Calcio e identità

Le conseguenze dell’italianizzazione forzata della Venezia Giulia su due giocatori istriani, Rodolfo Ostroman e Bruno Scher

Edoardo Molinelli

Università di Firenze

Abstract:  The phenomenon of the Italianisation of anthroponyms and place names within the territories acquired by the Kingdom of Italy at the end of the First World War is a topic that has enjoyed increasing attention in more recent historiography. Less investigated, however, have been the consequences of this process on the lives and careers of the athletes from these areas, and especially the Istrian footballers of Slavic or Germanic origin who were great protagonists in the Serie A of the Ventennio. While some agreed to Italianise their surnames, others decided to keep their original form and had to face the consequences of their choice. Among them were Rodolfo Ostroman and Bruno Scher, on whose sporting events this contribution focuses.

Keywords: Venezia Giulia, Italianisation, Istrian footballers

L’italianizzazione della Venezia Giulia

L’opera di nazionalizzazione forzata ebbe inizio con la spartizione dei territori perduti dall’Impero austroungarico al termine della guerra, che portò in dote all’Italia le due nuove regioni della Venezia Tridentina (comprendente Trento, Bolzano e Tirolo meridionale) e della Venezia Giulia (formata da Gorizia, Trieste, Istria e la città di Zara in Dalmazia). In quest’ultima, a dispetto dell’immagine di territorio prettamente italiano proposta dalla propaganda irredentista, prima del conflitto viveva una popolazione estremamente variegata dal punto di vista etnico, con una divisione tra la costa, a prevalenza italofona, e l’interno, abitato da una larga maggioranza di sloveni e croati[1]. Il governo italiano decise immediatamente di non seguire l’esempio di amministrazione plurilingue e plurinazionale dell’ex Austria-Ungheria e promosse a classe dirigente quella che Paolo Parovel definisce la «ricchissima lobby irredentista»[2], che in realtà non rappresentava la maggioranza neppure all’interno della comunità italofona. Dal 3 novembre 1918, giorno dell’ingresso a Trieste del generale e nuovo governatore Petitti di Roreto, alla fine della seconda guerra mondiale, nella Venezia Giulia si susseguì una lunga serie di leggi discriminatorie (acuitesi dopo l’irruzione sulla scena politica del fascismo con l’incendio del Narodni dom, il 13 luglio 1920[3]), che andarono a colpire l’amministrazione pubblica, il sistema scolastico e le manifestazioni linguistiche e culturali (rappresentate da case del popolo, biblioteche, sedi politiche e religiose, giornali) dei gruppi etnici non italiani, nonché quegli stessi italiani che non dimostravano ostilità verso gli slavi.

La repressione coinvolse anche i toponimi e gli antroponimi, che fin dal 1919 furono sottoposti a periodiche campagne di italianizzazione. Un aspetto che potrebbe essere ritenuto meno importante a fronte della chiusura delle scuole o al divieto di utilizzare la propria lingua in pubblico, ma che in realtà ebbe conseguenze disastrose poiché minò profondamente l’identità collettiva e personale di chi lo subì, contribuendo a facilitare l’opera di sradicamento culturale degli slavi e delle minoranze etniche; Parovel, non a caso, lo ritiene il momento culminante della nazionalizzazione forzata della Venezia Giulia[4]. Per diversi anni il processo di italianizzazione fu piuttosto lento: dal 1919 al 1923 venne sfruttata una legge austriaca che permetteva il cambio di cognome, ma a richiederlo furono per lo più irredentisti convinti in numero non elevato (circa 300 a Trieste, mentre in Istria si procedette d’ufficio); nel 1923 entrò in vigore l’ordinamento giuridico italiano e alle procedure di cambio del cognome fu applicata una tassa, a causa della quale in breve tempo vi fu una drastica diminuzione delle domande. Il regime corse ai ripari quattro anni più tardi: il 7 aprile 1927, infatti, fu emanato il Regio Decreto n. 494, che estese a tutti i territori della Venezia Giulia le norme sulla «restituzione» e sulla «riduzione» in lingua italiana dei cognomi delle famiglie della provincia di Trento, approvate con il RDL n. 17 del 10 gennaio 1926[5]. Furono costituite delle commissioni consultive per la restituzione dei cognomi in forma italiana, la principale delle quali fu quella di Trieste presieduta dal consigliere di prefettura Aldo Pizzagalli, un pesarese che aveva preso servizio in città nel 1919. I criteri adottati dalla commissione, fortemente debitori dell’opera di italianizzazione dell’Alto Adige di Ettore Tolomei[6], furono descritti qualche anno più tardi dallo stesso Pizzagalli nel libro Per l’italianità dei cognomi nella provincia di Trieste, pubblicato nel 1929.

