calcio e il fascismo cfr. Ivi, pp. 77-80; S. Martin, Calcio e fascismo, lo sport nazionale sotto Mussolini, Milano, Mondadori, 2006; A. Ghirelli, Storia del calcio in Italia, Torino, Einaudi, 1954, pp. 80-91; A. Papa, G. Panico, Storia sociale del calcio in Italia, Bologna, il Mulino, 2002, pp. 130-144; P. Dietschy, Storia del calcio, Vedano al Lambro, Paginauno, 2010, pp. 178-189; D. Serapiglia, Tempo libero, sport e fascismo, Bologna, BraDypUs, 2016; E. Landoni, Un secolo da protagonisti. I primi cento anni di storia del movimento arbitrale italiano (1911-2011), Angiari, Grafiche Marchesini, 2011, pp. 29-34; Per una lettura vivace e romanzata del periodo: E. Brizzi, Vincere o Morire. Gli assi del calcio in camicia nera (1926-1938), Roma-Bari, Laterza, 2016.

[8] Su vari aspetti della politica del consenso del regime cfr. E. Gentile, Il culto del littorio. La sacralizzazione della politica nell'Italia fascista, Laterza, Roma, 1993; V. De Grazia, The Culture of Consent. Mass Organisation of Leisure in Fascist Italy, Cambridge, Cambridge UP, 1981; S. Cavazza, Piccole Patrie. Feste popolari tra regione e nazione durante il fascismo, Bologna, il Mulino, 2003; T.H. Koon, Believe, Obey, Fight: Political Socialization of Youth in Fascist Italy 1922–1943, Chapel Hill, North Carolina UP, 1985.

[9] Sui mondiali del 1934 cfr. R. Brizzi, N. Sbetti, Storia della Coppa del mondo di calcio (1930-2018). Politica, sport, globalizzazione, Firenze, Le Monnier, 2018, pp. 41-48 e il recentissimo R. Brizzi, N. Sbetti, La diplomazia del pallone, Storia politica dei mondiali di calcio (1930-2022), Firenze, Le Monnier, 2022.

[10] L'appassionato incontro Italia-Cecoslovacchia in «Il Popolo d'Italia», 12 giugno 1934.

[11] Sulla copertura offerta dalla carta stampata alla competizione cfr. P. Mugnai, La coppa del duce. I mondiali del 1934 dalle colonne del calcio illustrato, Roma, Edizioni Eraclea, 2001.Sulla stampa durante il fascismo cfr. N. Tranfaglia, P. Murialdi, M. Legnani, La Stampa Italiana nell’età fascista in Storia della stampa italiana, a cura di V. Castronovo, N. Tranfaglia, Bari-Roma, Laterza, 1980.

[12] Gentile, Op. cit., pp. 278-279.

[13] Su Vittorio Pozzo cfr. il recentissimo: D. Ronzulli, Vittorio Pozzo, il padre del calcio italiano, Bologna, Minerva Edizioni, 2022.

[14] V. Pozzo, Il dovere compiuto in «La Stampa», 11 giugno 1934.

[15] R. Brizzi, N. Sbetti, Storia della Coppa del mondo di calcio, cit., p. 47.

[16] Entusiasmi bresciani per la Juventus in «Guerin Sportivo», 18 aprile 1934; La Juve vince a Trieste, Ivi, 23 maggio 1933.

[17] Juventus -Bari 4-0 in «La Stampa», 7 novembre 1932; Sebbene Combi sia frequentemente assillato, il Palermo si trova sconfitto dai campioni che la spuntano con due calci di punizione in «Il Littoriale», 6 febbraio 1933; Juventus-Catania 2-2 in «La Stampa», 7 febbraio 1933; Juventus-Palermo 1-0, Ivi, 16 ottobre 1933; Napoli-Juventus 2-0, Ivi, 8 febbraio 1932; Napoli-Juventus 1-0, Ivi, 3 ottobre 1932.

[18] Papa, Panico, Op. cit., p. 159.

[19] J. Foot, Calcio: 1898-2007. Storia dello sport che ha fatto l’Italia, Milano, Rizzoli, 2007, pp. 222-223.

[20] Papa, Panico, Op. cit., p. 159.

[21] Sul caso Rosetta cfr. Foot, Op. cit., pp. 55-56; C. F. Chiesa, La grande storia del calcio italiano, in «Guerin Sportivo», novembre 2012; Agosti, De Luna, Op. cit., p. 92. Rosetta fu il primo, importante acquisto di Edoardo Agnelli diventato presidente della Juventus nel luglio del 1923 in un momento in cui ufficialmente il professionismo nel calcio era ancora bandito. Solo con la Carta di Viareggio nel 1926 il regime aprì una prima finestra, ammettendo l’esistenza di calciatori “non dilettanti”. L'abbraccio tra la società torinese e la famiglia Agnelli non era una novità nella scena calcistica italiana di quegli anni ma si inserì nel processo di crescita ed espansione che questo sport stava conoscendo. Nel 1909, ad esempio, Piero Pirelli aveva assunto la presidenza del Milan mentre nel 1924 il magnate Marone Cinzano patron della nota ditta di spumanti, assumeva quella del Torino. Su questo cfr. Foot, Op. cit., p. 38.

[22] Agli sportivi d'Italia, in «La Gazzetta dello Sport», 18 giugno 1933.

[23] Agosti, De Luna, Op. cit., p. 81. Sulla Contessa di Parma e il rapporto tra cinema e questo primo divismo calcistico cfr. anche G. De Luna, Cinema Italia: i film che hanno fatto gli italiani, Milano, Utet, 2021, pp. 69-70.

[24] Agosti, De Luna, Op. cit., p. 92.