La premessa dell’intervento trovava la sua giustificazione nella teoria secondo la quale i cognomi degli italiani (considerati la popolazione autoctona della Venezia Giulia) erano stati “imbastarditi” dagli stranieri, definiti «allogeni» o «alloglotti», che nel corso del tempo li avevano slavizzati e germanizzati soprattutto attraverso l’opera di trascrizione dei sacerdoti nei registri parrocchiali[7]. La commissione stilò un elenco contenente oltre 2.000 cognomi a suo giudizio disitalianizzati e procedette alla loro restituzione, ovvero al ripristino d’ufficio della loro forma originaria, da utilizzare in via esclusiva pena il pagamento di una multa; nei casi dei cognomi apertamente stranieri la richiesta di cambiamento (definita riduzione) poteva provenire soltanto dai diretti interessati, particolare che comunque non garantì l’assenza di ingerenze da parte delle autorità italiane, specie nel caso dei dipendenti statali come funzionari pubblici e insegnanti[8]. I criteri adottati per l’italianizzazione andavano dalle modifiche nella grafia (da Vekjet a Vecchiet) alla soppressione dei suffissi (Benedettich ridotto in Benedetti), fino ad arrivare ai casi di vere e proprie traduzioni (Vodopivec divenuto Bevilacqua)[9]. La grande arbitrarietà dei processi di riduzione portò a trasformazioni differenti degli stessi cognomi[10] e a situazioni talvolta paradossali, come nel caso dei familiari con cognomi ridotti in forma diversa[11], trovando perciò una certa resistenza da parte della popolazione nonostante la campagna persuasiva del regime, attuata sia attraverso la stampa amica (in prima fila «Il Piccolo» di Trieste), sia per mezzo di una politica coercitiva non esplicita ma praticata in primis sui luoghi di lavoro. Come scrisse Pizzagalli: «Non era lecito […] costringere; ma consigliare, suggerire, convincere, sì»[12]. È vero, comunque, che molte richieste di riduzione furono dovute all’adesione più o meno spontanea della popolazione, sia per convinzioni nazionalistiche, sia per ragioni pragmatiche, come la volontà di rendere i cognomi più facili da pronunciare o la speranza di migliorare la propria posizione economica e sociale[13].

L’attività di italianizzazione dei cognomi, iniziata con l’insediamento della commissione e proseguita fino al termine della Seconda guerra mondiale, secondo le stime di Parovel coinvolse non meno di 500.000 persone in tutta la Venezia Giulia[14]. Tra coloro che la evitarono, fatta eccezione per alcuni casi di cognomi stranieri all’apparenza italiani, vi furono per la maggior parte membri di famiglie vicine al regime o di provata fede irredentista[15], oppure individui volutamente ignorati perché poco rilevanti dal punto di vista sociale o isolati dai principali centri della regione, come gli abitanti delle zone interne a maggioranza slava; tuttavia, vi fu anche chi decise di opporsi apertamente alle misure del regime, sfidando discriminazioni, emarginazioni e sanzioni pecuniarie.