[25] Tra i calciatori prediletti dall'allenatore bianconero Carlo Carcano, Borel ottenne subito la convocazione per i mondiali organizzati in Italia in quell'estate laureandosi così campione del mondo. Nella stagione successiva si confermò ai vertici del calcio italiano realizzando ben 32 marcature mentre negli anni successivi la sua carriera subì un brusco rallentamento a causa di continui infortuni. Grazie alle 29 reti segnate nel 1933 è ancora oggi il giocatore più giovane ad aver vinto la classifica dei marcatori nella storia del calcio italiano. Su di lui cfr.. Crespi, F. Zara, F. Zucchini, Felice Placido Borel (II) Sappino, Op. cit., v. I, p. 96; G. P. Ormezzano, Addio a un grande: Farfallino Borel e lo sport felice in «La Stampa», 23 febbraio 1993.

[26] Binda e la Juventus in «Guerin Sportivo», 5 aprile 1933.

[27] Oh che bella festa alla Juventus!..., Ivi, 14 giugno 1933.

[28] Ibid.

[29] Ibid.

[30] I campioni d'Italia tornano a casa, in «Il Littoriale», 1 maggio 1934.

[31] Ibid.

[32] Coi bianco-neri all'ultima tappa, in «Guerin Sportivo», 5 giugno 1935.

[33] Ibid.

[34] Radio Stampa in «La Stampa», 6 maggio 1934. Anche in Agosti, De Luna, Op. cit., p. 76.

[35] Ivi, p. 75.

[36] S. Patriarca, Italianità: la costruzione del carattere nazionale, Roma-Bari, Laterza, 2010, pp. 20-21.

[37] Ivi, p. 44 e p.63.

[38] Ivi, pp. 188-189.

[39] La Roma conferma la sua classe battendo per 5 goals a 0 la sua grande avversaria Juventus in «Il Littoriale», 16 marzo 1931; La Juventus è battuta a Bologna e la Roma pareggia con la Lazio in «La Stampa», 25 maggio 1931; La Lazio supera la Juventus in una partita emozionante in «Il Littoriale», 4 novembre 1934. Peraltro la Juventus riuscì quasi subito a prendersi una rivincita con punteggi altrettanto tennistici, segno di una certa caparbietà. Per esempio, nel 1932, un anno dopo la disfatta del Testaccio, i bianconeri travolsero a Torino la Roma per 7-1 e la stessa cosa avvenne con la Lazio che dopo aver vinto per 5-3 nel novembre del ʼ34, nel girone di ritorno venne regolata con un pesante 6-1. V. Pozzo, Juventus- Roma 7-1 in «La Stampa», 7 marzo 1932; L. Cavallero, Juventus-Lazio 6-1, Ivi, 18 marzo 1935.

[40] La forza morale è stata il primo coefficiente della vittoria della Juventus nel massimo torneo, in «La Gazzetta dello Sport», 26 giugno 1931.

[41] Saluto ai campioni, in «La Stampa», 30 aprile 1934.

[42] V. Pozzo, La brillante vittoria sull'Ambrosiana, Ivi, 22 giugno 1931.

[43] Questo e gli altri virgolettati sul campionato vinto nel 1932 in: V. Pozzo, Juventus-Brescia 3-0, Ivi, 30 maggio 1932.

[44] Il Bologna lanciato all'attacco con inesauribile baldanza è fermato e respinto dalle ferree retroguardie juventine, in «La Gazzetta dello Sport» 7 dicembre 1931.

[45] Ibid.

[46] Juventus-Bari 1-0, Ivi, 9 novembre 1931.

[47] Torino e Juventus 1-1, in «Il Littoriale», 1 giugno 1931.

[48] La sconfitta del Bologna, Ivi, 6 gennaio 1931.

[49] Juventus b. Legnano 2-1, Ivi, 27 aprile 1931.

[50] Brescia-Juventus 1-1, Ivi,15 giugno 1931.

[51] Juventus batte Fiorentina 2-1, Ivi, 25 gennaio 1932.

[52] La Fiorentina forte del ritorno in efficienza della mediana si appresta a interrompere la serie di vittorie della Juventus, Ivi, 9 gennaio 1933.

[53] La vittoria dei campioni allo stadio Berta, in «Corriere della Sera», 3 giugno 1935.

[54] Lo scudetto resta sulla maglia bianco-nera della Juventus!, in «Il Littoriale», 3 giugno 1935.

[55] P. Callegari, La Juventus. Storia, personaggi e vittorie di una grande squadra di calcio dal 1897 ad oggi, Milano, Mondadori, 1974, p. 65.

[56] Agosti, De Luna, Op. cit., p. 83.

[57] P. L. Tagiuri, Pur battendosi con ordine e vigore, la Lazio deve cedere alla Juventus per 2-0, in «Il Littoriale», 30 aprile 1934.

[58] La ripresa del campionato, in «Corriere della Sera», 20 maggio 1933.

[59] Agosti, Op. cit., p. 914.

[60] Patriarca, Op. cit., p. 55. Sul sentimento dell’invidia cfr. T. W. Smith, Shadenfreude: la gioia per le disgrazie altrui, Milano, Utet, 2019; V. D’Urso, Psicologia della gelosia e dell'invidia, Roma, Carocci, 2013, p. 120.

[61] Gli antipatici: Binda-Varzi-Juventus-Carraro in «Guerin Sportivo», 2 maggio 1933.

[62] Ibid.

[63] Ibid.

[64] La tenace Juventus resiste alla foga della Salernitana: 0-0, in «La Stampa Sera», 19 gennaio 1948; Una partita brutta, un pessimo campo, accoglienze ostili, in «La Stampa», 30 luglio 1946; Solo un pareggio della Juventus a Napoli, in «Corriere d'Informazione», 30 luglio 1946.