Il calcio di fronte all’italianizzazione: il caso di Rodolfo Ostroman

Anche nel mondo del calcio le reazioni di fronte all’opera di nazionalizzazione forzata furono diverse. Molti giocatori della Venezia Giulia, tra i quali atleti di primissimo piano come Luigi Colàusig, Antonio Vojak e Rodolfo Volk, scelsero di modificare il proprio cognome. Il gradiscano Colàusig, più noto come Gino Colaussi, fu l’ala sinistra della nazionale italiana vincitrice della Coppa del Mondo nel 1938, competizione durante la quale segnò quattro reti (compresa una doppietta nella finale contro l’Ungheria)[16]; il polese Vojak, attaccante di Juventus e Napoli, nel dicembre 1932 italianizzò il proprio cognome in Vogliani[17], mentre il fiumano Volk, capocannoniere della serie A nel 1930/31 con la maglia della Roma, divenne Folchi. Altri giocatori mantennero invece il loro cognome d’origine, come fecero ad esempio i fiumani Mario e Giovanni Varglien, cinque volte vincitori dello scudetto con la Juventus[18], e Marcello Mihalich, interno di grande talento con una presenza in nazionale nel 1929.

Come nota Valerio Moggia, al di fuori di Colaussi l’apporto dei giocatori della Venezia Giulia alla maglia azzurra durante il fascismo fu assolutamente trascurabile: furono infatti soltanto sei le apparizioni totali con l’Italia di Vojak, Mihalich e dei Varglien nel periodo precedente la Seconda guerra mondiale[19]. Se in alcuni casi le vicende sportive ebbero un certo peso[20], è indubbio che il regime non vedesse di buon occhio atleti di evidente origine “straniera” in nazionale. La stessa federazione che non si faceva problemi a schierare oriundi dai cognomi italiani (come gli argentini Enrique Guaita, Luis Monti, Raimundo Orsi e il brasiliano Amphilóquio Guarisi, campioni del mondo nel 1934, o l’uruguaiano Miguel Andreolo, titolare della nazionale vincitrice nel 1938) era al contempo restia a dare spazio agli allogeni, che ricordavano l’incompletezza del processo di italianizzazione delle terre una volta irredente.

Non va dimenticato, inoltre, il ruolo del razzismo antislavo[21], particolarmente acuitosi durante il ventennio. La visione dello slavo come “buon selvaggio”, presente nella popolazione giuliano-dalmata di lingua italiana dalla fine del Settecento, «dopo il periodo rivoluzionario del 1848 [...] si adeguò alla nuova realtà: lo slavo veniva sempre più spesso rappresentato come il barbaro incolto, rozzo, primitivo nella lingua e nelle sue idee. Qualche decennio più tardi [...] accanto allo stereotipo dell’invasore e dell’usurpatore gliene si affibbiò un altro, quello del sovvertitore ideologico»[22]. Durante il fascismo tale pregiudizio, già rafforzatosi nei primi anni del Novecento, si inasprì fino al punto che gli slavi «non furono più identificati come diversi per cultura, lingua e costumi, tutti elementi utili alla contrapposizione noi/loro in un contesto di nation building. Bensì in essi si ravvisò il nemico politico, interno ed esterno al tempo stesso»[23]. Sloveni e croati furono dipinti come «popoli privi di cultura e di civiltà autonoma, non degni di avere un passato» e come un «corpo estraneo, “straniero” tout court o comunque frutto di “invasione”, [...] a suggerire la figura di colui che ruba la patria, il territorio all’italiano»[24].

Nel caso dei calciatori della Venezia Giulia con cognomi non italiani, il razzismo antislavo si saldò con la visione fascista dello sport e con la sua intenzione di creare una vera e propria “razza sportiva”: «Soprattutto le competizioni sportive internazionali si prestavano alla retorica sulla “razza italica” capace di primeggiare sulle altre nazioni. I successi in campo internazionale erano rappresentati come la prova della capacità del regime di forgiare una “razza sportiva” in funzione del prestigio e della grandezza della nazione, simbolo della salute e dell’energia di un popolo “giovane” che ambiva al suo “posto al sole”»[25]. In un contesto simile, il mondo del calcio si trovò a considerare accettabili oriundi e slavi italianizzati, mentre non ebbe lo stesso grado di tolleranza verso gli allogeni dal cognome “straniero”. Questo atteggiamento discriminatorio, ovviamente, non fu mai rivendicato con chiarezza dagli organi federali né denunciato dalla stampa sportiva fascistizzata; tuttavia, pregiudicò le carriere di molti calciatori istriani.

Uno di loro fu Rodolfo Ostroman[26], centravanti nato a Pola il 22 dicembre del 1903 e cresciuto calcisticamente nell’Associazione sportiva Edera. Grazie a due buoni campionati di Seconda divisione disputati con i polesi si fece un nome sulla scena nazionale, tanto da essere ingaggiato dal Milan per la stagione 1924/25. I rossoneri erano allenati da Vittorio Pozzo, ma non avevano una rosa per competere nelle prime posizioni; Ostroman al primo anno si rivelò comunque uno dei migliori e realizzò 18 reti in 21 partite, secondo goleador della Prima divisione alle spalle del livornese Mario Magnozzi. Fu durante questo primo anno in massima serie che incrociò la maglia azzurra, seppur di sfuggita, giocando una partita di allenamento Italia-Milan in previsione di un incontro amichevole tra gli azzurri e la Svezia. Pur non segnando, il centravanti polese disputò una buona partita: «Santagostino ha marcato poco dopo, imparabilmente, l’unico punto per gli allenatori dei quali si sono distinti Banas e Ostromann»[27]. Nonostante le grandi prestazioni in campionato, tuttavia, la nazionale gli fu sempre preclusa: la commissione tecnica in carica, formata da Augusto Rangone, Giuseppe Milano e Guido Baccani, aveva infatti deciso di puntare sull’oriundo argentino Julio Libonatti, centravanti del Torino. Secondo Luca Dibenedetto a influire sulla mancata convocazione di Ostroman sarebbero state anche le origini non italiane del milanista, a cui sarebbe stato suggerito di cambiare il cognome in Pasqualini (Oster significa infatti Pasqua in tedesco); il suo netto rifiuto gli avrebbe chiuso le porte della squadra azzurra, definitivamente serrate dopo il gravissimo infortunio che subì alla prima giornata del campionato 1925/26 e che lo tenne fuori per l’intera stagione, condizionandone pesantemente il prosieguo della carriera[28].

Al di là delle ipotesi, la difficoltà degli istriani allogeni a trovare un posto in nazionale era ben nota ai giocatori dell’epoca, come confermano due interviste apparse nel 1976 e nel 1986 su «L’Arena di Pola», il mensile dell’Associazione italiani di Pola e Istria, a Egidio Defranceschi (ex di Edera, Grion e Monfalconese, con cui disputò tre stagioni in serie B) e Angelo Schiavio, leggendario centravanti del Bologna e campione del mondo nel 1934. Sollecitato dal giornalista a esprimere un giudizio su Vojak, Defranceschi dichiarò che questi «era da nazionale permanente, solo che aveva il cognome esotico […] ed era istriano, pertanto per lui, come per Ostromann, la nazionale era tabù»[29]. Anche Schiavio, riflettendo sulla scarsa fortuna di Vojak con la maglia azzurra, indicò una probabile spiegazione nella provenienza del giocatore: «Quel nome così poco italiano, di origine cecoslovacca o ungherese, […] era pregiudizievole. A quei tempi […] a queste cose si teneva»[30].

Ostroman riprese a giocare nell’ottobre del 1926 e tornò a segnare il 14 novembre in Livorno-Milan 1-2, ma non era più il giocatore di prima dell’infortunio. Lasciato il Milan per accasarsi alla Triestina nel 1928, ebbe un acuto nella Divisione nazionale 1928/29 segnando 17 reti, che si ridussero a 6 nel successivo torneo di serie A con gli alabardati. Passato senza lasciare traccia dal Legnano, con il quale retrocesse in B, giocò una buona stagione in cadetteria con il Cagliari guidato da Ernő Erbstein. Alla soglia dei trent’anni decise di tornare a casa e fu ingaggiato dal Gruppo Sportivo Fascio Giovanni Grion di Pola, storico rivale dell’Edera, con cui giocò due campionati di serie B sempre conclusi con la salvezza e realizzò un totale di 10 reti. Una volta ritiratosi aprì un bar ed ebbe un fugace rientro nel mondo del calcio: subentrò infatti come allenatore del Grion nel dicembre 1942 e portò la squadra al quinto posto nel girone A di serie C, l’ultimo campionato ufficiale disputato dai nerostellati.

Dopo la guerra, durante la quale prestò servizio come portaferiti a Pola[31], Rodolfo e il fratello Vittorio scelsero di restare in città, passata sotto il controllo della Jugoslavia di Tito. Secondo Dibenedetto questa decisione sarebbe stata dovuta alla loro fede comunista[32], confermata da un articolo dell’«Arena di Pola» del 1949: «E quei fratelli Ostromann che, dopo essersi votati anima e corpo a Tito […], giunsero al punto di rincorrere col coltello alcuni giovani italiani che durante l’esodo di Pola inneggiavano all’Italia e chiedevano che fosse tolto il ritratto di Tito dalla loro bettola?»[33]. Sotto il regime titino Ostroman non ebbe comunque una vita facile: le autorità chiusero più volte le sue attività commerciali e lui finì in prigione per diversi mesi. Morì il 5 settembre 1960.

Il rifiuto di Bruno Scher

Ancora più travagliata fu la parabola sportiva di Bruno Scher, nato il 10 dicembre del 1907 a Capodistria (Koper). Dopo aver debuttato nel campionato di Terza divisione del 1924/25 con la squadra della sua città, fu prelevato dalla Triestina ed esordì in Prima divisione nel 1928 al fianco di Ostroman, appena arrivato dal Milan. Scher, tuttavia, non riuscì a trovare continuità e ripartì dalle serie inferiori, affermandosi finalmente in serie B al Lecce, con cui disputò 59 partite (e segnò sei reti) nei campionati di serie B del 1930/31 e 1931/32. Il Bari se ne assicurò le prestazioni per la stagione successiva. Il capodistriano era un giocatore maturo, un centrocampista dinamico dotato di tecnica e mezzi fisici, con un ottimo colpo di testa e un potente tiro da fuori[34], e a 25 anni era pronto per sfruttare la seconda occasione in A. Le cose, però, non andarono bene: Erbstein, allenatore dei pugliesi, fu esonerato dopo appena sette partite, il Bari retrocesse e Scher mise insieme solo 8 presenze, riuscendo comunque a segnare i primi gol nel massimo campionato.

La sua carriera subì a questo punto un primo arresto. Dalla serie A si trovò infatti ceduto alla Lucchese in Prima divisione (in quel momento terzo campionato nella piramide calcistica italiana), compiendo dunque un doppio balzo all’indietro. Pur non essendovi prove certe, secondo alcuni autori questa “retrocessione” sarebbe stata figlia di due rifiuti: quello di italianizzare ulteriormente il cognome, aggiungendovi il suffisso -ri[35], e quello di aderire formalmente al Partito nazionale fascista (PNF), motivato dalla non celata fede comunista. È questa l’interpretazione del giornalista Dominic Bliss[36] e di Marco Vignolo Gargini[37], mentre Luca Dibenedetto, che a Scher ha dedicato un approfondito profilo biografico, propende invece per la scelta tecnica di Erbstein, tecnico dei toscani, che lo avrebbe voluto a tutti i costi con sé dopo averlo allenato a Bari[38].

Quale che fosse il motivo, l’istriano si trasferì a Lucca[39] ed Erbstein lo trasformò da interno offensivo a centromediano metodista, ricevendo in cambio grandi prestazioni che contribuirono all’immediata promozione in serie B nel 1933/34. La Lucchese non si fermò e riuscì a salire in serie A nel 1936, rimanendovi per tre stagioni; Scher, tuttavia, ne disputò soltanto due, perché se ne andò al termine del campionato 1937/38. In questo caso sulle motivazioni tutt’altro che sportive della sua scelta c’è ampia concordanza: l’istriano avrebbe rifiutato di accondiscendere a una nuova richiesta di italianizzare il proprio cognome in Scherri, avanzata stavolta da un dirigente della squadra vicino ai maggiorenti locali del PNF, e sarebbe stato costretto a lasciare Lucca, anche a causa delle proprie idee politiche[40].

Dopo un anno d’inattività riprese a giocare nel Siderno, in serie C, ma non tornò più ad alti livelli. Nel 1940 si avvicinò a casa passando al Pieris, ancora in C, per poi ritirarsi dopo un’ultima stagione giocata con l’Ampelea di Isola d’Istria (Izola) nel 1942/43. Nel dopoguerra allenò per qualche anno l’Aurora Capodistria nei tornei organizzati dall’Unione dei Circoli di Educazione Fisica (UCEF), federazione sportiva filo-jugoslava della Venezia Giulia e del Territorio Libero di Trieste.

Trasferitosi a Muggia nel 1955, due anni più tardi fu chiamato dal vecchio compagno di squadra Olivieri, divenuto allenatore della Triestina, che ne apprezzava la conoscenza del gioco e lo avrebbe voluto come secondo. Al termine dell’esperienza dell’ex portiere a Trieste, tuttavia, Scher non lo seguì a Verona, chiudendo di fatto la sua carriera sportiva. Morì a Muggia nel 1978.

Conclusioni

Le vicende di Ostroman e Scher, due giocatori professionisti di valore ma non paragonabili ai migliori giocatori istriani degli anni ’30, rappresentano in modo forse più efficace rispetto ai vari Vojak o Mihalich le discriminazioni a cui per oltre vent’anni furono sottoposte le popolazioni allogene della Venezia Giulia. Pur appartenendo a una categoria privilegiata e militando in formazioni della massima serie, essi dovettero scontrarsi con l’ossessione italianizzatrice del regime e pagarono sulla propria pelle le conseguenze del dissenso. Un esempio significativo, per quanto limitato, dell’opera di cancellazione culturale che centinaia di migliaia di persone considerate straniere furono costrette a subire durante il fascismo.



[1] L’ultimo censimento prima della guerra, risalente al 1910 ed effettuato sulla lingua d’uso, riportava questi numeri: 51% di lingua slovena e croata assieme, 38% di lingua italiana, 1% di altre lingue (tedesco, serbo, greco, albanese, ecc.). P. Parovel, L’identità cancellata. L’italianizzazione forzata dei cognomi, nomi e toponimi nella “Venezia Giulia” dal 1919 al 1945, con gli elenchi delle province di Trieste, Gorizia, Istria ed i dati dei primi 5.300 decreti, Trieste, Eugenio Parovel, 1985, pp. 11-12.

[2] Ivi, pp. 16-17.

[3] Il Narodni dom era la sede delle principali associazioni della comunità slovena di Trieste e rappresentava dunque il principale obiettivo dei fascisti locali, guidati dall’avvocato toscano Francesco Giunta. Il 13 luglio 1920, prendendo a pretesto l’uccisione di un capitano di vascello italiano a Spalato, gli squadristi assaltarono il palazzo e lo incendiarono completamente (cfr. P. Purini, Metamorfosi etniche. I cambiamenti di popolazione a Trieste, Gorizia, Fiume e in Istria. 1914-1975, Udine, Kappa Vu, 2010, pp. 71-74).

[4] Cfr. Parovel, Op. cit., p. 20.

[5] M. Tasso, Fascismo e cognomi: italianizzazioni coatte nella provincia di Trieste, in «Quaderni Italiani di RIOn», n. 3, 2011, p. 312.

[6] Tolomei, convinto irredentista e alpino volontario durante la Grande guerra, aveva aderito al fascismo nel 1921 ed era divenuto senatore nel 1923; in quello stesso anno aveva fatto approvare i Provvedimenti per l’Alto Adige, una serie di indicazioni per l’italianizzazione di luoghi, nomi e cognomi altoatesini. L’opera di Tolomei si sarebbe rivelata più efficace per i toponimi che per gli antroponimi, incontrando in quest’ultimo caso una notevole resistenza sia a causa del prestigio del mondo culturale germanico, sia per la vicinanza sempre maggiore tra l’Italia fascista e la Germania nazista. Cfr. A. Di Michele, L’italianizzazione imperfetta. L’amministrazione pubblica dell’Alto Adige tra Italia liberale e fascismo, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2003 e M. Tasso, Fascismo e cognomi: il fallito onomasticidio di Stato altoatesino, in «Rivista Italiana di Onomastica RIOn», n. 2, 2018, pp. 721-746.

[7] R. Wörsdorfer, Il confine orientale. Italia e Jugoslavia dal 1915 al 1955, Bologna, il Mulino, 2009 (e-book), cap. 3.

[8] Parovel, Op. cit., pp. 25-26.

[9] Tasso, Fascismo e cognomi: italianizzazioni coatte nella provincia di Trieste, cit., pp. 315-316.

[10] Come riporta Rolf Wörsdorfer, «il nome Antic fu reso con Antoni a Trieste e con Anti a Pola. Una delle variazioni più frequenti sembra fosse quella del cognome Galić, trasformato in cognomi diversi a seconda dei luoghi: Gallo, Gallino, Gallini, Galti e così via» (cfr. Wörsdorfer, Op. cit., cap. 3).

[11] Emblematico il caso dei quattro fratelli Covacich, il cui cognome fu ridotto in quattro forme: Covacci, Covelli, Fabbri e Fabbroni (cfr. P. Purini, Op. cit., p. 61).

[12] In Tasso, Fascismo e cognomi: italianizzazioni coatte nella provincia di Trieste, cit., p. 317.

[13] M.E. Hametz, In the Name of Italy. Nation, Family, and Patriotism in a Fascist Court, New York, Fordham UP, 2012, p. 90.

[14] Parovel, Op. cit., p. 28.

[15] Tra le grandi famiglie che mantennero il proprio cognome vi furono i Cosulich, ricchissimi armatori di Monfalcone che avevano finanziato i primi squadristi della zona, e i Suvich (uno di loro, Fulvio, fu poi sottosegretario alle Finanze e agli Esteri). Giani Stuparich, medaglia d’oro al valor militare della Prima guerra mondiale, pur non essendo vicino al fascismo evitò l’italianizzazione forzata in virtù del suo passato eroico (cfr. R. Pupo, Adriatico amarissimo. Una lunga storia di violenza, Bari-Roma, Laterza, 2021, p. 68).

[16] Sulle implicazioni dell’italianizzazione di Colaussi cfr. N. Falchi, Gino Colaussi ed Ettore Valcareggi. Mito e “contromito” dell’italianizzazione sportiva a Trieste, in «Storia dello Sport. Rivista di studi contemporanei», n. 1, 2019, pp. 41-52.

[17] La notizia fu riportata da «Il Littoriale» con queste parole: «Apprendiamo di un opportunissimo gesto compiuto da Vojac; tanto più bello in quanto che i sentimenti nulla hanno a che vedere con la disgrazia di un cognome esotico»: Bravo Vojac!, in «Il Littoriale», 1 dicembre 1932.

[18] Mario Varglien venne convocato da Vittorio Pozzo per il campionato del mondo del 1934, che vinse pur senza scendere in campo. Con l’Italia giocò solo una volta, mentre Giovanni collezionò tre presenze in azzurro.

[19] V. Moggia, Storia popolare del calcio. Uno sport di esuli, immigrati e lavoratori, Roma, Ultra, 2020 (e-book), cap. 4.

[20] Mihalich, per esempio, si ruppe un braccio prima di una partita contro la Svizzera nel febbraio 1930 e fu sostituito da Giovanni Ferrari, uno degli interni più forti della storia del calcio, che non perse più il posto da titolare (cfr. I. Kramarsich, Manzelin, la gloria di Napoli, in «La Voce del Popolo», 11 novembre 2002).

[21] Per approfondire questo tema cfr. E. Collotti, Sul razzismo antislavo, in A. Burgio (a cura di), Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d’Italia 1870-1945, Bologna, il Mulino, 1999, pp. 33-61.

[22] M. Verginella, Antislavismo, razzismo di frontiera?, in «aut aut», n. 349, 2011, p. 33.

[23] T. Catalan, L’antislavismo a Trieste. Vecchi e nuovi stereotipi nella stampa satirica del Novecento, in «Memoria e Ricerca», n. 59, 2018, p. 4.

[24] Collotti, Op. cit., pp. 53-54.

[25] A. Molinari, Sport e razzismo. Il fascismo e la “razza sportiva”, in «Novecento.org», n. 16, 2021.

[26] Secondo Luca Dibenedetto il cognome del padre di Rodolfo, Bepi Ostermann, dopo la guerra fu trascritto erroneamente dall’anagrafe; ciò portò a due diverse grafie per i suoi undici figli, Ostroman e Ostromann, e a Rodolfo toccò la prima, nonostante gli venga talvolta attribuita la forma con due “n” (cfr. L. Dibenedetto, I pionieri alabardati. Storia della Triestina dal 1918 al 1929, s.l., s.n., 2012, p. 80).

[27] L’ultimo allenamento degli azzurri prima dell’incontro Italia-Svezia, in «Corriere della Sera», 13 novembre 1924, p. 4.

[28] L. Dibenedetto, I pionieri alabardati, cit., p. 84.

[29] E. Tomasini, I fratelli Defranceschi, tra i pionieri del calcio, in «L’Arena di Pola», 9 novembre 1976, p. 346.

[30] Id., A tu per tu con Angelo Schiavio campione del mondo del ’34, in «L’Arena di Pola», 4 gennaio 1986, p. 7.

[31] Il nome di Ostroman compare nell’elenco dei portaferiti del Pronto soccorso di via Flaccio, uno dei numerosi allestiti nei ricoveri antiaerei durante i bombardamenti alleati di Pola tra il 9 gennaio 1944 e il 3 marzo 1945 (cfr. R. Marsetič, I bombardamenti alleati su Pola 1944-1945. Vittime, danni, rifugi, disposizioni delle autorità e ricostruzione, Rovigno-Trieste, Centro di Ricerche Storiche, 2004, p. 26).

[32] L. Dibenedetto, I pionieri alabardati, cit., p. 88.

[33] La calata dei “Druse”, in «L’Arena di Pola», 3 agosto 1949, p. 4.

[34] L. Dibenedetto, La favola dell’Ampelea. 1923-1955 trentadue anni di calcio a Isola d’Istria, Cusano Milanino (MI), Techno Media Reference, 2007, s.p.i.

[35] Scher era una delle forme di riduzione del cognome Škerl in Istria, insieme a Seri, Serli, Serri e Servi (cfr. Parovel, Op. cit., p. 101).

[36] D. Bliss, Ernő Egri Erbstein. Trionfo e tragedia dell’artefice del Grande Torino, Milano, Cairo, 2019, pp. 138-139.

[37] M. Vignolo Gargini, Calciodangolo, Civitavecchia, Prospettiva, 2013, p. 21.

[38] L. Dibenedetto, La favola dell’Ampelea, cit., s.p.i.

[39] Scher fu peraltro il primo di una serie di giocatori che vestirono la maglia della Lucchese e che, in tempi e modi diversi, avrebbero manifestato la propria opposizione al regime fascista: Bruno Neri, morto nel 1944 da partigiano; Aldo Olivieri, il futuro portiere dell’Italia campione del mondo nel 1938; gli anarchici Libero Marchini e Gino Ferrer Callegari.

[40] Cfr. Bliss, Op. cit., p. 165; D. Casini-L. Tronchetti, Mi ritorni in mente. Lucchese tra storia e leggenda, Lucca, Tralerighe, 2018, p. 194; Dibenedetto, La favola dell’Ampelea, cit., s.p.i.